2020-03-18
Un gesto irrazionale ma bellissimo. Far nascere bambini sfidando la paura
In questi tempi catastrofici la logica «economica» ci spinge verso un nuovo calo della natalità. Ma uscirne è possibile. Sfogliamo con il cuore tranciato, in questi giorni, le pagine dei necrologi dei quotidiani locali, e le labbra si seccano davanti all'ecatombe di intere comunità: bisnonni, nonni, genitori, zii, parenti, amici, perfino sconosciuti che sentiamo per qualche istante fratelli. Ci viene descritta, questa epidemia, come la prima guerra nella storia che non falcidia subito i giovani, bensì gli anziani. Eppure, nell'atroce contabilità della morte, tocca tenere presente un altro aspetto finora trascurato. Questa emergenza potrebbe condurre a un ulteriore crollo della natalità nella nostra nazione già frustata dai venti gelidi dell'inverno demografico. In effetti, ci sarebbero tutti gli elementi per presupporre il contrario, e gli ottimisti di sicuro ne sono già convinti: la reclusione forzata, la vicinanza coatta e il tempo non libero ma in parte liberato dal lavoro potrebbero condurre a una piccola esplosione di gravidanze. Se così fosse, ci sarebbe da gioirne. Tuttavia (e purtroppo) appare più realistico il quadro dipinto da Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale nella facoltà di Economia dell'università Cattolica di Milano. «Ci si può attendere», ha scritto su Avvenire, «una riduzione sensibile della fecondità, già molto bassa in Italia. I fattori frenanti sono l'aumento delle difficoltà economiche, il rallentamento per i giovani dell'accesso al lavoro, la posticipazione delle scelte di autonomia e formazione di una propria famiglia, l'incertezza sul dopo». Vero, le coppie in buone condizioni economiche e con una situazione abbastanza solida potrebbero andare controtendenza. Ma per i più giovani «l'impatto complessivo atteso rischia di essere negativo». Andiamo a sensazione, ma è facile che l'effetto depressivo dell'epidemia possa riverberare pure su chi le possibilità di figliare le avrebbe tutte. Lo stato di crisi, oscurando il futuro, rende gli occidentali molto meno disposti alla riproduzione, e non da oggi. Di fronte alla catastrofe più o meno imminente, diventa pregnante la domanda che si pone il filosofo cattolico francese Fabrice Hadjadj nel suo ultimo libro edito da Ares: «Perché dare la vita a un mortale?». Dice il saggista: «Fare figli, un tempo, non era un interrogativo, ma uno scopo indiscutibile. Bisognava mantenere la stirpe: le figlie di Loth non hanno esitato ad andare a letto con il loro padre per riuscirci. Pertanto, da quando il generare è diventato un problema, ci siamo trovati sguarniti in mezzo a tutte quelle vecchie risposte, più ingombranti che benefiche, perché erano risposte a una domanda che non si poneva come tale». Di questi tempi, generare è una «scelta», è il risultato di una «deliberazione razionale». E se si usa la razionalità nella scelta, le ragioni del «No» sono molteplici. La razionalità di cui parliamo, in fondo, è più o meno la stessa che - si suppone - guida il consumatore sul mercato. È quella che il poeta T.S. Eliot definiva «dialettica del profitto e della perdita»: una questione economica. Economica in senso lato, sia chiaro: la decisione di riprodursi non dipende soltanto dalla disponibilità di denaro, dalla stabilità del lavoro, dal possesso di una casa. Ma pure dal risultato di una più ampia analisi costi-benefici che ciascuno di noi realizza a partire da sé stesso. Entra in gioco, ad esempio, quello che Eva Illouz e Dana Kaplan chiamano «il capitale sessuale» (ne parlano in un fondamentale saggio appena pubblicato da Castelvecchi). Si tratta di una sorta di patrimonio personale formato da una combinazione di attrattive estetiche, fisiche, intellettuali che ci rendono più o meno spendibili sul mercato (erotico ma non solo). Il messaggio che ci arriva a reti unificate, da parecchio tempo a questa parte, è che non vale la pena sprecare questo capitale all'interno di una famiglia: molto meglio utilizzarlo per ottenere un lavoro migliore, una più numerosa platea di partner sessuali eccetera. Il figlio, in questa prospettiva, diventa sostanzialmente uno spreco (di soldi, di energie, di possibilità). Come scrive Hadjadj: «Nel dispositivo attuale, l'antenato è quello a cui occorre fornire l'eutanasia. Essere padre o madre non offre nessuno status sociale; al contrario, è segno di inferiorità, di una degradazione, di un impedimento per giungere allo status magnificato di soggetto autonomo, o piuttosto di lavoratore atletico, sempre giovane, sempre disponibile all'incontro furtivo, allo straordinario, alle ultime innovazioni della tecnica...». Occhio, però. Questa concezione «economica» della riproduzione non si esprime soltanto in forma egoistica (cioè: non faccio figli perché mi ostacoleranno). Ha pure una - più insidiosa - variante «altruistica», che suona più o meno così: non faccio figli perché non posso garantire che godranno di tutti i vantaggi che la «società del benessere» offre. Spiega Hadjadj: «Il bene del bambino va contro l'esistenza del bambino. Bisogna concedere al piccolo di uomo condizioni di vita così eccellenti e così certe che con ogni evidenza non può venire in questo mondo. Non lo poteva ieri, perché la medicina non aveva fatto abbastanza progressi. Non lo può oggi, perché ne ha fatti troppi. Ieri c'era un rischio eccessivo di morire da piccoli. Oggi è condannato a invecchiare in una specie destinata alla mutazione o all'estinzione. Dunque, con una compassione senza passione, è meglio non avere figli». Dopo tutto, perché gettare un innocente in un mondo funestato da epidemie, magari con il rischio di non potergli acquistare tutti i vestiti e giocattoli di cui avrà «bisogno»? Finché questa concezione ci dominerà, la natalità continuerà a calare, e lo farà tanto più in momenti di crisi. Il punto è: come se ne esce? Una risposta può essere quella di non sottovalutare il «mistero» della nascita, quell'inafferrabile «qualcosa» che non dipende da noi e che rende il figlio una persona, un essere autonomo che farà la sua vita (e la sua fortuna, eventualmente). La seconda e la terza risposta sono legate: parliamo di «gratitudine» e «gratuità». La gratitudine verso chi ci ha messo al mondo e ci ha permesso, tra le altre cose, di ragionare sull'opportunità o meno di figliare. Fare figli, suggerisce Hadjadj, è un modo di «onorare il padre e la madre». La gratuità, invece, è la rottura dello schema «profitto/perdita». La famiglia - con tutti i suoi problemi - è l'oasi dell'amore senza scopo di lucro: per questo il sistema attuale punta a distruggerla. Si dice, non a caso, «donare la vita». È un gesto estremo, oggi come oggi. «Irrazionale», direbbe qualcuno. Un atto di fede, direbbero altri. Ma visto che in queste settimane celebriamo chi rischia la propria vita per salvarne altre, perché non mandare un pensiero anche agli anonimi eroi che mettono in gioco tutto il proprio «capitale» per crearne di nuove?