Il commissario all’emergenza Valerio Valenti: «Chi chiede l’asilo dovrà avere la risposta entro un mese. E nel frattempo rimarrà nei centri».
Il commissario all’emergenza Valerio Valenti: «Chi chiede l’asilo dovrà avere la risposta entro un mese. E nel frattempo rimarrà nei centri». Valerio Valenti (Imagoeconomica) Valerio Valenti, lei da aprile è commissario per l’emergenza immigrazione. Di che cosa si sta occupando esattamente?«Il mio compito è quello di coordinare e ottimizzare tutte le complesse attività che derivano dall’arrivo di migranti sul territorio nazionale. L’obiettivo è quello di rendere più efficiente il sistema di accoglienza a fronte dell’incremento dei flussi registrato in questi ultimi mesi, intervenendo sui profili organizzativi e gestionali».Stando a quel che si legge sui quotidiani ci sono un po’ di problemi legati proprio all’accoglienza, in particolare la cosiddetta accoglienza diffusa: trovare posto per tutti gli stranieri in arrivo non è semplice.«Sicuramente esiste un problema che nasce da un numero di arrivi sulle nostre coste così importante. È sotto gli occhi di tutti, però, che il lavoro che stiamo portando avanti con i prefetti, ampliando le strutture di primissima accoglienza e realizzando nuovi hotspot sul territorio, ha dato risultati. Un impegno straordinario che, al netto delle difficoltà, ci ha consentito di affrontare questa fase e siamo fiduciosi che possa produrre ulteriori effetti».Sta dicendo che il sistema ha retto, insomma.«Nessuno nasconde le difficoltà ma siamo riusciti comunque ad affrontarle. Dopodiché è chiaro che con questi numeri non sia facile gestire la situazione».Nei giorni scorsi alcune associazioni – Caritas Ambrosiana, Progetto Arca e altre – hanno dichiarato che con il taglio dei fondi per l’accoglienza non possono farsi carico di altri stranieri. Qualcuno ha scritto che con il decreto Cutro sono stati ridotti a 27-29 euro i famosi 35 euro al giorno…«Assolutamente no. Il decreto Cutro non fissa queste cifre, anche perché non entra nelle dinamiche dei costi per l’accoglienza».Quindi oggi a quanto ammonta la spesa quotidiana per migrante?«Rimane invariata, rispetto al passato non è cambiato assolutamente nulla. Gli importi sono quelli che venivano corrisposti con i decreti Lamorgese, non c’è stata nessuna variazione. Posso darle soltanto un ordine di grandezza orientativo, perché ci sono parametri che cambiano sulla base di valutazioni territoriali Istat, ma siamo attestati intorno ai 34 euro al giorno».Quindi chi dice che ci sono meno soldi e l’accoglienza è insostenibile non dice il vero.«Aggiungo qualche dettaglio. Anche grazie alla dichiarazione dello stato d’emergenza, i prefetti - in presenza di situazioni straordinarie (ovviamente adeguatamente motivate) - hanno la possibilità di articolare diversamente la spesa, di alleggerire alcune prestazioni».Insomma di rendere meno oneroso il servizio di accoglienza per chi lo esercita.«Sì. Non ci siamo occupati solo dell’emergenza ma, a regime, abbiamo frattanto lavorato sul capitolato d’appalto che regola l’accoglienza sul territorio senza innalzare il tetto di spesa».Può spiegare meglio?«Abbiamo lasciato invariati i 33-34 euro al giorno pro capite, ma abbiamo inciso sulla modalità di erogazione dei servizi senza che la qualità ne possa risentire. In questo modo con quei 34 euro si riescono a coprire egualmente tutte le spese».Nella pratica che significa incidere sui servizi?«Si riducono le spese per alcune prestazioni, si alleggeriscono alcune attività che sono molto onerose per i gestori e tuttavia si lascia invariata la qualità delle stesse. Per altro, tutto ciò è stato fatto proprio ascoltando le richieste delle associazioni».Lei ha parlato di hotspot per i migranti in arrivo. Dove si trovano?«Principalmente in Calabria e in Sicilia. Sono strutture di primissima accoglienza, in cui offriamo assistenza immediatamente dopo lo sbarco e un primo screening sanitario. Dalla dichiarazione dello stato d’emergenza ad oggi abbiamo incrementato i posti in queste strutture di oltre 1.500 unità e altri 1.700-1.800 posti li realizzeremo entro la fine del mese, con l’obiettivo di arrivare a 3.500-4.000 posti aggiuntivi rispetto a quelli già esistenti. Abbiamo anche altre iniziative in programma sempre in Calabria e in Puglia per potenziare la primissima accoglienza: ciò significa avere più tempo per organizzare quella nei Cas che segue alla successiva ridistribuzione dei migranti sul territorio nazionale».Può illustrarci i vari passaggi? Un migrante sbarca, viene trasferito nell’hotspot e poi?«E poi dagli hotspot viene trasferito in accoglienza sul territorio nazionale secondo quote stabilite sistematicamente ad ogni sbarco e che dipendono dalla popolazione e dall’ampiezza del territorio. In ogni caso le proporzioni sono uguali per tutti: chi oggi è in debito, a breve sarà in credito, non facciamo differenze e non incidiamo eccessivamente su un territorio rispetto a un altro».Una volta stabilite le quote che accade?«Il prefetto del capoluogo di regione, sulla base di medesimi criteri applicati a livello provinciale, ripartisce i migranti sul territorio: è un meccanismo che viene gestito dal dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione coordinando le prefetture regionali e a loro volta quelle di ogni provincia. Il tutto sempre in una logica di condivisione con tutti i territori, con i sindaci, le associazioni…».Quante persone sono inserite attualmente nel sistema di accoglienza?«Più di 100.000. I posti in accoglienza sono cresciuti durante il periodo della gestione commissariale del 10%».A proposito: alcune regioni non hanno sottoscritto lo stato di emergenza.«In Toscana, Emilia-Romagna e Puglia, le tre regioni che non hanno ancora aderito alla dichiarazione sullo stato d’emergenza e non hanno sottoscritto l’intesa, non si applicano quelle misure emergenziali che gli altri prefetti sul territorio - attraverso il commissario - possono mettere in campo. Si tratta di misure straordinarie di natura meramente tecnica finalizzate ad accelerare le procedure per migliorare il sistema di accoglienza. Non si tratta di altro».Non converrebbe a queste regioni sottoscrivere l’intesa?«Non sono valutazioni che spettano a me. Certamente quei territori sono privati di alcuni strumenti che, come ho detto, hanno l’esclusivo obiettivo di consentire ai prefetti di agire più velocemente ed efficacemente».Restiamo sui prefetti. C’è stata molta polemica su una circolare del ministero che invita a far uscire dal sistema di accoglienza chi ha ottenuto lo status di rifugiato. C’è chi dice che queste persone finiranno in mezzo alla strada.«Non si tratta di mettere persone in mezzo ad una strada. Si tratta di persone che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno già una forma di reddito. Sono persone che per lo più svolgono attività lavorative. Certo, attività che non superano il livello di reddito consentito, altrimenti ci sarebbe l’uscita automatica dal sistema di accoglienza».Questo perché il richiedente asilo può lavorare.«Certo che sì. I richiedenti asilo hanno un titolo di soggiorno sul territorio che li pone in una condizione di regolarità, quindi hanno la possibilità di avere contratti di lavoro a tempo determinato e non in vari settori. A volte sono i gestori dell’accoglienza ad agevolare il percorso. Io, ad esempio, ho fatto il prefetto a Brescia che è una provincia particolarmente operosa. Lì le esperienze di questo tipo erano tantissime: i richiedenti lavoravano, chi in agricoltura chi in altri ambiti».Dunque gli stranieri non finiranno per strada?«Stiamo parlando comunque di persone integrate. Il tempo di permanenza medio nelle strutture di accoglienza non è inferiore a due anni. Quindi una persona che è già da due anni all’interno di una struttura di accoglienza parla l’italiano, ha un buon livello di interazione con il mondo esterno. A mio avviso è giusto far spazio a soggetti che sono appena arrivati e che non hanno un minimo di supporto, che hanno bisogno di essere accolti e seguiti. Trovo assolutamente logico che ci sia questo turnover».Qualche politico e alcune associazioni sostengono che chi esce dal sistema di accoglienza dovrebbe essere accompagnato in altro modo.«Chi ha criticato questa circolare dice che i migranti dovrebbero passare da un sistema straordinario - che in realtà oggi è diventato abbastanza ordinario – al Sai, il sistema di accoglienza gestito dai comuni. Questi passaggi nel Sai sono molto complessi».Perché?«Le faccio un esempio. Se il migrante si trova in un Cas fiorentino e gli si offre la possibilità di entrare in un progetto Sai in Basilicata, è molto probabile che non accetti tale proposta, preferisca piuttosto restare dove si trova, e così lascia occupato un posto che invece servirebbe tanto in questa contingenza. Semmai, si dovrebbe ragionare sui tempi dilatati con cui si svolge l’attività di accoglienza straordinaria. Ma questo dipende dai vari passaggi amministrativi e non previsti dalle norme: le decisioni delle commissioni di riconoscimento dello status e il ricorso quasi sistematico all’autorità giudiziaria, che ovviamente incidono in maniera determinante su questi tempi».Perché si ricorre all’autorità giudiziaria?«Se la commissione non riconosce il diritto alla protezione, e ciò accade per più del 60% dei casi, perché il richiedente non proviene né da un Paese in guerra né da una situazione in cui è sottoposto a discriminazioni sessuali, razziali, religiose o di altra natura, questi per legge e per principi di diritto internazionale può appellarsi e invocare l’autorità giudiziaria. C’è una sezione specializzata nel tribunale in ogni distretto di Corte d’appello».E nel frattempo, mentre mi appello, resto nel sistema di accoglienza.«Esatto. La circolare di cui parlavamo prima, invece, fa riferimento a persone che il riconoscimento lo hanno già ottenuto. E qui tralascio volutamente alcuni aspetti di responsabilità contabile… Per essere chiari: se arrivi, chiedi lo status di rifugiato e io te lo concedo, a che titolo poi continuo a pagare una struttura che ti tiene all’interno di questo sistema se tu hai già il titolo di soggiorno?».Qualcuno dice: anche se ottieni lo status di rifugiato poi devi aspettare il permesso di soggiorno dalla Questura, e non arriva subito.«In molti casi è così. Ma comunque i migranti possono lavorare, possono circolare, hanno un documento sostitutivo del permesso che attesta che sono richiedenti asilo aventi diritto a stare legittimamente sul territorio nazionale. Io non ci trovo nulla di sconvolgente nell’idea che queste persone lascino spazio ad altre più bisognose di aiuto immediato».Quanto ci costa tutta questa macchina dell’accoglienza?«Sono circa 33 euro pro capite pro die per oltre 100.000 persone, faccia lei qualche calcolo».Quasi 3,5 milioni di euro al giorno. Niente male. Ma vedete qualche segno di flessione negli arrivi?«Si registra una riduzione dei flussi provenienti dalla Libia e questo credo sia il frutto dell’attività svolta dal nostro governo nei mesi scorsi in Tripolitania e Cirenaica. Anche sul fronte tunisino il governo sta lavorando intensamente, ci vuole un po’ di tempo per vedere i risultati. Io sono fiducioso sul fatto che anche lì si possano produrre effetti sui flussi irregolari».Tocchiamo un altro tasto solitamente dolente. I rimpatri. Facile prometterli, più difficile realizzarli.«È un’attività, quella di rimpatrio, che stiamo cercando di potenziare e migliorare. In questo senso credo che sia importantissimo il decreto approvato a Cutro: è stato innovativo, in qualche modo precursore di quello che sarà il nuovo patto europeo per la migrazione».Perché?«Perché, oltre a semplificare e velocizzare le procedure per la realizzazione dei Cpr, introduce procedure accelerate di frontiera, che consentono una riduzione dei tempi di esame delle posizioni dei singoli migranti, oggi eccessivamente dilatati. Si punta, in particolare, a contenere questi tempi in un mese al massimo. Circa 9 giorni perché le commissioni per la protezione internazionale possano svolgere il loro lavoro e quattro settimane circa per l’autorità giudiziaria. Entro questo limitato periodo, si deve decidere se ha diritto o meno di restare. Questa procedura si applica nei confronti dei cittadini provenienti dai cosiddetti Paesi sicuri, il cui elenco è costantemente aggiornato dal ministero degli Esteri. Sono nazioni che non hanno situazioni conclamate di guerra e di violazione dei diritti umani ed in cui la percentuale degli aventi diritto alla protezione è inferiore al 10%. Dunque si suppone che chi viene da lì non viva situazioni che possano determinare il riconoscimento dello status di protezione».Quindi chi viene da una di queste nazioni può fare richiesta di asilo ed entro un mese viene accolta o respinta.«Sì. Resteranno nelle strutture di accoglienza al massimo un mese in attesa della decisione, all’esito della quale potranno essere riconosciuti come aventi titolo a rimanere sul territorio nazionale e quindi trasferiti nei centri d’accoglienza, oppure dovranno essere rimpatriati. E qui l’obiettivo del governo – ed è ovviamente un mio obiettivo – è quello di incrementare immediatamente questa macchina del rimpatrio».Che deve ancora partire.«Tenga conto che la legge è di maggio. Stiamo realizzando un primo centro a Pozzallo che avrà una capacità di 84 posti, poi a ruota ultimeremo altre strutture».C’è poi il problema degli accordi con i Paesi di origine, che spesso non vogliono i rimpatri. Almeno in passato era così.«Oggi abbiamo accordi con la Tunisia, con l’Egitto e con altri Paesi. Stiamo lavorando a un importante accordo con la Costa d’Avorio, che fino a poco fa era il primo e ora è il secondo Paese d’ingresso sul territorio nazionale con circa 11.700 ingressi dal 1° gennaio di quest’anno. Stiamo lavorando per realizzare quanto prima la sperimentazione delle procedure accelerate su cui il governo ha investito molto. Nel frattempo speriamo che anche questi accordi di riammissione possano implementarle».E con l’accordo europeo cosa dovrebbe cambiare?«L’accordo europeo prevede che ogni Stato abbia addirittura delle quote di rimpatri da rispettare. Quando il patto diventerà operativo e le procedure saranno completate dovremo anche noi rispettare gli obiettivi assegnati. Il governo italiano si è portato avanti, ha anticipato questi impegni e attraverso il decreto Cutro ha già avviato la realizzazione di strutture dedicate»..
Jeffrey Epstein (Getty Images)
Pubblicati i primi file. Il trafficante morto misteriosamente in carcere disse: «Sono l’unico in grado di abbattere Trump».
La torbida vicenda che ruota attorno alla controversa figura di Jeffrey Epstein è tornata di prepotenza al centro del dibattito politico americano: nuovi documenti, nuovi retroscena e nuove accuse. Tutte da verificare, ovviamente. Anche perché dal 2019, anno della morte in carcere del miliardario pedofilo, ci sono ancora troppi coni d’ombra in questa orribile storia fatta di abusi, ricatti, prostituzione minorile, silenzi, depistaggi e misteri. A partire proprio dalle oscure circostanze in cui è morto Epstein: per suicidio, secondo la ricostruzione ufficiale, ma con i secondini addormentati e l’assenza delle riprese delle telecamere di sicurezza.
Nel riquadro, Giancarlo Tulliani in una foto d'archivio
Requisiti una villa, conti correnti accesi in Italia e all’estero e due automobili, di cui una di lusso. I proventi di attività illecite sono stati impiegati nuovamente per acquisizioni di beni immobili e mobili.
Lo Scico della Guardia di finanza ha eseguito ieri un decreto di sequestro per circa 2,2 milioni di euro emesso dal Tribunale di Roma su proposta dei pm della Direzione distrettuale Antimafia, nei confronti di Giancarlo Tulliani, attualmente latitante a Dubai e fratello di Elisabetta Tulliani, compagna dell’ex leader di Alleanza nazionale Gianfranco Fini. La sezione Misure di prevenzione del Tribunale della Capitale ha disposto nei confronti di Tulliani il sequestro di una villa a Roma, di conti correnti accesi in Italia e all’estero e due autovetture di cui una di lusso, per un valore complessivo, come detto, di circa 2,2 milioni di euro. «Il profitto illecito dell’associazione, oggetto di riciclaggio, veniva impiegato, oltre che in attività economiche e finanziarie, anche nell’acquisizione di immobili da parte della famiglia Tulliani, in particolare Giancarlo», spiega una nota. «Quest’ultimo, dopo aver ricevuto, direttamente o per il tramite delle loro società offshore, ingenti trasferimenti di denaro di provenienza illecita, privi di qualsiasi causale o giustificati con documenti contrattuali fittizi, ha trasferito le somme all’estero, utilizzando i propri rapporti bancari.
2025-11-14
Casalasco apre l’Innovation Center: così nasce il nuovo hub del Made in Italy agroalimentare
A Fontanellato il gruppo Casalasco inaugura l’Innovation Center, polo dedicato a ricerca e sostenibilità nella filiera del pomodoro. Presenti il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, l’amministratore delegato di FSI Maurizio Tamagnini e il presidente della Tech Europe Foundation Ferruccio Resta. L’hub sarà alimentato da un futuro parco agri-voltaico sviluppato con l’Università Cattolica.
Casalasco, gruppo leader nella filiera integrata del pomodoro, ha inaugurato oggi a Fontanellato il nuovo Innovation Center, un polo dedicato alla ricerca e allo sviluppo nel settore agroalimentare. L’obiettivo dichiarato è rafforzare la competitività del Made in Italy e promuovere un modello di crescita basato su innovazione, sostenibilità e radicamento nel territorio.
All'evento hanno partecipato il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, l’amministratore delegato di FSI Maurizio Tamagnini, il presidente della Tech Europe Foundation Ferruccio Resta e il management del gruppo. Una presenza istituzionale che sottolinea il valore strategico del progetto.
Urso ha definito il nuovo centro «un passaggio fondamentale» e un esempio di collaborazione tra imprese, ricerca e istituzioni. Per Marco Sartori, presidente di Casalasco Spa e del Consorzio Casalasco del Pomodoro, l’hub «non è un punto d’arrivo ma un nuovo inizio», pensato per ospitare idee, sperimentazioni e collaborazioni capaci di rafforzare la filiera.
L’amministratore delegato Costantino Vaia parla di «motore strategico» per il gruppo: uno spazio dove tradizione e ricerca interagiscono per sviluppare nuovi prodotti, migliorare i processi e ridurre l’impatto ambientale. Tamagnini, alla guida di FSI – investitore del gruppo – ricorda che il progetto si inserisce in un percorso di raddoppio dimensionale e punta su prodotti italiani «di qualità valorizzabili all’estero» e su una filiera sostenibile del pomodoro e del basilico.
Progettato dallo studio Gazza Massera Architetti, il nuovo edificio richiama le cascine padane e combina materiali tradizionali e tecnologie moderne. I mille metri quadrati interni ospitano un laboratorio con cucina sperimentale, sala degustazione, auditorium e spazi di lavoro concepiti per favorire collaborazione e benessere. L’architetto Daniela Gazza lo definisce «un’architettura generativa» in linea con i criteri di riuso e Near Zero Energy Building.
Tra gli elementi distintivi anche l’Archivio Sensoriale, uno spazio immersivo dedicato alla storia e ai valori dell’azienda, curato da Studio Vesperini Della Noce Designers e da Moma Comunicazione. L’arte entra nel progetto con il grande murale di Marianna Tomaselli, che racconta visivamente l’identità del gruppo ed è accompagnato da un’esperienza multimediale.
All’esterno, il centro è inserito in un parco ispirato all’hortus conclusus, con orti di piante autoctone, una serra e aree pensate per la socialità e il benessere, a simboleggiare la strategia di sostenibilità del gruppo.
Casalasco guarda già ai prossimi sviluppi: accanto all’edificio sorgerà un parco agri-voltaico realizzato con l’Università Cattolica di Piacenza, che unirà coltivazioni e produzione di energia rinnovabile. L’impianto alimenterà lo stesso Innovation Center, chiudendo un ciclo virtuoso tra agricoltura e innovazione tecnologica.
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Da sinistra in alto: Piero Amara, Catiuscia Marini, Sergio Sottani e Luca Palamara (Ansa)
Dopo le parole di Amara alla «Verità», trasmessa in Cassazione una relazione sul pm «in ginocchio». Si può riaprire il caso Palamara. Le analogie con le inchieste sulla toga Duchini e sulla ex governatrice Marini.
Da settimane i media si stanno occupando del cosiddetto Sistema Pavia, un coacervo melmoso di indagini e affari scoperchiato mediaticamente anche grazie agli scoop della Verità. Ora, sempre grazie al nostro lavoro, sta emergendo come anche in Umbria i pm abbiano usato metodi non proprio ortodossi per raggiungere i propri obiettivi. Ricordiamo che la Procura di Perugia ha la titolarità delle inchieste che coinvolgono i magistrati del distretto di Roma. Una funzione che rende quegli uffici giudiziari una delle Procure più influenti del Paese. Nonostante la sua centralità, resta, però, dal punto di vista dell’organico e forse dell’attitudine, un ufficio di provincia, dove tutti si conoscono e le vite delle persone si intrecciano indissolubilmente.






