2024-10-09
«600 milioni sottratti alle opere». Vertici di Autostrade sotto inchiesta
Gilberto Benetton e Giovanni Castellucci (Imagoeconomica)
Accuse di falso in bilancio per sette persone, fra cui l’ad Roberto Tomasi e il suo predecessore Giovanni Castellucci: avrebbero gonfiato patrimonio e dividendi per Benetton & C. usando i fondi previsti per i miglioramenti della rete.Nel 2022 avevamo già raccontato di un’inchiesta nata da un esposto partito da Genova dopo il crollo del ponte Morandi, che metteva in luce la stupefacente abilità dei Benetton di accumulare extraprofitti, quasi come se avessero scoperto il segreto per stampare denaro, maggiorando i pedaggi al casello senza intervenire sulle opere. Anche se di quell’indagine si sono perse le tracce, nel 2024 è stato aperto un fascicolo gemello, o forse uno stralcio, che analizza la contabilità creativa di Autostrade per l’Italia nel 2017 e 2018, e dal quale sarebbe emerso lo stesso meccanismo: invece di inserire nel bilancio i fondi provenienti dalla maggiorazione dei pedaggi per migliorare la rete autostradale alla voce costi della produzione a titolo di «altri accantonamenti», a partire dal 1998, come previsto da un apposito decreto ministeriale, hanno inserito dal 2017 al 2022 (i ritocchini ai bilanci precedenti sono prescritti) un cifra oscillante tra i 548 milioni di euro e i 611 (nel 2022) nel patrimonio netto, maggiorando quello reale di almeno il 25 per cento. Un tesoretto che in parte è stato distribuito in dividendi. Questa seconda indagine ha portato all’iscrizione sul registro degli indagati di Giovanni Castellucci, all’epoca amministratore delegato di Atlantia, di Fabio Cerchiai, in quel momento presidente di Atlantia, di Elisabetta Olivieri, presidente del cda di Autostrade dal 2022, di Roberto Tomasi, direttore generale di Autostrade dal 2019, di Giuliano Mari, presidente di Autostrade dal 2019, di Alberto Milvio, direttore finanziario di Autostrade dal 2019, e di Giancarlo Guenzi, direttore finanziario fino all’insediamento di Milvio. Stando alle accuse che i pm Fabrizio Tucci e Lorenzo Del Giudice riassumono nei capi d’imputazione riportati in un invito a comparire per rendere interrogatorio, gli indagati avrebbero agito per ottenere e far ottenere ai soci di Aspi un «profitto ingiusto», gonfiando gli utili «da distribuire sotto forma di dividendi superiori». Inoltre, sarebbe stata fatta risultare «all’esterno una redditività aziendale superiore al valore effettivo» che avrebbe valorizzato «il titolo in Borsa». Come? «Nei bilanci, nelle relazioni e nelle altre comunicazioni sociali rivolte ai soci e al pubblico», gli indagati avrebbero, secondo l’accusa, «consapevolmente» esposto «fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero, omettendo fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società, in modo idoneo a indurre altri in errore». Le comunicazioni sociali, a leggere la descrizione degli inquirenti, sembrano essere diventate una sagra delle omissioni e delle falsità, dove il bilancio somiglia più a un racconto di fantasia che a un documento contabile. In particolare, i magistrati spiegano che gli indagati avrebbero violato una direttiva del 1998 (nota come «direttiva Ciampi-Costa»), che sarebbe stata anche «esplicitamente richiamata nel bilancio», omettendo «di procedere all’accantonamento di un apposito fondo riguardante i maggiori introiti derivanti dall’incremento delle tariffe riconosciuto per effetto della delibera Cipe del 20 dicembre 1996». Ad Autostrade sarebbe stato quindi permesso di aumentare i pedaggi per finanziare alcune opere previste dal Cipe, come il potenziamento del tratto autostradale Firenze Incisa; le terze corsie nelle tratte (A1) Roma-Orte, (A8) Milano Laghi, (A14) Tangenziale di Bologna e altri residui investimenti. «Nel bilancio di esercizio chiuso al 31 dicembre 1997», però, gli indagati avrebbero omesso «di riferire in nota integrativa, nelle relazioni e nelle altre comunicazioni, l’obbligo di accantonamento per i maggiori introiti derivanti dall’incremento delle tariffe», oltre a «non eseguire l’accantonamento». Che per il 2017 ammontava proprio alla cifra di 5.973.950 euro.Nel conto economico, poi, alla voce «Risultato prima delle imposte» avrebbero piazzato quei quasi 6 milioni di euro nell’utile di esercizio, facendolo crescere a dismisura. Ma i trucchetti contabili non sono finiti: avrebbero «falsamente» esposto «nello stato patrimoniale», alla voce «Patrimonio netto», un importo «indebitamente maggiorato», dichiarando un valore da 1.986.808.214 euro al posto del reale importo, ovvero 1.438.290.994. Distraendo dagli accantonamenti i 548.517.220 (il valore del fondo rivalutato al 31 dicembre 2017) che, secondo gli inquirenti, «avrebbe dovuto essere accantonato nel bilancio sin dal 1998». In sostanza i 548.517.222 euro avrebbero permesso ai soci di ridistribuirsi gli utili. Il reato sarebbe stato commesso a Roma il 20 aprile 2018 all’atto di approvazione del bilancio da parte dell’assemblea degli azionisti. Ma probabilmente, ed è questo il passaggio che stanno cercando di ricostruire gli investigatori, lo stesso trucchetto sarebbe passato di bilancio in bilancio fino al 2022 (con cifre che oscillano di poco, dai 548 milioni del 2017 ai 611 milioni del 2022), visto che tra gli indagati ci sono i vertici del primo bilancio incriminato ma anche quelli che hanno ricoperto cariche negli anni a seguire. Il tesoretto insomma sarebbe stato usato anno dopo anno proprio per permettere maggiori dividendi. La società, poi, essendo quotata in Borsa e sottoposta alla vigilanza della Consob, con un certo savoir faire avrebbe comunicato dati falsi sulla sua situazione finanziaria, ostacolando con questa strategia, secondo l’accusa, il controllo e la supervisione della commissione. Da qui la contestazione di aggiotaggio. E per completare l’opera si sarebbero serviti della stampa, diffondendo, annotano i magistrati, «notizie false tramite comunicati relativi ai risultati del bilancio al 31 dicembre 2017». Poi, con quelli che la Procura definisce «altri artifici», consistenti «nella indebita ripartizione degli utili falsamente indicati nei bilanci», avrebbero «provocato una sensibile alterazione del prezzo delle proprie azioni e, in generale, dei propri titoli». Un grande affare per i soci di Aspi. Benetton in primis.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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