2025-07-14
Ursula non può negoziare per noi. Sui dazi ci salviamo facendo da soli
Ursula von der Leyen (Ansa)
L’Italia deve puntare ad accordi bilaterali per proteggere le sue eccellenze come moda e agroalimentare: Bruxelles non è in grado di trattare per noi. Non a caso Londra, grazie alla Brexit, è riuscita a ottenere un’intesa al 10% e tariffe speciali su auto e acciaio.Se il Financial Times, ancor prima dell’annuncio dei nuovi dazi al 30% verso la Ue a partire dal 1° agosto, mercoledì aveva parlato esplicitamente di «dividendo della Brexit», da sabato possiamo parlare di «super dividendo».Infatti l’ipotesi, basata su solide fonti, avanzata dal Ft , prevedeva che Bruxelles fosse pronta a firmare un accordo «quadro» temporaneo che fissava i dazi «reciproci» del presidente degli Stati Uniti al 10 per cento, eguagliando il dazio di base imposto al Regno Unito. Ma, con grande delusione per i negoziatori europei, alla Ue non sarebbe spettato lo stesso accesso al mercato statunitense dell’acciaio, delle auto e di altri prodotti britannici soggetti a dazi settoriali. A peggiorare il quadro, si è aggiunta anche la richiesta di dazi del 17% sui prodotti agroalimentari europei. Un diplomatico Ue ha confessato candidamente che «l’accordo con il Regno Unito è migliore del nostro, è una sorpresa, considerando quanto a lungo abbiamo negoziato». E si riferiva a un dazio base del 10%, figurarsi il 30% che è all’orizzonte.Quando a inizio maggio il primo ministro Keir Starmer aveva chiuso, rapidamente e con grande anticipo rispetto a tutti gli altri Paesi, l’accordo con Donald Trump, da Bruxelles erano arrivate critiche all’eccessiva fretta di Londra, a cui si imputava un accordo penalizzante. I funzionari Ue contavano sulla possibilità di mettere sul piatto della trattativa ben altro potere negoziale.Ma è andata diversamente. Secondo il Ft, i negoziatori dell’Ue sono stati criticati per il loro approccio durante i colloqui, sia dalle imprese sia da alcune capitali europee. Bernard Arnault, amministratore delegato di Lvmh, a maggio ha detto che il blocco è partito con il «piede sbagliato». Il cancelliere tedesco Friedrich Merz la settimana scorsa ha detto che l’approccio della Commissione era «fin troppo complicato» e ha chiesto un accordo «rapido».Merz ancora mercoledì sosteneva che i colloqui «non erano facili» date le richieste degli Stati Uniti, ma restava «cautamente ottimista» su una svolta, che non è arrivata. Va osservato che il Regno Unito, che ha un deficit commerciale con gli Stati Uniti, ha subito il dazio di base del 10%, senza riuscire a ridurlo. Tuttavia, Londra ha ottenuto termini migliori sui dazi «settoriali»: una quota annuale di 100.000 auto con un dazio del 10 per cento - uno sconto rispetto al 25 per cento applicato ad altri esportatori verso gli Stati Uniti - e un accordo a dazio zero su acciaio e alluminio. I negoziatori britannici hanno anche ottenuto la promessa di un trattamento «significativamente preferenziale» sui farmaci.Dettagli che, cumulativamente, hanno costituito un duro colpo per le ambizioni dei negoziatori Ue, convinti di poter fare meglio e di evitare perfino il 10%, che invece, nei giorni che ci separano dal 1° agosto, potrebbe essere considerato come un successo.È pur vero che il Regno Unito non costituisce per gli Usa una fonte di squilibrio negli scambi commerciali, come lo è la Ue e, in particolare, la Germania. Quindi Londra ha beneficiato di questa oggettiva differenza. Ma è altrettanto vero che, se i britannici fossero stati ancora membri della Ue, oggi sarebbero rimasti intrappolati negli interessi contrapposti degli altri 27 Stati membri e avrebbero dovuto affidare la difesa dei loro interessi al commissario Maros Sefcovic e sarebbero finiti anch’essi nella «tonnara» del 30%.Ora restano alla Ue solo 16 giorni per rimediare al disastro negoziale degli ultimi tre mesi e almeno limitare i danni e la soluzione possibile non può che essere quella degli accordi bilaterali. Siamo troppo ingombranti e diversi per affidarci tutti a Sefcovic. Non dimentichiamo che circa metà del disavanzo commerciale tra Usa e Ue è generato dalla Germania, con differenze enormi tra i diversi Stati membri, soprattutto a livello settoriale. Auto, agroalimentare, farmaceutica, meccanica, moda: ogni comparto ha saldi diversi e interessa in maniera diversa ciascun Stato membro.In linea teorica, gli Usa hanno il potere di imporre dazi in entrata differenziati per ciascun Stato membro, poiché la Ue è un’unione doganale per le merci in entrata sul proprio territorio, non su quelle in uscita. Ma è una soluzione che si presta a essere facilmente aggirata con le triangolazioni. Ciascun Stato membro colpito da dazi più alti avrebbe incentivo a esportare negli Usa facendo transitare la merce attraverso un altro Stato membro che beneficia di un dazio più basso.Molto più efficace sarebbe affidare a negoziati bilaterali la definizione di dazi differenziati per tipologia di beni. Qualcosa di simile a quanto ha già fatto il Regno Unito. Se l’obiettivo degli Usa sono le auto, l’acciaio e l’alluminio - settori in cui primeggiano i tedeschi e relativamente poco interessanti per l’Italia - il nostro Paese punti a un trattamento preferenziale, ad esempio, per agroalimentare e moda. Che il regolamento di conti tra Usa e Germania avvenga sul terreno di scontro che li riguarda direttamente, evitando che la testarda difesa degli interessi tedeschi, francesi e irlandesi trascini a fondo anche noi.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)