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2021-10-15
Universitari beffati: in dad anche con la card
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L'anno accademico 2021/2022 è iniziato da due settimane per qualcuno e per altri da un mese, ma di università si è sentito parlare solo dopo la lezione sospesa a Bologna per la studentessa senza green pass. Sugli atenei si alza il chiacchiericcio quando montano le polemiche, quando qualche lista occupa delle aule, quando ci sono delle proteste, ma degli studenti universitari non si vocifera granché. Anche loro, come i colleghi di superiori e medie, hanno vissuto il dramma della dad, che è però è passato in sordina.
Forse perché più grandi e maturi, forse perché più responsabili, resta il fatto che per molti di loro la didattica a distanza è ancora una realtà presente, e non solo quando un compagno di corso risulta positivo al Covid-19. Nel decreto legge del 6 agosto 2021, approvato il 23 settembre in seconda lettura al Senato, inerente alle «Misure urgenti per l'esercizio in sicurezza delle attività scolastiche, universitarie, sociali e in materia di trasporti» viene ribadito il principio dello svolgimento prioritariamente in presenza delle attività didattiche e curriculari. Ma attenzione, prioritariamente. La situazione è più articolata rispetto alla scuola, perché ogni ateneo è autonomo nell'imposizione di regole più o meno stringenti rispetto alla presenza a lezione, nelle biblioteche e nelle aule studio. Quindi quel «prioritariamente», lascia intendere che non per tutti i ragazzi ci sia la possibilità di assistere alla totalità delle lezioni in aula. Per accedere alle strutture degli atenei è obbligatorio possedere il certificato verde sia per docenti e personale tecnico-amministrativo, sia per gli studenti, grande differenza rispetto alla scuola. La verifica del lasciapassare viene effettuata nella maggior parte delle università a campione, come all'Università di Bologna o all'Università Statale di Milano, mentre in altre è richiesto all'entrata dei campus, è il caso dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano o dell'Università di Salerno. Il punto di diversificazione più grande tra tutti gli atenei rimane la presenza degli studenti in aula durante le lezioni. Ogni plesso ha infatti la sua storia e le sue difficoltà a livello di spazi. Non è certamente un segreto il fatto che, in molte facoltà, il malcapitato ritardatario, solamente due anni fa, non trovando posti disponibili, si sarebbe dovuto sedere per terra o sugli scalini delle aule a gradoni. Proprio per questo motivo, dunque, non tutte le università possono permettersi di ospitare in aula tutti gli iscritti al corso, garantendo la possibilità di seguire da casa.
Fa riflettere il fatto che dall'undici ottobre, muniti di passaporto verde, la capienza consentita per cinema, teatri e altri luoghi di cultura sia del 100%, misura che di fatto abolisce la distanza interpersonale di un metro; mentre molti studenti, appartenenti al luogo di cultura per eccellenza, l'università, si vedono ancora costretti a seguire spesso le lezioni a distanza. Dopo due anni.
Statale, Cattolica, Bocconi, Politecnico e Bicocca, che hanno tutte la propria sede a Milano, presentano cinque soluzioni differenti. All'Università Statale da oggi la capienza delle aule raggiungerà il 100%, con la necessità di prenotarsi e la possibilità di seguirle a distanza e recuperarle entro 48 ore. Anche gli studenti del Politecnico, a partire dalla prossima settimana, potranno rivedersi tutti finalmente dal vivo, dopo che aver riempito le aule prima al 50 e poi al 70 percento. L'Università Cattolica del Sacro Cuore e l'Università degli Studi di Milano Bicocca hanno ancora una capienza ridotta al 50%, con obbligo di prenotazione e nel caso della Bicocca la chance di prenotarsi last minute nelle ultime 24 ore, nel caso siano rimasti dei posti liberi. In Bocconi il sistema è particolare: ogni corso è iniziato suddividendo la classe in due gruppi, matricole pari e dispari, e di settimana in settimana i due gruppi hanno intercambiato la presenza o l'online. Dopo qualche settimana di lezione grazie a dei calcoli statistici per i corsi meno popolosi è stata reintrodotta la capienza al 100%. A Venezia, alla Ca' Foscari, solo il 75% degli universitari può andare in presenza, previa prenotazione, i restanti online. In Emilia-Romagna, a Parma e Bologna tutti i posti in aula sono occupabili. All'Unibo le lezioni vengono trasmesse anche in streaming, mentre a Parma i docenti sono obbligati a fornire un supporto online aggiuntivo rispetto alla presenza. A Roma, Sapienza e Luiss hanno ancora il tetto massimo del 75%. In Toscana a Siena, si va ad esaurimento posti, senza il bisogno di prenotarsi, mentre a Salerno vige ancora il 50%, con obbligo di prenotazione.
Vivere quotidianamente l'università ha un valore aggiunto. È un luogo di incontro e di dialogo con l'altro, con il diverso, che tempra e porta degli adolescenti a diventare uomini e donne pronti a prendere in mano la propria vita. Prendere una laurea non è ottenere un titolo, ma fare un'esperienza di vita, esperienza che nonostante green pass, mascherine, temperatura e sanificazioni non a tutti oggi è consentita allo stesso modo, nonostante i proclami dessero per finito l'incubo dad. Eppure, il green pass è sempre stato venduto come strumento di libertà e di ritorno alla normalità. Nemmeno possederlo, però, garantisce agli studenti la possibilità di fare lezione in presenza.
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Nemmeno il possesso del pass dà diritto all'ingresso nelle aule. Gli atenei vanno infatti in ordine sparso: in alcuni la capienza è tornata al 100%, ma solo previa prenotazione. In altri si va a rotazione: metà degli studenti costretta ancora alle lezioni onlineLa maggioranza delle assistenti è priva di certificato. Famiglie e anziani senza risposteLo speciale contiene due articoliL'anno accademico 2021/2022 è iniziato da due settimane per qualcuno e per altri da un mese, ma di università si è sentito parlare solo dopo la lezione sospesa a Bologna per la studentessa senza green pass. Sugli atenei si alza il chiacchiericcio quando montano le polemiche, quando qualche lista occupa delle aule, quando ci sono delle proteste, ma degli studenti universitari non si vocifera granché. Anche loro, come i colleghi di superiori e medie, hanno vissuto il dramma della dad, che è però è passato in sordina. Forse perché più grandi e maturi, forse perché più responsabili, resta il fatto che per molti di loro la didattica a distanza è ancora una realtà presente, e non solo quando un compagno di corso risulta positivo al Covid-19. Nel decreto legge del 6 agosto 2021, approvato il 23 settembre in seconda lettura al Senato, inerente alle «Misure urgenti per l'esercizio in sicurezza delle attività scolastiche, universitarie, sociali e in materia di trasporti» viene ribadito il principio dello svolgimento prioritariamente in presenza delle attività didattiche e curriculari. Ma attenzione, prioritariamente. La situazione è più articolata rispetto alla scuola, perché ogni ateneo è autonomo nell'imposizione di regole più o meno stringenti rispetto alla presenza a lezione, nelle biblioteche e nelle aule studio. Quindi quel «prioritariamente», lascia intendere che non per tutti i ragazzi ci sia la possibilità di assistere alla totalità delle lezioni in aula. Per accedere alle strutture degli atenei è obbligatorio possedere il certificato verde sia per docenti e personale tecnico-amministrativo, sia per gli studenti, grande differenza rispetto alla scuola. La verifica del lasciapassare viene effettuata nella maggior parte delle università a campione, come all'Università di Bologna o all'Università Statale di Milano, mentre in altre è richiesto all'entrata dei campus, è il caso dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano o dell'Università di Salerno. Il punto di diversificazione più grande tra tutti gli atenei rimane la presenza degli studenti in aula durante le lezioni. Ogni plesso ha infatti la sua storia e le sue difficoltà a livello di spazi. Non è certamente un segreto il fatto che, in molte facoltà, il malcapitato ritardatario, solamente due anni fa, non trovando posti disponibili, si sarebbe dovuto sedere per terra o sugli scalini delle aule a gradoni. Proprio per questo motivo, dunque, non tutte le università possono permettersi di ospitare in aula tutti gli iscritti al corso, garantendo la possibilità di seguire da casa. Fa riflettere il fatto che dall'undici ottobre, muniti di passaporto verde, la capienza consentita per cinema, teatri e altri luoghi di cultura sia del 100%, misura che di fatto abolisce la distanza interpersonale di un metro; mentre molti studenti, appartenenti al luogo di cultura per eccellenza, l'università, si vedono ancora costretti a seguire spesso le lezioni a distanza. Dopo due anni. Statale, Cattolica, Bocconi, Politecnico e Bicocca, che hanno tutte la propria sede a Milano, presentano cinque soluzioni differenti. All'Università Statale da oggi la capienza delle aule raggiungerà il 100%, con la necessità di prenotarsi e la possibilità di seguirle a distanza e recuperarle entro 48 ore. Anche gli studenti del Politecnico, a partire dalla prossima settimana, potranno rivedersi tutti finalmente dal vivo, dopo che aver riempito le aule prima al 50 e poi al 70 percento. L'Università Cattolica del Sacro Cuore e l'Università degli Studi di Milano Bicocca hanno ancora una capienza ridotta al 50%, con obbligo di prenotazione e nel caso della Bicocca la chance di prenotarsi last minute nelle ultime 24 ore, nel caso siano rimasti dei posti liberi. In Bocconi il sistema è particolare: ogni corso è iniziato suddividendo la classe in due gruppi, matricole pari e dispari, e di settimana in settimana i due gruppi hanno intercambiato la presenza o l'online. Dopo qualche settimana di lezione grazie a dei calcoli statistici per i corsi meno popolosi è stata reintrodotta la capienza al 100%. A Venezia, alla Ca' Foscari, solo il 75% degli universitari può andare in presenza, previa prenotazione, i restanti online. In Emilia-Romagna, a Parma e Bologna tutti i posti in aula sono occupabili. All'Unibo le lezioni vengono trasmesse anche in streaming, mentre a Parma i docenti sono obbligati a fornire un supporto online aggiuntivo rispetto alla presenza. A Roma, Sapienza e Luiss hanno ancora il tetto massimo del 75%. In Toscana a Siena, si va ad esaurimento posti, senza il bisogno di prenotarsi, mentre a Salerno vige ancora il 50%, con obbligo di prenotazione. Vivere quotidianamente l'università ha un valore aggiunto. È un luogo di incontro e di dialogo con l'altro, con il diverso, che tempra e porta degli adolescenti a diventare uomini e donne pronti a prendere in mano la propria vita. Prendere una laurea non è ottenere un titolo, ma fare un'esperienza di vita, esperienza che nonostante green pass, mascherine, temperatura e sanificazioni non a tutti oggi è consentita allo stesso modo, nonostante i proclami dessero per finito l'incubo dad. Eppure, il green pass è sempre stato venduto come strumento di libertà e di ritorno alla normalità. Nemmeno possederlo, però, garantisce agli studenti la possibilità di fare lezione in presenza. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/universitari-beffati-in-dad-anche-con-la-card-2655300403.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="particle-1" data-post-id="2655300403" data-published-at="1634249453" data-use-pagination="False"> E venne il giorno del green pass obbligatorio per lavorare. E avendo sottovalutato le contraddizioni segnalate da sempre dell'autocertificazione tutta italiana, il governo si ritrova con il rischio paralisi del Paese non avendo sciolto nodi fondamentali: dai 60.000 ancora non vaccinati nell'ambito delle forze dell'ordine ai lavoratori dell'autotrasporto, del settore agricolo, dell'edilizia, ma anche colf e badanti. Ma se camalli e camionisti preoccupano il governo e tra un tavolo e un vertice i sindacati provano a risolvere la grana, delle badanti nessuno parla, mentre la delicatezza del tipo di lavoro e le caratteristiche del datore di lavoro privato, quasi sempre un anziano o disabile bisognoso di assistenza, meriterebbero una grande attenzione. Molte badanti e colf provengono da Stati come la Romania, che ha solo il 25% della popolazione vaccinata o l'Ucraina con l'11%, e quindi o non sono vaccinate oppure sono immunizzate con vaccini non riconosciuti, come il russo Sputnik e quindi non possono ottenere il green pass. Per l'associazione datoriale Domina i lavoratori domestici non ancora vaccinati sono circa 600.000, mentre per Assindatcolf (Associazione Nazionale dei Datori di Lavoro Domestico), la cifre sono ancora più alte: la platea dei non vaccinati potrebbe corrispondere al 50% del totale, circa 2 milioni tra regolari e irregolari presenti nel nostro Paese che «valgono» circa 20 miliardi di euro l'anno, valore che potrebbe raddoppiare entro 2030 visto l'invecchiamento progressivo della popolazione. Le associazioni già nei mesi scorsi avevano lanciato l'allarme chiedendo al governo di intervenire prima per facilitare l'accesso alla vaccinazione di badanti, colf e baby sitter, e poi per introdurre anche per loro l'obbligo come previsto per operatori sanitari e delle Rsa. A sollevare il problema delle ricadute sulle famiglie è Chiara Pazzaglia, presidente provinciale delle Acli di Bologna: «Nei nostri uffici seguiamo circa 3.300 contratti l'anno. Negli ultimi giorni, siamo alle prese con le richieste da parte dei datori di lavoro, familiari e amministratori di sostegno di questi, abbiamo risposto a un centinaio tra chiamate ed email solo nell'ultima settimana, soprattutto sulle modalità di controllo del documento e delle possibili conseguenze per le lavoratrici che non rispettano l'obbligo. Sui controlli, spiega Andrea Zini, vicepresidente Assindatcolf: «Abbiamo già detto alle famiglie di verificare se il lavoratore ha il Gp, chiedendogli di firmare una lettera. Ci sono almeno 400.000 lavoratori che non hanno il green pass e a cui le famiglie non lo chiederanno mai per non perdere il rapporto di fiducia o perché non hanno altri cui rivolgersi e temono di restare senza aiuto. Altre 200.000 persone potrebbero perdere il lavoro, perché le famiglie non vogliono rischiare». Inoltre molti lavoratori e lavoratrici hanno più datori di lavoro ed è difficile che per poche ore venga controllato il documento: «Ecco perché, ribadisce Zini, «avevamo chiesto una procedura semplificata con la verifica del cartaceo». Anche perché, molti anziani soli non hanno lo smartphone e sono dunque impossibilitati a capire se la propria collaboratrice rispetti il requisito. L'obbligo del green pass diventa poi pioggia sul bagnato per un settore che, come spiega Pazzaglia «è già stato messo in crisi dall'introduzione del Reddito di Cittadinanza; infatti, alcune assistenti familiari straniere che hanno titolo per richiederlo, essendo in Italia regolarmente da più di 10 anni, preferiscono questo sussidio al contratto di lavoro in regola, per pochi euro di differenza».
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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