2018-10-24
Un dizionario combatterà gli anglicismi
In meno di trent'anni, le parole inglesi di uso corrente sono raddoppiate e hanno invaso la nostra lingua. La colonizzazione tuttavia si può fermare: basta utilizzare l'equivalente italiano al posto del termine straniero. Un sito aiuta chi desidera provare. Se Alessandro Borghese invitasse i concorrenti del suo programma Quattro ristoranti a votare «l'ambiente» invece della «location» (anzi, lochescion) probabilmente ci faremmo un paio di risate in meno. Ma davvero il vostro amico deve per forza dirvi che «la lochescion era bellissima», invece di raccontarvi che è stato in un «posto» carino? Magari, poi, vostro figlio potrebbe invitarvi a «stare tranquilli» invece di ragliare «iiiiisiii» (easy) dall'antro in cui si rinchiude per giocare con il telefonino (anzi, lo «smartphone»). E certo, se sei uno dello «staff» ti senti importante, te lo fai scrivere persino sulla maglietta. In realtà, fai semplicemente parte del «personale», e la cosa è comunque onorevole. Vale la pena notare, inoltre, che anche se lo chiami «meeting» il «convegno» è comunque una rottura di scatole, mentre se vai a «fare compere» invece che «a fare shopping» ti diverti lo stesso. Perché la verità è che degli anglicismi si può fare a meno. Al posto di termini inglesi o derivati dall'inglese si possono utilizzare parole italiane che risultano persino più belle e piacevoli all'ascolto. «Aggiornamento» e «miglioramento», ad esempio, non hanno nulla da invidiare all'«upgrade», e si evitano pure orrende storpiature tipo «upgradare» (pronunciato apgreidare). Il fatto è che, ormai, la colonizzazione linguistica è a uno stadio estremamente avanzato. Antonio Zoppetti - insegnante e saggista, già vincitore del premio Alberto Manzi e curatore dell'edizione elettronica del dizionario Devoto-Oli - l'ha spiegato bene qualche tempo fa in un bellissimo saggio intitolato Diciamolo in italiano. Gli abusi dell'inglese nel lessico (Hoepli). «Nel 1990 ho curato la prima edizione digitale in cd rom del dizionario Devoto-Oli. Allora gli anglicismi erano circa 1.700», ci ha raccontato. «Nel 2017, lo stesso dizionario ne riporta 3.400. Significa che in meno di trent'anni sono raddoppiati. Non basta però contare gli anglicismi, bisogna anche capire con che frequenza si presentano. I dati disponibili oggi ne mostrano non solo l'aumento ma anche la penetrazione nel linguaggio comune, che è fortissima, specie sui giornali. Nel 1980 Tullio De Mauro realizzò il primo vocabolario di base: conteneva la 7.000 parole italiane conosciute a tutti. Gli anglicismi erano una decina. Alla lettera B c'era solo bar, tanto per capirsi. Nel nuovo vocabolario di base, uscito alla fine del 2016, gli anglicismi erano 129. Erano decuplicati». Difendersi da questa invasione non è affatto semplice, anche perché di alcune parole inglesi ignoriamo del tutto l'equivalente italiano. Ed è qui che, di nuovo, interviene Antonio Zoppetti. Lo studioso ha deciso di imbarcarsi in un'impresa titanica, ma estremamente utile. Ha appena pubblicato sulla Rete il progetto chiamato «AAA», cioè «Alternative agli anglicismi» (lo trovate all'indirizzo aaa.italofonia.info). In sostanza, stiamo parlando di «un dizionario gratuito a disposizione di tutti che raccoglie oltre 3.500 anglicismi, i più frequenti nella lingua italiana, affiancati da spiegazioni e, quando presenti, da alternative e sinonimi italiani in uso».La funzione di questo dizionario «disponibile in Rete» (cioè «online») è duplice. Da una parte, serve a classificare gli anglicismi presenti nella lingua italiana. Sono suddivisi in «90 categorie ed etichette per una consultazione tematica, dall'informatica (570 voci) all'aziendalese (482), dallo sport (286) all'economia (283), sino alle curiosità come gli anglicismi culinari (122) o quelli del sesso (90)». Questo progetto, però, serve anche a fornire al grande pubblico le parole italiane utili a sostituire i termini inglesi o mutuati dall'inglese.«Davanti all'abuso sempre più dilagante di inglese e itanglese, il nostro obiettivo è di contribuire alla libertà di scelta di chi utilizza la lingua italiana», spiega Zoppetti. «Molte parole inglesi risultano ostiche e difficili per tante persone e la loro comprensione necessita di spiegazioni (whistleblower, caregiver, spoils system, quantitative easing...). Soprattutto, nel linguaggio dei giornali e di alcuni settori come l'informatica o il mondo del lavoro, spesso si ricorre preferibilmente alle parole inglesi con il risultato che le alternative italiane regrediscono e non vengono più spontanee. Ognuno parla come vuole, ma per poter scegliere in modo consapevole è necessario che le alternative vengano divulgate». Sì, come dicevamo le alternative ci sono. E a volte sono pure molto semplici da utilizzare, nel senso che scegliendole non si fa necessariamente la figura dei babbioni fuori dal tempo. Al posto di «trailer», per esempio, si può tranquillamente dire «anteprima». Volendo, si potrebbe anche dire «etichettare» al posto di «taggare», ma è decisamente più difficile che l'italiano si affermi sulla Rete, dove l'inglese domina. In compenso, potete bere «un bicchiere» invece di «un drink» e nessuno vi guarderà storto. Così come potete godervi il «fine settimana» invece del «weekend». Per ora, il progetto è ancora agli inizi. L'obiettivo è quello di aggiornare il dizionario e di scovare alternative italiane sempre più efficaci. «L'intento è di dare vita a una comunità in Rete che sfrutti l'intelligenza collettiva e connettiva per arricchire il progetto giorno per giorno attraverso i contributi dei lettori», spiega Zoppetti. «Le segnalazioni di anglicismi incipienti e di alternative in uso saranno vagliate, lavorate e inserite». Si tratta, appunto, di una questione di libertà. La nostra lingua è ricchissima, e sta riconquistando terreno a livello globale. Nei giorni scorsi, a Roma, si sono tenuti gli «Stati Generali della lingua italiana» organizzati dal ministero degli Esteri, e tra le tante informazioni diffuse per l'occasione ce n'è una particolarmente interessante: l'italiano è al quarto posto tra gli idiomi più parlati nel mondo. Se fuori dai confini c'è chi lo impara, allora è il caso che anche qui ci si dedichi un pochino di più a coltivare questo patrimonio straordinario, a farlo vivere e fruttare. Si può fare, anche se molti probabilmente preferirebbero dire «Yes we can».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)