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2022-04-18
Vent'anni fa la sciagura del Pirellone
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Il grattacielo Pirelli dopo lo schianto dell'aereo il 18 aprile 2002 (Ansa)
Quando vent'anni fa i milanesi furono testimoni diretti dell'incidente aereo del grattacielo Pirelli, pensarono di vivere in un incubo. Erano passati solo sette mesi dagli attacchi alle torri gemelle e di nuovo una grattacielo bruciava colpito da un aereo. E ancora gli aerei erano stati soggetti di una delle più gravi tragedie dell'aviazione civile italiana avvenuto soltanto sei mesi prima quando proprio sulla pista di Milano Linate un aereo privato e un jet di linea della svedese Sas si erano scontrati, causando 118 vittime. A vent'anni dall'incidente, ricordiamo i fatti assieme al dottor Giancarlo Fontana, allora responsabile del 118 di Milano che si trovò ad intervenire al Pirellone durante l'attività di elisoccorso.
Aeroporto di Locarno (Canton Ticino) pista 26 - ore 17:15 del 18 aprile 2002.
Un aereo da turismo dalla livrea bianco e arancio si apprestava al rullaggio con destinazione Milano-Linate. Era un monomotore Rockwell Commander 112 TC costruito nel 1976 e immatricolato con le marche elvetiche HB-NCX. Il 18 aprile di vent’anni fa è una giornata soleggiata e tiepida, l’ideale per un volo VFR, cioè a vista. Ai comandi, da solo nell’abitacolo, sedeva il pilota italo-svizzero Luigi Fasulo allora 67enne, con la licenza conseguita nel 1970. Il piano di volo, regolarmente inoltrato a Zurigo, prevedeva la sosta allo scalo milanese per effettuare quella che i piloti ticinesi chiamavano in gergo una «sdoganata», vale a dire un rifornimento di carburante a prezzi più favorevoli dato che il giorno successivo Fasulo avrebbe dovuto compiere un volo di aerotaxi su Ginevra. Il viaggio nei cieli del Canton Ticino e della Lombardia fu regolare. Luigi Fasulo, emigrato in Svizzera dal meridione d’Italia quarant’anni prima, era un personaggio eccentrico. Molti dei suoi conoscenti lo dipingevano come un personaggio sicuro di sé e un poco sbruffone, tanto da essere soprannominato il «cowboy», ma anche pronto alla battuta. Nella vita aveva svolto diversi lavori e, oltre a quello di pilota privato, si era occupato di commercio di opere d’arte. Nel periodo immediatamente precedente quell’ultimo volo, il pilota stava attraversando un periodo di difficoltà a causa di una truffa subita durante una delle sue ultime operazioni finanziarie. Il Rockwell Commander contattò il centro informazioni di Linate sui 124,92 Mhz alle ore 17:26 per segnalare l’avvicinamento trovandosi nei pressi del Vor-Dme di Saronno. Contemporaneamente all’aereo di Fasulo, altri velivoli stavano per avvicinarsi alla pista di Linate, che andarono ad inserirsi nelle comunicazioni con l’aeroporto di Milano. Un primo imprevisto, se così si può chiamare, fu il cambio di pista imposto dai controllori di volo a causa della chiusura della pista 36L, quella turistica, a cui Fasulo era familiare. L’atterraggio fu obbligato sulla 36R, presumendo che il pilota elvetico conoscesse le manovre di avvicinamento. Cosa che non parve, nella fase di avvicinamento dal cancello Ovest dell’aeroporto di Linate, dal momento che il Commander arrivò leggermente «lungo» sull’ATA, la zona di controllo del traffico aereo destinato all’aviazione generale. Forse un’incomprensione con la torre, oppure la scarsa dimestichezza di Fasulo ai cambiamenti repentini nelle operazioni dovuto anche alla scarsa attività di pilotaggio dell’ultimo periodo. Poco dopo il controllo di terra notava il Commander in una posizione sbagliata per l’approccio alla 36R e comunicava a Fasulo una serie di istruzioni non troppo dettagliate, che il pilota svizzero sembrò non comprendere fino in fondo. Pochi istanti più tardi, mentre si alternavano le comunicazioni con gli altri velivoli in atterraggio a Linate, si verificò il secondo problema per il monomotore di Fasulo: il carrello di atterraggio non si era esteso correttamente, inconveniente segnalato dal pilota alle 17:42. Da questo momento le comunicazioni tra il velivolo svizzero e Linate si fecero confuse. La torre chiedeva a Fasulo di orbitare in attesa della risoluzione del problema ma il pilota scambiava per sua una comunicazione diretta ad uno dei velivoli in fase di avvicinamento alla pista di Linate, creando ulteriore confusione. Alle 17:43 Fasulo inviava l’ultima comunicazione con la torre: «Sto provando Charlie Xray…un momento…». Da quel momento il Commander lasciava la zona di attesa di Linate, puntando a Nord-Ovest verso la città di Milano. Perduto il contatto visivo della torre di Linate, HB-NCX fu notato pochi minuti dopo sopra l’abitato dei quartieri orientali della città, mentre la torre di Linate chiedeva ai velivoli che attendevano l'atterraggio di fare da ponte per recuperare il contatto con l'aereo di Fasulo, operazione che non ebbe mai risposta da parte del monomotore svizzero. Alcuni testimoni che videro l'aereo sopra le loro teste, sostengono che procedesse con il carrello esteso, altri invece dichiararono che fosse retratto. Il Commander sorvolava Milano abbagliato dal sole ancora alto nel cielo terso e ad una quota di soli 700 piedi (213 metri ai quali bisogna sottrarre l’altitudine della città di Milano sul livello del mare, circa 103 metri). A quella quota bassissima, chiaramente vietata dai regolamenti dell’aeronavigazione, HB-NCX impattava contro il grattacielo Pirelli di piazza Duca d’Aosta all’altezza del 26° piano. Nello schianto, i 220 litri di carburante nei serbatoi si nebulizzarono ed esplosero violentemente, proiettando fuori dall’edificio suppellettili, mobili e frammenti dello stesso aereo che precipitarono da un'altezza di circa 100 metri sulla zona circostante.
Comune di Rozzano (Milano) circa le 17:30 del 18 aprile 2002
L’elicottero del 118 di Milano, un AB-412 marche I-BRMA, era da poco atterrato nel comune dell’hinterland meridionale della città dopo essere decollato dall’Ospedale Niguarda per un intervento urgente con paziente in arresto cardiocircolatorio. L’equipaggio sanitario era composto quel giorno dall’infermiere professionale Enzo Grifone, dal tecnico di Soccorso alpino Nadia Tiraboschi (una delle più quotate guide alpine italiane) e dal dottor Giancarlo Fontana, allora responsabile della centrale operativa del Soccorso sanitario di Milano, che «La Verità» ha raggiunto al telefono per ripercorrere quel drammatico giorno di vent’anni fa. «Durante l’intervento a Rozzano» - ricorda il dottor Fontana - «abbiamo ricevuto via radio la richiesta di velocizzare le operazioni di soccorso, perché un nuovo evento richiedeva l'intervento dell'elisoccorso. Inizialmente le informazioni parlavano di un'esplosione all'interno della Stazione Centrale, la cui entità non era ancora stata specificata». Le operazioni di decollo richiesero circa tre minuti, ed in circa quattro minuti dal decollo il dottor Fontana e il suo equipaggio erano in vista del grattacielo ferito. Durante la rotta, la Centrale del 118 diede notizie più approfondite, comunicando chiaramente che si trattava di un incidente aereo. «La scena fu impressionante» - ricorda l'anestesista rianimatore -«un denso fumo nero e i focolai di un incendio avvolgevano gli ultimi piani del Pirellone. Ma quello che colpiva era un brillare diffuso, riflesso dal sole. Oltre alle migliaia di documenti cartacei espulsi dal grattacielo per il violentissimo impatto, l'esplosione aveva mandato in frantumi le controsoffittature del Pirellone, fatte da sottilissimi fogli di alluminio estremamente taglienti, come tanti bisturi volanti», ricorda Fontana. «L'atterraggio in piazza Duca d'Aosta era impossibile, per i pericoli ambientali e la folla che si era ammassata nella zona circostante il grattacielo, così procedemmo all'operazione di sbarco per mezzo del verricello, con l'elicottero in hovering sopra la piazza». Mentre Fontana e l'equipaggio dell'elisoccorso toccavano terra, i Vigili del Fuoco e le ambulanze si concentravano lungo la via Luigi Galvani, sul fianco del Pirellone. Il caos sembrava regnare, mentre la massa dei superstiti mano a mano occupava la zona antistante il palazzo. Attorno al grattacielo, i feriti che erano stati colpiti dai detriti precipitati per l'impatto. Una donna appariva la più grave per le ustioni riportate. Gli altri feriti riportavano soprattutto ferite lacero-contuse.
«Una volta a terra» - spiega il dottor Fontana- «la difficoltà era naturalmente quella di raggiungere i piani interessati dall'incidente, dove ancora divampava l'incendio con i Vigili del Fuoco che con grande difficoltà erano riusciti a portare i manicotti dell'acqua. L'autoscala infatti raggiungeva soltanto il dodicesimo piano. Gli altri quattordici erano da percorrere a piedi, non appena la scena fosse stata sicura». Nel frattempo era necessario soccorrere i feriti a terra. «Per questo - prosegue Fontana -era necessario organizzare la raccolta e il triage dei pazienti in un posto medico avanzato». Inoltre erano da assistere anche gli occupanti del Pirellone, circa 300 al momento dell'impatto, che in diversi casi riportarono ferite per la calca e la concitazione durante la precipitosa fuga dal grattacielo in fiamme. La Centrale operativa del 118 si trovava ad affrontare quella che in linguaggio tecnico si chiama maxiemergenza, che rendeva necessaria l'individuazione di una postazione medica protetta. Il luogo fu individuato negli uffici della società di autonoleggio Hertz della Stazione Centrale a poca distanza dal grattacielo, in quel momento chiusa. Furono i Vigili del fuoco a forzare le serrande e a permettere l'allestimento rapido del posto medico avanzato. La disponibilità dello spazio e degli uffici fu - ricorda Fontana - «una salvezza, perché le comunicazioni telefoniche cellulari erano saltate e i telefoni fissi dell'autonoleggio resero possibili le comunicazioni con la sala operativa del 118, mentre oltre 100 ambulanze provenienti dalla città e dall'hinterland si erano allineate lungo la via Galvani». All'interno del posto medico avanzato i due coordinatori designati iniziarono a organizzare l'invio dei feriti soprattutto al vicino ospedale Fatebenefratelli, e agli ospedali Policlinico e Niguarda.
Passò quasi un'ora prima che l'incendio fosse domato dai Vigili del fuoco e la scena fosse sicura abbastanza da poter permettere l'intervento dei sanitari al 26° piano. L'autoscala, come già detto, poteva arrivare soltanto fino al 12° piano e naturalmente tutti gli ascensori ed i montacarichi del Pirellone erano fuori uso. Il dottor Fontana, Nadia Tiraboschi ed Enzo Grifone affrontarono quindi i 14 piani che li separavano dal relitto del Commander a piedi, appesantiti dai monitor e dagli zaini del materiale sanitario. La prima ad arrivare al 26° piano, allenata alla salita, fu la guida e tecnico di Soccorso alpino Nadia Tiraboschi. La scena era devastante. Vicino agli ascensori giaceva la carlinga scoperchiata dell'aereo con il pilota Luigi Fasulo carbonizzato e a poca distanza il corpo martoriato di una donna. Il dottor Fontana non poté far altro che stilare la constatazione di decesso per l'avvocato Alessandra Santonocito, di 42 anni, apprezzata professionista dell'ufficio legale della Regione Lombardia che si era trattenuta in ufficio poco oltre l'orario di lavoro. Non fu rilevata la presenza di altre persone all'interno del piano coinvolto nell'incidente. Solo più tardi si capirà che un'altra dipendente mancava all'appello. Si trattava di Annamaria Rapetti, il cui corpo fu trovato dai Carabinieri in un'aiuola di via Fabio Filzi, dopo essere stata proiettata fuori dal grattacielo per l'impatto del velivolo. Anche lei avvocato molto stimato, viveva a Monza ed era sposata con un medico della Asl locale.
Mentre i sanitari erano ancora al lavoro, la città paralizzata nel traffico e nella paura ascoltava le prime sconcertanti notizie che giungevano dai media. Il timore di un atto terroristico che avrebbe fatto di Milano una seconda New York parve essere inizialmente alimentato dalle dichiarazioni che si susseguivano nelle prime concitate ore dopo l'impatto. Destò impressione particolare quella dell'allora Presidente del Senato Marcello Pera che non esitò a parlare di attentato. sarà smentito poco dopo dalle dichiarazioni del collega Claudio Scajola, Ministro degli Interni, che fugò ogni riferimento all'attentato dichiarando la natura accidentale della sciagura. Per mesi, durante i quali l'Agenzia Nazionale per la Sicurezza del Volo (Ansv) procedette ai rilevamenti che portarono alla relazione finale, si parlò di un ipotetico suicidio spettacolare di Fasulo in seguito al dissesto finanziario che lo aveva interessato nell'ultimo periodo. Saranno gli esperti dell'Ansv a vanificare anche questa ipotesi. Nella relazione emessa alla fine dell'anno si evidenziò come l'incidente fosse stato generato da un errore umano. Fasulo, impegnato nelle scomode operazioni di estensione del carrello con sistema di emergenza, avrebbe perso l'orientamento e, abbagliato dal sole allo zenit sulla cabina, non avrebbe notato di trovarsi in rotta di collisione con il grattacielo Pirelli, che lo inghiottì alle 17:45 di una giornata difficile da dimenticare.
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Il 18 aprile 2002 un piccolo aereo si schiantò al 26° piano del grattacielo milanese. Si pensò a un attentato, poi al suicidio del pilota, infine all'errore umano. Il racconto del dottor Giancarlo Fontana, allora responsabile del 118, che entrò in quell'inferno.Quando vent'anni fa i milanesi furono testimoni diretti dell'incidente aereo del grattacielo Pirelli, pensarono di vivere in un incubo. Erano passati solo sette mesi dagli attacchi alle torri gemelle e di nuovo una grattacielo bruciava colpito da un aereo. E ancora gli aerei erano stati soggetti di una delle più gravi tragedie dell'aviazione civile italiana avvenuto soltanto sei mesi prima quando proprio sulla pista di Milano Linate un aereo privato e un jet di linea della svedese Sas si erano scontrati, causando 118 vittime. A vent'anni dall'incidente, ricordiamo i fatti assieme al dottor Giancarlo Fontana, allora responsabile del 118 di Milano che si trovò ad intervenire al Pirellone durante l'attività di elisoccorso.Aeroporto di Locarno (Canton Ticino) pista 26 - ore 17:15 del 18 aprile 2002.Un aereo da turismo dalla livrea bianco e arancio si apprestava al rullaggio con destinazione Milano-Linate. Era un monomotore Rockwell Commander 112 TC costruito nel 1976 e immatricolato con le marche elvetiche HB-NCX. Il 18 aprile di vent’anni fa è una giornata soleggiata e tiepida, l’ideale per un volo VFR, cioè a vista. Ai comandi, da solo nell’abitacolo, sedeva il pilota italo-svizzero Luigi Fasulo allora 67enne, con la licenza conseguita nel 1970. Il piano di volo, regolarmente inoltrato a Zurigo, prevedeva la sosta allo scalo milanese per effettuare quella che i piloti ticinesi chiamavano in gergo una «sdoganata», vale a dire un rifornimento di carburante a prezzi più favorevoli dato che il giorno successivo Fasulo avrebbe dovuto compiere un volo di aerotaxi su Ginevra. Il viaggio nei cieli del Canton Ticino e della Lombardia fu regolare. Luigi Fasulo, emigrato in Svizzera dal meridione d’Italia quarant’anni prima, era un personaggio eccentrico. Molti dei suoi conoscenti lo dipingevano come un personaggio sicuro di sé e un poco sbruffone, tanto da essere soprannominato il «cowboy», ma anche pronto alla battuta. Nella vita aveva svolto diversi lavori e, oltre a quello di pilota privato, si era occupato di commercio di opere d’arte. Nel periodo immediatamente precedente quell’ultimo volo, il pilota stava attraversando un periodo di difficoltà a causa di una truffa subita durante una delle sue ultime operazioni finanziarie. Il Rockwell Commander contattò il centro informazioni di Linate sui 124,92 Mhz alle ore 17:26 per segnalare l’avvicinamento trovandosi nei pressi del Vor-Dme di Saronno. Contemporaneamente all’aereo di Fasulo, altri velivoli stavano per avvicinarsi alla pista di Linate, che andarono ad inserirsi nelle comunicazioni con l’aeroporto di Milano. Un primo imprevisto, se così si può chiamare, fu il cambio di pista imposto dai controllori di volo a causa della chiusura della pista 36L, quella turistica, a cui Fasulo era familiare. L’atterraggio fu obbligato sulla 36R, presumendo che il pilota elvetico conoscesse le manovre di avvicinamento. Cosa che non parve, nella fase di avvicinamento dal cancello Ovest dell’aeroporto di Linate, dal momento che il Commander arrivò leggermente «lungo» sull’ATA, la zona di controllo del traffico aereo destinato all’aviazione generale. Forse un’incomprensione con la torre, oppure la scarsa dimestichezza di Fasulo ai cambiamenti repentini nelle operazioni dovuto anche alla scarsa attività di pilotaggio dell’ultimo periodo. Poco dopo il controllo di terra notava il Commander in una posizione sbagliata per l’approccio alla 36R e comunicava a Fasulo una serie di istruzioni non troppo dettagliate, che il pilota svizzero sembrò non comprendere fino in fondo. Pochi istanti più tardi, mentre si alternavano le comunicazioni con gli altri velivoli in atterraggio a Linate, si verificò il secondo problema per il monomotore di Fasulo: il carrello di atterraggio non si era esteso correttamente, inconveniente segnalato dal pilota alle 17:42. Da questo momento le comunicazioni tra il velivolo svizzero e Linate si fecero confuse. La torre chiedeva a Fasulo di orbitare in attesa della risoluzione del problema ma il pilota scambiava per sua una comunicazione diretta ad uno dei velivoli in fase di avvicinamento alla pista di Linate, creando ulteriore confusione. Alle 17:43 Fasulo inviava l’ultima comunicazione con la torre: «Sto provando Charlie Xray…un momento…». Da quel momento il Commander lasciava la zona di attesa di Linate, puntando a Nord-Ovest verso la città di Milano. Perduto il contatto visivo della torre di Linate, HB-NCX fu notato pochi minuti dopo sopra l’abitato dei quartieri orientali della città, mentre la torre di Linate chiedeva ai velivoli che attendevano l'atterraggio di fare da ponte per recuperare il contatto con l'aereo di Fasulo, operazione che non ebbe mai risposta da parte del monomotore svizzero. Alcuni testimoni che videro l'aereo sopra le loro teste, sostengono che procedesse con il carrello esteso, altri invece dichiararono che fosse retratto. Il Commander sorvolava Milano abbagliato dal sole ancora alto nel cielo terso e ad una quota di soli 700 piedi (213 metri ai quali bisogna sottrarre l’altitudine della città di Milano sul livello del mare, circa 103 metri). A quella quota bassissima, chiaramente vietata dai regolamenti dell’aeronavigazione, HB-NCX impattava contro il grattacielo Pirelli di piazza Duca d’Aosta all’altezza del 26° piano. Nello schianto, i 220 litri di carburante nei serbatoi si nebulizzarono ed esplosero violentemente, proiettando fuori dall’edificio suppellettili, mobili e frammenti dello stesso aereo che precipitarono da un'altezza di circa 100 metri sulla zona circostante.Comune di Rozzano (Milano) circa le 17:30 del 18 aprile 2002L’elicottero del 118 di Milano, un AB-412 marche I-BRMA, era da poco atterrato nel comune dell’hinterland meridionale della città dopo essere decollato dall’Ospedale Niguarda per un intervento urgente con paziente in arresto cardiocircolatorio. L’equipaggio sanitario era composto quel giorno dall’infermiere professionale Enzo Grifone, dal tecnico di Soccorso alpino Nadia Tiraboschi (una delle più quotate guide alpine italiane) e dal dottor Giancarlo Fontana, allora responsabile della centrale operativa del Soccorso sanitario di Milano, che «La Verità» ha raggiunto al telefono per ripercorrere quel drammatico giorno di vent’anni fa. «Durante l’intervento a Rozzano» - ricorda il dottor Fontana - «abbiamo ricevuto via radio la richiesta di velocizzare le operazioni di soccorso, perché un nuovo evento richiedeva l'intervento dell'elisoccorso. Inizialmente le informazioni parlavano di un'esplosione all'interno della Stazione Centrale, la cui entità non era ancora stata specificata». Le operazioni di decollo richiesero circa tre minuti, ed in circa quattro minuti dal decollo il dottor Fontana e il suo equipaggio erano in vista del grattacielo ferito. Durante la rotta, la Centrale del 118 diede notizie più approfondite, comunicando chiaramente che si trattava di un incidente aereo. «La scena fu impressionante» - ricorda l'anestesista rianimatore -«un denso fumo nero e i focolai di un incendio avvolgevano gli ultimi piani del Pirellone. Ma quello che colpiva era un brillare diffuso, riflesso dal sole. Oltre alle migliaia di documenti cartacei espulsi dal grattacielo per il violentissimo impatto, l'esplosione aveva mandato in frantumi le controsoffittature del Pirellone, fatte da sottilissimi fogli di alluminio estremamente taglienti, come tanti bisturi volanti», ricorda Fontana. «L'atterraggio in piazza Duca d'Aosta era impossibile, per i pericoli ambientali e la folla che si era ammassata nella zona circostante il grattacielo, così procedemmo all'operazione di sbarco per mezzo del verricello, con l'elicottero in hovering sopra la piazza». Mentre Fontana e l'equipaggio dell'elisoccorso toccavano terra, i Vigili del Fuoco e le ambulanze si concentravano lungo la via Luigi Galvani, sul fianco del Pirellone. Il caos sembrava regnare, mentre la massa dei superstiti mano a mano occupava la zona antistante il palazzo. Attorno al grattacielo, i feriti che erano stati colpiti dai detriti precipitati per l'impatto. Una donna appariva la più grave per le ustioni riportate. Gli altri feriti riportavano soprattutto ferite lacero-contuse. «Una volta a terra» - spiega il dottor Fontana- «la difficoltà era naturalmente quella di raggiungere i piani interessati dall'incidente, dove ancora divampava l'incendio con i Vigili del Fuoco che con grande difficoltà erano riusciti a portare i manicotti dell'acqua. L'autoscala infatti raggiungeva soltanto il dodicesimo piano. Gli altri quattordici erano da percorrere a piedi, non appena la scena fosse stata sicura». Nel frattempo era necessario soccorrere i feriti a terra. «Per questo - prosegue Fontana -era necessario organizzare la raccolta e il triage dei pazienti in un posto medico avanzato». Inoltre erano da assistere anche gli occupanti del Pirellone, circa 300 al momento dell'impatto, che in diversi casi riportarono ferite per la calca e la concitazione durante la precipitosa fuga dal grattacielo in fiamme. La Centrale operativa del 118 si trovava ad affrontare quella che in linguaggio tecnico si chiama maxiemergenza, che rendeva necessaria l'individuazione di una postazione medica protetta. Il luogo fu individuato negli uffici della società di autonoleggio Hertz della Stazione Centrale a poca distanza dal grattacielo, in quel momento chiusa. Furono i Vigili del fuoco a forzare le serrande e a permettere l'allestimento rapido del posto medico avanzato. La disponibilità dello spazio e degli uffici fu - ricorda Fontana - «una salvezza, perché le comunicazioni telefoniche cellulari erano saltate e i telefoni fissi dell'autonoleggio resero possibili le comunicazioni con la sala operativa del 118, mentre oltre 100 ambulanze provenienti dalla città e dall'hinterland si erano allineate lungo la via Galvani». All'interno del posto medico avanzato i due coordinatori designati iniziarono a organizzare l'invio dei feriti soprattutto al vicino ospedale Fatebenefratelli, e agli ospedali Policlinico e Niguarda.Passò quasi un'ora prima che l'incendio fosse domato dai Vigili del fuoco e la scena fosse sicura abbastanza da poter permettere l'intervento dei sanitari al 26° piano. L'autoscala, come già detto, poteva arrivare soltanto fino al 12° piano e naturalmente tutti gli ascensori ed i montacarichi del Pirellone erano fuori uso. Il dottor Fontana, Nadia Tiraboschi ed Enzo Grifone affrontarono quindi i 14 piani che li separavano dal relitto del Commander a piedi, appesantiti dai monitor e dagli zaini del materiale sanitario. La prima ad arrivare al 26° piano, allenata alla salita, fu la guida e tecnico di Soccorso alpino Nadia Tiraboschi. La scena era devastante. Vicino agli ascensori giaceva la carlinga scoperchiata dell'aereo con il pilota Luigi Fasulo carbonizzato e a poca distanza il corpo martoriato di una donna. Il dottor Fontana non poté far altro che stilare la constatazione di decesso per l'avvocato Alessandra Santonocito, di 42 anni, apprezzata professionista dell'ufficio legale della Regione Lombardia che si era trattenuta in ufficio poco oltre l'orario di lavoro. Non fu rilevata la presenza di altre persone all'interno del piano coinvolto nell'incidente. Solo più tardi si capirà che un'altra dipendente mancava all'appello. Si trattava di Annamaria Rapetti, il cui corpo fu trovato dai Carabinieri in un'aiuola di via Fabio Filzi, dopo essere stata proiettata fuori dal grattacielo per l'impatto del velivolo. Anche lei avvocato molto stimato, viveva a Monza ed era sposata con un medico della Asl locale. Mentre i sanitari erano ancora al lavoro, la città paralizzata nel traffico e nella paura ascoltava le prime sconcertanti notizie che giungevano dai media. Il timore di un atto terroristico che avrebbe fatto di Milano una seconda New York parve essere inizialmente alimentato dalle dichiarazioni che si susseguivano nelle prime concitate ore dopo l'impatto. Destò impressione particolare quella dell'allora Presidente del Senato Marcello Pera che non esitò a parlare di attentato. sarà smentito poco dopo dalle dichiarazioni del collega Claudio Scajola, Ministro degli Interni, che fugò ogni riferimento all'attentato dichiarando la natura accidentale della sciagura. Per mesi, durante i quali l'Agenzia Nazionale per la Sicurezza del Volo (Ansv) procedette ai rilevamenti che portarono alla relazione finale, si parlò di un ipotetico suicidio spettacolare di Fasulo in seguito al dissesto finanziario che lo aveva interessato nell'ultimo periodo. Saranno gli esperti dell'Ansv a vanificare anche questa ipotesi. Nella relazione emessa alla fine dell'anno si evidenziò come l'incidente fosse stato generato da un errore umano. Fasulo, impegnato nelle scomode operazioni di estensione del carrello con sistema di emergenza, avrebbe perso l'orientamento e, abbagliato dal sole allo zenit sulla cabina, non avrebbe notato di trovarsi in rotta di collisione con il grattacielo Pirelli, che lo inghiottì alle 17:45 di una giornata difficile da dimenticare.
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La reazione di tanti è però ambigua, come è nella natura degli italiani, scaltri e navigati, e di chi ha uso di mondo. Bello in via di principio ma in pratica come si fa? Tecnicamente si può davvero lasciare loro lo smartphone ma col «parental control» che inibisce alcuni social, o ci saranno sotterfugi, scappatoie, nasceranno simil-social selvatici e dunque ancora più pericolosi, e saremo punto e daccapo? Giusto il provvedimento, bravi gli australiani ma come li tieni poi i ragazzi e le loro reazioni? E se poi scappa il suicidio, l’atto disperato, o il parricidio, il matricidio, del ragazzo imbestialito e privato del suo super-Io in display; se i ragazzi che sono fragili vengono traumatizzati dal divieto, i governi, le autorità non cominceranno a fare retromarcia, a inventarsi improbabili soluzioni graduali, a cominciare coi primi distinguo che poi vanificano il provvedimento? E poi, botta finale: è facile concepire queste norme restrittive quando non si hanno ragazzini in casa, o pretendere di educare gli educatori quando si è ben lontani da quelle gabbie feroci che sono le aule scolastiche! Provate a mettervi nei nostri panni prima di fare i Catoni da remoto!
Avete ragione su tutto, ma alla fine se volete tentare di guidare un po’ il futuro, se volete aiutare davvero i ragazzi, se volete dare e non solo subire la direzione del mondo, dovete provare a non assecondarli, a non rifugiarvi dietro il comodo fatalismo dei processi irreversibili, e dunque il fatalismo dei sì, perché sono assai più facili dei no. Ma qualcosa bisogna fare per impedire l’istupidimento in tenera età e in via di formazione degli uomini di domani. Abbiamo una responsabilità civile e sociale, morale e culturale, abbiamo dei doveri, non possiamo rassegnarci al feticcio del fatto compiuto. Abbiamo criticato per anni il pigro conformismo delle società arcaiche che ripetevano i luoghi comuni e le pratiche di vita semplicemente perché «si è fatto sempre così». E ora dovremmo adottare il conformismo altrettanto pigro, e spesso nocivo, delle società moderne e postmoderne con la scusa che «lo fanno tutti oggi, e non si può tornare indietro». Di questa decisione australiana io condivido lo spirito e la legge; ho solo un’inevitabile allergia per i divieti, ma in questi casi va superata, e un’altrettanto comprensibile diffidenza sull’efficacia e la durata del provvedimento, perché anche in Australia, perfino in Australia, si troveranno alla fine i modi per aggirare il divieto o per sostituire gli accessi con altri. Figuratevi da noi, a Furbilandia. Ma sono due perplessità ineliminabili che non rendono vano il provvedimento che resta invece necessario; semmai andrebbe solo perfezionato.
Il problema è la dipendenza dai social, e la trasformazione degli accessi in eccessi: troppe ore sui social, e questo vale anche per gli adulti e per i vecchi, un po’ come già succedeva con la televisione sempre accesa ma con un grado virale di attenzione e di interattività che rende lo smartphone più nocivo del già noto istupidimento da overdose televisiva.
Si perde la realtà, la vita vera, le relazioni e le amicizie, le esperienze della vita, l’esercizio dell’intelligenza applicata ai fatti e ai rapporti umani, si sterilizzano i sentimenti, si favorisce l’allergia alle letture e alle altre forme socio-culturali. È un mondo piccolo, assai più piccolo di quello descritto così vivacemente da Giovannino Guareschi, che era però pieno di umanità, di natura, di forti passioni e di un rapporto duro e verace con la vita, senza mediazioni e fughe; ma anche con il Padreterno e con i misteri della fede. Quel mondo iscatolato in una teca di vetro di nove per sedici centimetri è davvero piccolo anche se ha l’apparenza di portarti in giro per il mondo, e in tutti i tempi. Sono ipnotizzati dallo Strumento, che diventa il tabernacolo e la fonte di ogni luce e di ogni sapere, di ogni relazione e di ogni rivelazione; bisogna spezzare l’incantesimo, bisogna riprendere a vivere e bisogna saper farne a meno, per alcune ore del giorno.
La stupida Europa che bandisce culti, culture e coltivazioni per imporre norme, algoritmi ed espianti, dovrebbe per una volta esercitarsi in una direttiva veramente educativa: impegnarsi a far passare la legge australiana anche da noi, magari più circostanziata e contestualizzata. L’Europa può farlo, perché non risponde a nessun demos sovrano, a nessuna elezione; i governi nazionali temono troppo l’impopolarità, le opposizioni e la ritorsione dei ragazzi e dei loro famigliari in loro soccorso o perché li preferiscono ipnotizzati sul video così non richiedono attenzioni e premure e non fanno danni. Invece bisogna pur giocare la partita con la tecnologia, favorendo ciò che giova e scoraggiando ciò che nuoce, con occhio limpido e mente lucida, senza terrore e senza euforia.
Mi auguro anzi che qualcuno in grado di mutare i destini dei popoli, possa concepire una visione strategica complessiva in cui saper dosare in via preliminare libertà e limiti, benefici e sacrifici, piaceri e doveri, che poi ciascuno strada facendo gestirà per conto suo. E se qualcuno dirà che questo è un compito da Stato etico, risponderemo che l’assenza di limiti e di interesse per il bene comune, rende gli Stati inutili o dannosi, perché al servizio dei guastatori e dei peggiori o vigliaccamente neutri rispetto a ciò che fa bene e ciò che fa male. È difficile trovare un punto di equilibrio tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità, ma se gli Stati si arrendono a priori, si rivelano solo inutili e ingombranti carcasse. Per evitare lo Stato etico fondano lo Stato ebete, facile preda dei peggiori.
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Ecco #DimmiLaVerità dell'11 dicembre 2025. Con il nostro Fabio Amendolara commentiamo gli ultimi sviluppi del caso Garlasco.
L'amministratore delegato di SIMEST Regina Corradini D’Arienzo (Imagoeconomica)
SIMEST e la Indian Chamber of Commerce hanno firmato un Memorandum of Understanding per favorire progetti congiunti, scambio di informazioni e nuovi investimenti tra imprese italiane e indiane. L'ad di Simest Regina Corradini D’Arienzo: «Mercato chiave per il Made in Italy, rafforziamo il supporto alle aziende».
Nel quadro del Business Forum Italia-India, in corso a Mumbai, SIMEST e Indian Chamber of Commerce (ICC) hanno firmato un Memorandum of Understanding per consolidare la cooperazione economica tra i due Paesi e facilitare nuove opportunità di investimento bilaterale. La firma è avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del ministro indiano del Commercio e dell’Industria Piyush Goyal.
A sottoscrivere l’accordo sono stati l’amministratore delegato di SIMEST, Regina Corradini D’Arienzo, e il direttore generale della ICC, Rajeev Singh. L’intesa punta a mettere in rete le imprese italiane e indiane, sviluppare iniziative comuni e favorire l’accesso ai rispettivi mercati. Tra gli obiettivi: promuovere progetti congiunti, sostenere gli investimenti delle aziende di entrambi i Paesi anche grazie agli strumenti finanziari messi a disposizione da SIMEST, facilitare lo scambio di informazioni e creare un network stabile tra le comunità imprenditoriali.
«L’accordo conferma la volontà di SIMEST di supportare gli investimenti delle imprese italiane in un mercato chiave come quello indiano, sostenendole con strumenti finanziari e know-how dedicato», ha dichiarato Corradini D’Arienzo. L’ad ha ricordato che l’India è tra i Paesi prioritari del Piano d’Azione per l’export della Farnesina e che nel 2025 SIMEST ha aperto un ufficio a Delhi e attivato una misura dedicata per favorire gli investimenti italiani nel Paese. Un tassello, ha aggiunto, che rientra nell’azione coordinata del «Sistema Italia» guidato dalla Farnesina insieme a CDP, ICE e SACE.
SIMEST, società del Gruppo CDP, sostiene la crescita internazionale delle imprese italiane – in particolare le PMI – lungo tutto il ciclo di espansione all’estero, attraverso export credit, finanziamenti agevolati, partecipazioni al capitale e investimenti in equity.
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