2024-07-22
Da cibo poverissimo a farina per chef. Verso la riscoperta del «grano arso»
Nell’Ottocento era quel che rimaneva dopo l’incendio del campo. Oggi viene appositamente tostato per dargli un gusto affumicato.Per capire cos’è il grano arso, occorre fare un passo indietro, partire dal grano e fermarsi a un punto preciso della storia della sua coltivazione. Il grano, anche detto frumento, appartiene alla famiglia delle Graminacee, genere Triticum. Si è diffuso nell’area mediterranea con cinque specie principali: grano tenero (Triticum aestivum); grano duro (Triticum durum); spelta (Triticum spelta) anche conosciuto come farro grande; monococco o farro piccolo (Triticum monococcum); dicocco o farro medio (Triticum dicoccum). In Italia, secondo legge, da un punto di vista precisamente merceologico, possiamo chiamare frumento solo il grano e il grano tenero, con cui produciamo le nostre eccellenze rinomate in tutto il mondo: dal grano duro si ottengono semole e semolati dai granelli grossi e spigolosi, dal grano tenero, invece, farine dalla granulometria minore. In Italia la pasta si può produrre soltanto con semola di grano duro, la panificazione si giova invece di entrambe, semola di grano duro e/o farina di grano tenero, in proporzioni variabili. Le varietà note di frumento al mondo sono ben oltre mille, siamo intorno alle molte migliaia. Sono distribuite soprattutto nell’area del grano tenero, che vanta una maggiore estensione colturale essendo coltivabile anche in nord Europa, poiché tipico delle aree a clima temperato freddo, mentre invece il grano duro è più a suo agio nelle zone con clima temperato caldo. Ecco perché il nostro Sud è stato ed è un grandissimo produttore di grano duro ed ha fatto letteralmente la storia della pasta, secca: il suo bel clima favorisce la coltivazione della materia prima necessaria per la pasta e, una volta preparata, l’essiccazione della stessa. Anche la resa per ettaro è diversa: più o meno è 25-90 q/ha (quintale/ettaro) il grano tenero, 15-50 q/ha il grano duro. In Italia, attualmente, il frumento occupa circa il 35% dei seminativi, 1/3 dell’intera superficie in rotazione agraria e il 70% della superficie coltivata a cereali. I frumenti possono poi essere invernenghi (anche detti autunno-primaverili) e marzuoli (chiamati anche primaverili). Gli invernenghi hanno bisogno di un ciclo vegetativo più lungo, si seminano poco prima dell’arrivo dell’inverno, da metà ottobre a metà novembre, i marzuoli hanno ciclo più breve e si seminano a marzo. Su suolo italiano hanno sempre avuto maggiore preferenza gli invernenghi e si ricorre molto ai primaverili quando la stagione autunnale ha impedito di seminare il massimo degli invernenghi. Le fasi per ottenere il grano sono: aratura, concimazione, semina, concimazione. In primavera si attende la levata della pianta, quando essa raggiunge 40-80 cm di altezza, a giugno, allora si inizia a testare la durezza del chicco: quando è bello ruvido e duro, è giunto il momento di procedere al raccolto. Il raccolto si articola in più fasi: la mietitura, che consiste nel taglio della pianta, e poi la trebbiatura, cioè la separazione dei chicchi da paglia e pula. Dopo di che i chicchi si possono immagazzinare, chicchi che saranno poi trasformati in farina (o semola se si tratta di grano duro). Ed è proprio qui che entra in gioco il nostro grano arso. La storia del grano arso si intreccia non solo con quella del grano, ma anche con quella del sud Italia, il cosiddetto «granaio del Paese», come d’altronde era già stato in epoca romana. Quando la coltivazione era completamente affidata alla mano umana, al massimo coadiuvata da attrezzi meccanici mossi dall’uomo e dall’animale (si pensi all’aratro), dopo il raccolto del grano duro, per liberare il terreno dalle stoppie, cioè dai residui della mietitura e della trebbiatura delle spighe che nel frattempo erano state «assemblate» in covoni, si procedeva alla spigolatura. I braccianti e chi aveva aiutato a raccogliere aveva diritto a prendere le poche spighe restate a terra. Questo processo si chiama spigolatura e quando si effettuava dopo l’incendio del campo, per ripulirlo dai residui, il grano così raccolto si chiamava grano arso. Quel grano, arso, appunto, cioè bruciato, era scuro. Macinato, dava (e dà) luogo a una farina di colore grigio. Si tratta di un prodotto dunque non povero, ma poverissimo, caratteristico delle aree cerealicole dell’Italia del sud dell’Ottocento, latifondi in cui il bracciante e in generale il povero potevano solo raggranellare un po' di chicchi residuali finito il lavoro che essi stessi vi avevano svolto. Spigolando si poteva raccattare uno o due chili, forse, di chicchi, che comunque nella povertà di quelle epoche ed esistenze facevano la differenza. Quella farina grigia, infatti, veniva panificata o pastificata in purezza, se si era estremamente poveri, o in aggiunta a quella poca bianca che si riusciva ad acquistare o barattare se si aveva qualche mezzo in più. Oggi la pratica di incendiare le stoppie non è più utilizzata e tantomeno lo è quella della spigolatura del campo e in generale della produzione manuale del grano. Il grano arso odierno è, quindi, una ricreazione coi mezzi attuali del vecchio grano arso. Un’attualizzazione più, come dire, sana. Una decina di anni fa è cominciata la scoperta e in alcuni casi la riscoperta del grano arso da parte di chef meridionali che hanno traslato quest’ingrediente, un tempo testimonianza di povertà, in una cucina invece ricercata e territoriale. L’interesse suscitato è stato tanto e pian piano si è ottenuto un grano arso più virtuoso. Il grano effettivamente arso, cioè «sopravvissuto» all’incendio del campo, era ovviamente un grano che contiene acrilammide, esattamente come il bordo della bistecca nero e abbrustolito (abbiamo dedicato al pericolo per la salute rappresentato dalle cotture bruciate su La Verità del 5 febbraio scorso). La farina di grano arso odierna viene prodotta diversamente. Si sgranano e tostano i chicchi tramite una tostatura controllata in bacini in acciaio riscaldati ad elevata temperatura. Nessuna esposizione diretta alla fiamma, come era in passato, proprio per evitare le bruciature. Poi, il grano duro tostato si pulisce ancora per rimuovere eventuali fuliggine e parti bruciate, poi viene decorticato per togliere la parte che potrebbe essere eccessivamente tostata, poi viene bagnato e poi macinato in mulino a cilindro, separandolo dalla crusca. Il grano arso non si usa generalmente da solo, alla sua farina si aggiunge un 70% circa di altre farine da panificazione o pastificazione preferibilmente ricche di glutine. Ci si fanno pane, focacce, lievitati, taralli, pasta, in particolar modo le orecchiette, ma anche lasagne, qualcuno ci impasta anche prodotti da pasticceria e la riscoperta di questa farina da parte degli chef ha operato da volano per la scoperta di massa. Sarà quindi utile capire alcune caratteristiche nutrizionali del grano arso, oltre che il suo miglior modo d’uso. Il grano arso è praticamente un grano duro integrale (e tostato). Presenta un minor contenuto di acqua, quindi una minore umidità, rispetto alle altre farine, perciò ha bisogno di più acqua perché si impasti bene. Sconsigliamo di impastare solo farina di grano arso per non ottenere pasta troppo collosa e molle. Per la pasta fresca, essa va miscelata nella misura del 20% con farina di grano tenero o semola rimacinata di grano duro (ricordatevi di usare più liquidi o più uova). In panificazione, la farina di grano arso non dovrebbe mai superare la quota polveri del 30%.La farina di grano arso ha più proteine di quella bianca di grano tenero, più lipidi, più amminoacidi, più vitamine e più minerali e, al contempo, un indice glicemico inferiore. Questo la rende più adatta della farina bianca ha chi ha problemi collegati al diabete o, semplicemente, vuole mangiare una pasta leggermente più proteica e più dietetica di quella fatta con farina bianca di grano tenero. La farina di grano arso ha anche meno glutine, trovandosi sotto i 100 ppm (ne ha circa 80) può essere indicata come «a ridotto contenuto di glutine». Ciò non vuol dire che possa essere utilizzata dai celiaci, i quali, ricordiamolo, devono evitare in toto il glutine. In definitiva, la farina di grano arso presenta valori e performance simili a quelli di semola di grano duro. In 100 g della prima abbiamo 356 calorie, nella semola di grano duro 339, quanto ai carboidrati 71 g nel grano arso e 77 nella semola di grano duro, proteine siamo a 12,5 g nel grano arso e 11,5 nella semola, lipidi 1,6 nel grano arso e 0,5 g nella semola, fibra 3,7 nel grano arso e 3,6 nella semola. L’aspetto che però la farina di grano arso possiede davvero in esclusiva rispetto ad altre farine o semole è il gusto affumicato, che la rende unica e inimitabile e fa davvero pensare a una farina preindustriale, simile a quella integrale ma al contempo diversa, con in più, rispetto a quella, tutta la sua storia popolare. Provatela (anche se non volete mettervi a cucinare, si trovano abbastanza facilmente paste in versione «arsa», soprattutto pugliesi, come i cicatelli, o snack come i taralli) e poi ci saprete dire.
Ecco #DimmiLaVerità del 10 novembre 2025. Il deputato di Sud chiama Nord Francesco Gallo ci parla del progetto del Ponte sullo Stretto e di elezioni regionali.