La stampa progressista ha montato una canea sulla bufala dei fondi a Matteo Salvini con l’oro nero del Cremlino, depistando però sugli affari (veri) di Massimo D’Alema e della sua combriccola in Colombia. Questo non è più giornalismo, ma manipolazione.
La stampa progressista ha montato una canea sulla bufala dei fondi a Matteo Salvini con l’oro nero del Cremlino, depistando però sugli affari (veri) di Massimo D’Alema e della sua combriccola in Colombia. Questo non è più giornalismo, ma manipolazione.Provate a mettere insieme due storie che in questi giorni stanno tenendo banco. Da un lato c’è un’indagine già conclusa che ha visto archiviate le accuse di finanziamento illecito e ha evidenziato la presenza di alcuni personaggi loschi insieme a giornalisti radical chic in una faccenda con al centro un collaboratore di Matteo Salvini. Dall’altro c’è un ex presidente del Consiglio di nome Massimo D’Alema che viene registrato mentre parla di forniture d’armi con un pregiudicato e di un maxi-assegno da 80 milioni da spartire di comune accordo. Nel primo caso, l’operazione è chiaramente una trappola, perché attorno al tavolo non ci sono imprenditori che possano vendere petrolio, ma massoni e spioni, senza contare che una nave carica di greggio non può arrivare inosservata e l’oro nero non può essere ceduto ai benzinai senza prima essere stato raffinato. Dunque, chi ha organizzato l’incontro del Metropol aveva come unico obiettivo di incastrare una persona vicina a un leader politico in ascesa.Nel secondo caso le cose sono molto diverse. Infatti, attorno a D’Alema non si muovono dei millantatori, ma dei veri e propri intermediari, senza dire che l’ex premier parla con uomini assai vicini al governo colombiano. Ex guerriglieri e faccendieri che hanno come obiettivo l’acquisto di navi da guerra, sommergibili e aerei da combattimento. Non è una truffa, né un incontro messo in piedi per incastrare l’uomo che ha guidato il più grande partito di sinistra dell’Occidente. No, D’Alema sta davvero trattando una commessa miliardaria con un Paese straniero e lo fa in forza dei suoi personali contatti con i capi di alcune aziende pubbliche impegnate nel sistema degli armamenti e con i vertici della Farnesina. Da ex ministro degli Esteri, egli si rivolge direttamente agli ambasciatori, chiedendo che i suoi uomini siano ricevuti e agevolati nelle relazioni con la controparte colombiana. Da ex capo del governo, D’Alema chiama senza intermediari i manager delle aziende statali. E da ex vicepresidente dell’Internazionale socialista, intrattiene rapporti con i compagni conosciuti in tanti anni di attività politica e che, guarda caso, dopo anni di militanza (in qualche caso anche di latitanza, visto che alcuni facevano parte di movimenti combattenti) oggi hanno conquistato il potere. Insomma, l’ex premier non è Gianluca Savoini, ma l’uomo che da rappresentante dell’Italia e dell’esecutivo guidato da Romano Prodi andava a braccetto con i vertici di Hezbollah, il movimento terroristico libanese. Senza contare che i soldi millantati nell’incontro del Metropol erano tarocchi, nel senso che non sono mai esistiti né mai avrebbero potuto esistere, perché nessuno di coloro che erano seduti a quel tavolo era in grado di procurarli e perché l’operazione era – lo dicono gli esperti – tecnicamente impossibile e solo un ingenuo, messo in mezzo da una banda di imbroglioni, poteva cascarci. Con D’Alema no, i contatti erano veri e pure al più alto livello. A parlare, non erano un avvocato sull’orlo del fallimento e finti imprenditori. All’incontro non c’era un giornalista senza nessuna esperienza di compravendita di partite petrolifere, ma un ex presidente del Consiglio trasformato in brasseur d’affaires d’alto bordo, pronto a vendere forniture sanitarie in caso di epidemia o forniture militari in caso di guerra. Che i soldi del Metropol fossero farlocchi ormai è accertato. Che quelli di cui parlava D’Alema al telefono fossero veri e solo la pubblicazione di alcuni articoli sulla Verità abbia impedito di incassarli è altrettanto certo. Gli 80 milioni non erano inventati, ma il 2 per cento della super-commessa seguita da D’Alema. Il quale tranquillizzava l’interlocutore dicendo: «Poi divideremo tutto». Soldi che, come dice oggi al nostro Giacomo Amadori uno degli intermediari che parteciparono all’operazione, dovevano anche servire per pagare i politici. Ma non c’erano solo i milioni, era già pronto anche lo studio legale che avrebbe dovuto far transitare i quattrini senza destare sospetti. C’è voluto un anno, ma alla fine, nonostante il silenzio assordante di gran parte della stampa italiana, la Procura ha spedito una serie di avvisi per corruzione internazionale, perquisendo case e uffici di ex manager e notificando un avviso di garanzia allo stesso D’Alema. E adesso torniamo al confronto. Cioè ai titoli a tutta pagina dedicati a uno scandalo che non c’era e a quelli dedicati allo scandalo che c’è. Sul caso Metropol, sono state fatte copertine con la faccia di Salvini e titoli con i milioni (mai) incassati. Al caso D’Alema, dal giorno in cui è esploso, ossia un anno fa, nessuno, tranne noi, ha mai dedicato un titolo d’apertura in prima pagina. Tuttavia, da giorni si parla di regime autoritario e di informazione imbavagliata. I due casi che vi ho appena citato dimostrano effettivamente che il regime esiste, come così pure il bavaglio. Ma è una censura rigorosamente di sinistra, che tace ciò che imbarazza e dà fuoco alle polveri se c’è la possibilità di colpire un avversario. Del resto, la disinformatia l’hanno inventata i sovietici, mica i sovranisti.
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