True
2021-12-23
«Una poltrona per due»: l’incredibile storia di un classico natalizio (solo in Italia)
True
(Paramount/Getty Images)
«Why do Italians watch Trading Places on Christmas Eve?», si chiedeva qualche giorno fa il sito Wanted in Rome, dedicato agli anglofoni residenti nella città eterna. Ovvero: «Perché gli italiani guardano Trading Places alla vigilia di Natale?». La domanda resta poco comprensibile finché non traduciamo anche il titolo del film in oggetto: Trading Places, infatti, non è altro che il titolo originale di Una poltrona per due, il film del 1983 diretto da John Landis e interpretato da Dan Aykroyd, Eddie Murphy e Jamie Lee Curtis. Anche quest'anno, il 24 dicembre, Italia Uno propone in prima serata questa pellicola, che è nota ovviamente in tutto il mondo, ma solo qui da noi è diventata un classico natalizio (tant'è che la circostanza è menzionata anche sulla pagina Wikipedia in inglese del film). Anzi, un vero e proprio oggetto di culto, con tanto di pagine social dedicate. Insomma, per gli italiani il Natale non è veramente Natale senza l'albero, il presepe, il pandoro, il panettone e Una poltrona per due.
La trama del film è nota: per un gioco crudele, i fratelli Mortimer e Randolph Duke, due anziani, cinici squali dell'alta finanza, scambiano le vite del sofisticato agente di cambio Louis Winthorpe III (Dan Aykroyd) e del barbone e truffatore di colore Billy Ray Valentine (Eddie Murphy), catapultando l'uno nel contesto sociale dell'altro. La scommessa è volta a vedere quanto le posizioni sociali siano determinate da doti innate e quanto invece dipendano dalle circostanze: un senzatetto a cui vengano offerte opportunità riuscirà a spiccare come un rampollo della buona società? Ovviamente, alla fine, i due personaggi oggetto delle perfide manovre dei Duke capiscono il raggiro e si mettono d'impegno per ottenere la loro vendetta.
Il film viene trasmesso ininterrottamente dal 1997, all'inizio con qualche variazione sul giorno (talvolta il 25, in altri casi il 26), ma negli ultimi anni si è attestato in modo inamovibile sulla sera del 24. Curioso, per un film che nelle sale americane uscì l’8 giugno del 1983 e che quindi non fu pensato come film per le festività. Il Natale, del resto, ha un ruolo del tutto marginale nel film, se si eccettua la scena iconica in cui un devastato Dan Aykroyd conciato come un Babbo Natale lercio e sbronzo, addenta un pezzo di salmone affumicato rubato a un party. E forse il segreto è proprio questo: nel pieno di una programmazione televisiva satura di cartoni animati o di pellicole per famiglie sullo «spirito del Natale», Una poltrona per due rappresenta un elemento di novità e di evasione, con notevoli momenti comici ma anche con scene agrodolci che sono l'ideale per riprendersi dalla programmazione al miele delle feste.
Il culto che si è generato attorno alla pellicola ha tuttavia anche a che fare con la ripetitività con cui è stato programmato. All'inizio, probabilmente, fu una scelta dettata semplicemente dalla pigrizia. La cosa divenne un tormentone, e allora Mediaset fu abbastanza furba da cavalcarla, rilanciando l'appuntamento natalizio come un grande classico del Natale. «Scegliere sempre lo stesso titolo è un’intuizione che ho ereditato da chi mi ha preceduto, ma credo che funzioni perché a Natale vogliamo sentirci raccontare sempre la stessa storia: ai bambini si parla di Babbo Natale e anche i più grandi vogliono la loro storia», disse tempo fa alla Stampa la direttrice di Italia 1, Laura Casarotto. Un'operazione quasi situazionista, insomma: il «difetto» di un'emittente («passa sempre gli stessi film») che diventa un suo punto di forza.
Costato 15 milioni di dollari e prodotto dalla Paramount, il film ne incassò 90. La parte finale del film, con Eddie Murphy e Dan Akroyd che mandano in rovina i Duke con una ardita manovra di Borsa, ha perfino ispirato una legge: dal 2010 è legge negli Usa «la regola di Eddie Murphy» per cui è proibito usare informazioni governative di cui ci si è appropriati indebitamente per giocare nei mercati delle materie prime.
C'è inoltre un'altra questione che rende il film interessante. Inizialmente, la trama aveva un impianto abbastanza progressista. Lo scambio di vite tra i due protagonisti dimostra infatti che sì, è il contesto sociale che fa l'uomo: il barbone a cui viene data una chance riesce ad avere successo, il giovane ricco e istruito cacciato nei bassifondi diventa uno spiantato. Una sorta di parabola marxista, in qualche modo. Se uscisse oggi, tuttavia, il film non supererebbe le forche caudine della sinistra «intersezionalista». Diverse cose allora ritenute innocue, infatti, nel frattempo sono diventate tabù. Il linguaggio di Eddie Murphy, per esempio, è scurrile e pieno di stereotipi (in una scena si rivolge ai due Duke chiamandoli «faggots», che significa «finocchi», e i Duke, a loro volta, apostrofano il loro interlocutore come «nigger»). Dan Akroyd, poi, incappa in quello che oggi è diventato peccato mortale: il blackface. Cioè il volto pitturato per assomigliare a un nero. Una volta era una gag usuale e innocua, oggi è equiparata più o meno allo schiavismo. Nel finale, poi, non manca una grottesca scena di zoofilia, con uno dei «cattivi» che finisce vestito da gorilla in una gabbia con un vero gorilla e da questi viene sodomizzato. Un passaggio trash (il film inizia con una certa brillantezza, ma diventa più farsesco nel finale) che non entrerà certo nella hall of fame delle migliori scene della storia del cinema, ma che oggi, forse, verrebbe accusato di essere offensivo nei confronti degli amanti della zoofilia.
Continua a leggereRiduci
Il film di John Landis, dal 1997 tormentone natalizio della tv italiana, nasceva con un sincero spirito progressista. Oggi le gag innocenti della pellicola del 1983 sarebbero tabù. Certo interpretate come omofobe e razziste. Con una punta finale di zoofilia. «Why do Italians watch Trading Places on Christmas Eve?», si chiedeva qualche giorno fa il sito Wanted in Rome, dedicato agli anglofoni residenti nella città eterna. Ovvero: «Perché gli italiani guardano Trading Places alla vigilia di Natale?». La domanda resta poco comprensibile finché non traduciamo anche il titolo del film in oggetto: Trading Places, infatti, non è altro che il titolo originale di Una poltrona per due, il film del 1983 diretto da John Landis e interpretato da Dan Aykroyd, Eddie Murphy e Jamie Lee Curtis. Anche quest'anno, il 24 dicembre, Italia Uno propone in prima serata questa pellicola, che è nota ovviamente in tutto il mondo, ma solo qui da noi è diventata un classico natalizio (tant'è che la circostanza è menzionata anche sulla pagina Wikipedia in inglese del film). Anzi, un vero e proprio oggetto di culto, con tanto di pagine social dedicate. Insomma, per gli italiani il Natale non è veramente Natale senza l'albero, il presepe, il pandoro, il panettone e Una poltrona per due. La trama del film è nota: per un gioco crudele, i fratelli Mortimer e Randolph Duke, due anziani, cinici squali dell'alta finanza, scambiano le vite del sofisticato agente di cambio Louis Winthorpe III (Dan Aykroyd) e del barbone e truffatore di colore Billy Ray Valentine (Eddie Murphy), catapultando l'uno nel contesto sociale dell'altro. La scommessa è volta a vedere quanto le posizioni sociali siano determinate da doti innate e quanto invece dipendano dalle circostanze: un senzatetto a cui vengano offerte opportunità riuscirà a spiccare come un rampollo della buona società? Ovviamente, alla fine, i due personaggi oggetto delle perfide manovre dei Duke capiscono il raggiro e si mettono d'impegno per ottenere la loro vendetta. Il film viene trasmesso ininterrottamente dal 1997, all'inizio con qualche variazione sul giorno (talvolta il 25, in altri casi il 26), ma negli ultimi anni si è attestato in modo inamovibile sulla sera del 24. Curioso, per un film che nelle sale americane uscì l’8 giugno del 1983 e che quindi non fu pensato come film per le festività. Il Natale, del resto, ha un ruolo del tutto marginale nel film, se si eccettua la scena iconica in cui un devastato Dan Aykroyd conciato come un Babbo Natale lercio e sbronzo, addenta un pezzo di salmone affumicato rubato a un party. E forse il segreto è proprio questo: nel pieno di una programmazione televisiva satura di cartoni animati o di pellicole per famiglie sullo «spirito del Natale», Una poltrona per due rappresenta un elemento di novità e di evasione, con notevoli momenti comici ma anche con scene agrodolci che sono l'ideale per riprendersi dalla programmazione al miele delle feste.Il culto che si è generato attorno alla pellicola ha tuttavia anche a che fare con la ripetitività con cui è stato programmato. All'inizio, probabilmente, fu una scelta dettata semplicemente dalla pigrizia. La cosa divenne un tormentone, e allora Mediaset fu abbastanza furba da cavalcarla, rilanciando l'appuntamento natalizio come un grande classico del Natale. «Scegliere sempre lo stesso titolo è un’intuizione che ho ereditato da chi mi ha preceduto, ma credo che funzioni perché a Natale vogliamo sentirci raccontare sempre la stessa storia: ai bambini si parla di Babbo Natale e anche i più grandi vogliono la loro storia», disse tempo fa alla Stampa la direttrice di Italia 1, Laura Casarotto. Un'operazione quasi situazionista, insomma: il «difetto» di un'emittente («passa sempre gli stessi film») che diventa un suo punto di forza.Costato 15 milioni di dollari e prodotto dalla Paramount, il film ne incassò 90. La parte finale del film, con Eddie Murphy e Dan Akroyd che mandano in rovina i Duke con una ardita manovra di Borsa, ha perfino ispirato una legge: dal 2010 è legge negli Usa «la regola di Eddie Murphy» per cui è proibito usare informazioni governative di cui ci si è appropriati indebitamente per giocare nei mercati delle materie prime. C'è inoltre un'altra questione che rende il film interessante. Inizialmente, la trama aveva un impianto abbastanza progressista. Lo scambio di vite tra i due protagonisti dimostra infatti che sì, è il contesto sociale che fa l'uomo: il barbone a cui viene data una chance riesce ad avere successo, il giovane ricco e istruito cacciato nei bassifondi diventa uno spiantato. Una sorta di parabola marxista, in qualche modo. Se uscisse oggi, tuttavia, il film non supererebbe le forche caudine della sinistra «intersezionalista». Diverse cose allora ritenute innocue, infatti, nel frattempo sono diventate tabù. Il linguaggio di Eddie Murphy, per esempio, è scurrile e pieno di stereotipi (in una scena si rivolge ai due Duke chiamandoli «faggots», che significa «finocchi», e i Duke, a loro volta, apostrofano il loro interlocutore come «nigger»). Dan Akroyd, poi, incappa in quello che oggi è diventato peccato mortale: il blackface. Cioè il volto pitturato per assomigliare a un nero. Una volta era una gag usuale e innocua, oggi è equiparata più o meno allo schiavismo. Nel finale, poi, non manca una grottesca scena di zoofilia, con uno dei «cattivi» che finisce vestito da gorilla in una gabbia con un vero gorilla e da questi viene sodomizzato. Un passaggio trash (il film inizia con una certa brillantezza, ma diventa più farsesco nel finale) che non entrerà certo nella hall of fame delle migliori scene della storia del cinema, ma che oggi, forse, verrebbe accusato di essere offensivo nei confronti degli amanti della zoofilia.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
Continua a leggereRiduci
Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
Continua a leggereRiduci
Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
Continua a leggereRiduci