2023-09-13
Ursula annuncia l’eurogabbia digitale: «Il nostro modello sarà il green pass»
Ursula von der Leyen (Ansa)
L’obiettivo è creare un passaporto continentale, dando poteri «cinesi» a Bruxelles. Il ruolo chiave del commissario Thierry Breton.Aiuto, abbiamo dimenticato una transizione. Così occupati a riparare testa e tasche da quella green portata avanti dall’esercito ecologista mondiale, non avevamo posto abbastanza attenzione su quella digitale, perfino più invasiva della prima. Eppure è qui, fra noi, anche questa fortemente sponsorizzata da Bruxelles e sintetizzata da due paroline che contengono tutto: green pass. Ne ha parlato Ursula Von der Leyen all’ultimo G20 di New Delhi richiamando i Paesi europei ad accelerare sull’identità digitale perché «la Ue prevede l’introduzione di un sistema complessivo di controllo dei dati che dovrebbe essere utilizzato dall’80% dei cittadini entro il 2030».La presidente della Commissione europea, che si appresta a ripetere il mantra oggi al Parlamento europeo nel discorso sullo stato dell’Unione, in India ha sottolineato un paio di dettagli tutt’altro che insignificanti magnificando il passaporto verde e confermando che quello sanitario è soltanto uno dei tanti possibili utilizzi dello strumento tecnologico. «Lo stratagemma (ha detto proprio the trick, il trucco, ndr) sta nel costruire un’infrastruttura digitale pubblica, che sia interoperabile, aperta a tutti e affidabile. Lasciate che vi faccia un esempio che è la realtà oggi: molti di voi conoscono il certificato digitale Covid-19. L’Ue lo ha sviluppato da sola. Il modello era così funzionale e così affidabile che 51 Paesi in 4 continenti lo adottarono gratuitamente. Oggi l’Organizzazione mondiale della sanità lo utilizza come standard globale per facilitare la mobilità in tempi di minacce alla salute».Trasformare il green pass in un passaporto continentale utilizzando l’autostrada virtuale dell’European Digital Green Certificate è lo scopo finale. Sempre più scoperto, sempre più accelerato. Un passaggio epocale destinato a conferire a Bruxelles poteri di sorveglianza di massa che neppure Pechino aveva al tempo della banda dei quattro. Ricordando come fu implementato in Italia fra gli applausi delle istituzioni (divieto di lavoro e discriminazioni sociali per i non vaccinati) meglio bypassare la frase di Von der Leyen «facilitare la mobilità»; si percepisce comunque la sgradevole sensazione di rientrare in un recinto orwelliano o più semplicemente in un tempo sovietico o cinese della vita. In cui sarà sufficiente un chip per controllare le spese, gli investimenti, i movimenti, le abitudini, i vizi e le virtù dei cittadini europei. Per validare dati, per proteggerli e per gestirli eventualmente anche in modo restrittivo come accadde in pandemia. Con sullo sfondo l’Euro digitale già ampiamente promosso dalla Bce, la cui infrastruttura poggerebbe sulla stessa blockchain del certificato digitale.Von der Leyen non ha alcun interesse a illuminare i due problemi principali di un green pass anagrafico: la privacy e il controllo sociale, temi interconnessi che finiscono per toccare valori democratici garantiti dalla Costituzione. In Italia l’uso a scopo sanitario fu uno scempio dei diritti e dopo quell’esperienza la diffidenza è aumentata. Come ha già fatto notare il Garante, l’identità digitale pone concreti problemi nella tutela della privacy e della libertà stessa dei singoli cittadini, «tracciabili in tutte le loro attività e dipendenti da tecnologie non ancora distribuite con garanzie di funzionamento per l’erogazione dei servizi essenziali». In tante zone d’Italia (e non solo al Sud) le connessioni ballerine impediscono di scaricare anche i video dei gatti.A Bruxelles sono determinati a portare avanti il progetto e a formalizzarlo prima del semestre bianco. Dopo l’uscita di scena di Margrethe Vestager (attratta dalla poltrona della Banca degli investimenti), a occuparsi del dossier sono due commissari: la ceca Vera Jourova e il Pippo olimpionico del Parlamento, il francese Thierry Breton, già responsabile del Mercato interno, dello Spazio e della Difesa. Oggi anche «principe reggente digitale», come lo bolla il sito Politico. A chi gli ricorda possibili conflitti d’interessi risponde: «Tutto è complementare». Breton è un talebano delle transizioni e ha due nemici: le auto cosiddette inquinanti e gli scettici sulle meraviglie digitali. In cuor suo spera di sostituire Von der Leyen alla presidenza con l’appoggio dei macroniani anche italiani (Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, il Pd, Azione) e ha presentato così il suo piano d’azione: «Credo in un’Europa assertiva, non ingenua, aperta ma alle nostre condizioni, e che svolge appieno il suo ruolo come potenza geopolitica». Al G20 di New Delhi la transizione digitale è stata affrontata anche da Giorgia Meloni, che ha annunciato di voler mettere il tema al centro del prossimo G7 a presidenza italiana con un approccio particolarmente attento all’Intelligenza artificiale. «Non c’è tempo da perdere ma sono più timorosa per le conseguenze che per le opportunità», ha detto, aggiungendo che Elon Musk nell’incontro di Roma «mi ha tranquillizzata». La premier è convinta che quella digitale «non è una materia che possa essere governata a livello nazionale». Anche se è consapevole che lasciando praterie ai socialisti e agli eurolirici senza freni si corre il rischio di finire dentro le meraviglie del Grande Occhio cinese.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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