2025-02-21
Possibile ritorno a Mosca di alcune aziende americane e patto per l’Artico. Bruxelles per ripicca vara il sedicesimo pacchetto.A questo punto non si capisce proprio dove l’Europa voglia andare a parare. Mentre il presidente americano Donald Trump allenta la presa sulle sanzioni alla Russia e spinge sui negoziati, l’Europa, marginalizzata al tavolo della diplomazia, continua a brandire la scure contro Mosca varando l’ennesimo pacchetto di divieti. Tra Washington e Bruxelles è quanto mai evidente un disallineamento nelle strategie sul conflitto ucraino e per le relazioni con Mosca. Il comunicato del dipartimento di Stato americano, durante il vertice di Riad, diceva di «gettare le basi per una futura cooperazione su questioni di comune interesse geopolitico e su storiche opportunità economiche e di investimento». Un messaggio rivolto al presidente russo Vladimir Putin che dal canto suo starebbe stilando, secondo indiscrezioni, una lista di imprese americane che avrebbero libero accesso in Russia per investire. Un passo verso il disgelo dei rapporti, a cui contestualmente Washington risponderebbe lasciando a Putin una fetta ampia di territori ucraini, in cambio del dominio economico sul resto del Paese (è uno dei contenuti della bozza di accordo inviata dalla Casa Bianca a Volodymyr Zelensky). Le motivazioni sono pragmaticamente economiche: con il ritiro delle sanzioni, Trump potrebbe assicurare alle aziende americane accordi con quelle russe per sviluppare le estrazioni di idrocarburi dall’Artico. In questo la tecnologia americana è all’avanguardia. Nei fondali del Circolo polare c’è il 20% delle risorse globali di petrolio e gas ed è un’area sulla quale ha messo gli occhi anche la Cina.Quindi queste le grandi manovre: da una parte le terre rare dell’Ucraina e dall’altra le riserve di idrocarburi nel Polo Nord. Trump sa che la condizione per mettere le mani su questo tesoretto è stringere presto un accordo che ponga fine al conflitto e incassare i dividendi dell’impegno militare.Fin qui tutto chiaro e, se vogliamo, lineare. Non si capisce invece la strategia seguita dall’Europa. Mentre a Riad gli Usa spingevano sui negoziati con Mosca, quasi in contemporanea Bruxelles varava l’ennesimo pacchetto, il sedicesimo, di sanzioni contro la Russia. Gli Stati Uniti creano le condizioni per trarre un vantaggio economico dalla partita ucraina; l’Europa, avvitata su sé stessa, taglia tutti i ponti. L’approvazione formale del pacchetto è prevista per lunedì, in occasione del Consiglio Affari esteri dell’Ue che si svolgerà a Bruxelles. Le sanzioni prevedono il divieto di transazioni con porti e aeroporti in Russia, elusione del tetto massimo per prezzo del petrolio, rimozione dello Swift da 13 banche russe e da tre istituzioni finanziarie, 73 nuovi nomi segnalati di navi della cosiddetta «flotta ombra», sospensione delle licenze di trasmissione nell’Unione dei media russi, 53 nuove entità nell’elenco di persone fisiche o giuridiche, entità e organismi, congelamento dei beni e divieto di ingresso nell’Ue per nuovi soggetti, divieti di esportazione di precursori chimici, nuovo divieto di importazione per alluminio primario e ulteriori requisiti di approvazione nel settore dell’aviazione. L’impatto si è già fatto sentire. Il prezzo del future sull’alluminio ha sfondato i 2700 dollari. Il divieto di importazione dell’alluminio primario russo, venduto sotto forma di lingotti, brame e billette, era stato discusso in passato ma mai approvato per la reticenza di alcuni Stati membri preoccupati delle conseguenze economiche. Questo materiale rappresenta circa il 6% delle importazioni di alluminio della Ue. Bruxelles ha già vietato alcuni prodotti come fili, tubi e condotte ma ora lo spettro si allarga.Per la «flotta ombra» si intendono quelle petroliere che il Cremlino ha schierato per aggirare le restrizioni occidentali sul commercio di petrolio e mantenere una fonte cruciale per finanziare la guerra ucraina. Si tratta di navi vecchie e non assicurate che sono sospettate di pratiche ingannevoli come lo spegnimento dei transponder per diventare invisibili e il trasbordo multiplo da nave a nave per nascondere l’origine dei barili di petrolio. Si stima che la «flotta ombra» abbia circa 600 navi ed è stata accusata in passato degli incidenti nel Mar Baltico e di aver compiuto sabotaggi contro i cavi sottomarini. L’Europa con le nuove sanzioni va in direzione opposta a quella seguita dalla Casa Bianca. Ma va anche contro agli interessi delle industrie sfiancate dal caro energia e che vorrebbero riattivare i flussi di metano dalla Russia. Al momento contro Mosca sono in vigore 15.000 divieti, applicati oltre che dall’Ue e dagli Stati Uniti anche dal Regno Unito, Canada, Giappone, Australia e Corea del Sud. Il segretario di Stato Usa Marco Rubio ha detto che le sanzioni faranno parte del negoziato. A quel punto anche la Ue dovrà dire qualcosa. Anche perché, gli Stati Uniti anticipando i tempi possono direzionare verso di loro i flussi economici e sbarrare la strada all’espansione cinese. Bruxelles rischia di dover subire gli accordi decisi tra Washington e Mosca, con un danno alla propria economia.
Agostino Ghiglia e Sigfrido Ranucci (Imagoeconomica)
Il premier risponde a Schlein e Conte che chiedono l’azzeramento dell’Autorità per la privacy dopo le ingerenze in un servizio di «Report»: «Membri eletti durante il governo giallorosso». Donzelli: «Favorevoli a sciogliere i collegi nominati dalla sinistra».
Il no della Rai alla richiesta del Garante della privacy di fermare il servizio di Report sull’istruttoria portata avanti dall’Autorità nei confronti di Meta, relativa agli smart glass, nel quale la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio del Garante Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni di euro, ha scatenato una tempesta politica con le opposizioni che chiedono l’azzeramento dell’intero collegio.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala (Imagoeconomica)
La direttiva Ue consente di sforare 18 volte i limiti: le misure di Sala non servono.
Quarantaquattro giorni di aria tossica dall’inizio dell’anno. È il nuovo bilancio dell’emergenza smog nel capoluogo lombardo: un numero che mostra come la città sia quasi arrivata, già a novembre, ai livelli di tutto il 2024, quando i giorni di superamento del limite di legge per le polveri sottili erano stati 68 in totale. Se il trend dovesse proseguire, Milano chiuderebbe l’anno con un bilancio peggiore rispetto al precedente. La media delle concentrazioni di Pm10 - le particelle più pericolose per la salute - è passata da 29 a 30 microgrammi per metro cubo d’aria, confermando un’inversione di tendenza dopo anni di lento calo.
Bill Gates (Ansa)
Solo pochi fanatici si ostinano a sostenere le strategie che ci hanno impoverito senza risultati sull’ambiente. Però le politiche green restano. E gli 838 milioni versati dall’Italia nel 2023 sono diventati 3,5 miliardi nel 2024.
A segnare il cambiamento di rotta, qualche giorno fa, è stato Bill Gates, niente meno. In vista della Cop30, il grande meeting internazionale sul clima, ha presentato un memorandum che suggerisce - se non un ridimensionamento di tutto il discorso green - almeno un cambio di strategia. «Il cambiamento climatico è un problema serio, ma non segnerà la fine della civiltà», ha detto Gates. «L’innovazione scientifica lo arginerà, ed è giunto il momento di una svolta strategica nella lotta globale al cambiamento climatico: dal limitare l’aumento delle temperature alla lotta alla povertà e alla prevenzione delle malattie». L’uscita ha prodotto una serie di reazioni irritate soprattutto fra i sostenitori dell’Apocalisse verde, però ha anche in qualche modo liberato tutti coloro che mal sopportavano i fanatismi sul riscaldamento globale ma non avevano il fegato di ammetterlo. Uscito allo scoperto Gates, ora tutti possono finalmente ammettere che il modo in cui si è discusso e soprattutto si è agito riguardo alla «crisi climatica» è sbagliato e dannoso.
Elly Schlein (Ansa)
Avete presente Massimo D’Alema quando confessò di voler vedere Silvio Berlusconi chiedere l’elemosina in via del Corso? Non era solo desiderare che fosse ridotto sul lastrico un avversario politico, ma c’era anche l’avversione nei confronti di chi aveva fatto i soldi.
Beh, in un trentennio sono cambia ti i protagonisti, ma la sinistra non è cambiata e continua a odiare la ricchezza che non sia la propria. Così adesso, sepolto il Cavaliere, se la prende con il ceto medio, i nuovi ricchi, a cui sogna di togliere gli sgravi decisi dal governo Meloni. Da anni si parla dell’appiattimento reddituale di quella che un tempo era la classe intermedia, ma è bastato che l’esecutivo parlasse di concedere aiuti a chi guadagna 50.000 euro lordi l’anno perché dal Pd alla Cgil alzassero le barricate. E dire che poche settimane fa la pubblicazione di un’analisi delle denunce dei redditi aveva portato a conclusioni a dir poco sor prendenti. Dei 42,6 milioni di dichiaranti, 31 milioni si fanno carico del 23,13 dell’Irpef, mentre gli altri 11,6 milioni pagano il resto, ovvero il 76,87 per cento.
In sintesi, il 43 per cento degli italiani non paga l’imposta, mentre chi guadagna più di 60.000 euro lordi l’anno paga per due. Di fronte a questi numeri qualsiasi persona di buon senso capirebbe che è necessario alleggerire la pressione fiscale sul ceto medio, evitando di tartassarlo. Qualsiasi, ma non i vertici della sinistra. Pd, Avs e Cgil dunque si agitano compatti contro gli sgravi previsti dal la finanziaria, sostenendo che il taglio dell’Irpef è un regalo ai più ricchi. Premesso che per i redditi alti, cioè quello 0,2 per cento che in Italia dichiara più di 200.000 euro lordi l’anno, non ci sarà alcun vantaggio, gli altri, quelli che non sono in bolletta e guadagnano più di 2.000 euro netti al mese, pare davvero difficile considerarli ricchi. Certo, non so no ridotti alla canna del gas, ma nelle città (e quasi sempre le persone con maggiori entrate vivono nei capoluoghi) si fa fatica ad arrivare a fine mese con uno stipendio che per metà e forse più se ne va per l’affitto. Negli ultimi anni le finanziarie del governo Meloni hanno favorito le fasce di reddito basse e medie. Ora è la volta di chi guadagna un po’di più, ma non molto di più, e che ha visto in questi anni il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Ma a sinistra non se la prendono solo con i redditi oltre i 50.000 euro. Vogliono anche colpire il patrimonio e così rispolverano una tassa che punisca le grandi ricchezze e le proprietà immobiliari. Premesso che le due cose non vanno di pari passo: si può anche possedere un appartamento del valore di un paio di milioni ma, avendolo ereditato dai geni tori, non avere i soldi per ristrutturarlo e dunque nemmeno per pagare ogni anno una tassa.
Dunque, possedere un alloggio in centro, dove si vive, non sempre è indice di patrimonio da ricchi. E poi chi ha una seconda casa paga già u n’imposta sul valore immobiliare detenuto ed è l’I mu, che nel 2024 ha consentito allo Stato di incassare l’astronomica cifra di 17 miliardi di euro, il livello più alto raggiunto negli ultimi cinque anni. Milionari e miliardari, quelli veri e non immaginati dai compagni, certo non hanno il problema di pagare una tassa sui palazzi che possiedono, ma non hanno neppure alcuna difficoltà a ingaggiare i migliori fiscali sti per sottrarsi alle pretese del fisco e, nel caso in cui neppure i professionisti sia no in grado di metterli al riparo dall’Agenzia delle entrate, possono sempre traslocare, spostando i propri soldi altrove. Come è noto, la finanza non ha confini e l’apertura dei mercati consente di portare le proprie attività dove è più conveniente. Quando proprio il Pd, all’e poca guidato da Matteo Renzi, decise di introdurre una flat tax per i Paperoni stranieri, migliaia di nababbi presero la residenza da noi. E se domani l’imposta venisse abolita probabilmente andrebbero altrove, seguiti quasi certamente dai ricconi italiani. Del resto, la Svizzera è vicina e, come insegna Carlo De Benedetti, è sempre pronta ad accogliere chi emigra con le tasche piene di soldi. Inoltre uno studio ha recentemente documentato che l’introduzione negli Usa di una patrimoniale per ogni dollaro incassato farebbe calare il Pil di 1 euro e 20 centesimi, con una perdita secca del 20 per cento. Risultato, la nuova lotta di classe di Elly Schlein e compagni rischia di colpire solo il ceto medio, cancellando gli sgravi fiscali e inasprendo le imposte patrimoniali. Quando Mario Monti, con al fianco la professoressa dalla lacrima facile, fece i compiti a casa per conto di Sarkozy e Merkel , l’Italia entrò in de pressione, ma oggi una patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
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