2018-12-11
Ultimo bluff: il Bullo pensa al colpo primarie
Matteo Renzi ha deciso di asfaltare il Pd, che ha un futuro solo senza di lui. Prima medita di candidarsi, poi di mandare avanti un suo uomo. Non perde occasione per ripetere di essere stato vittima del fuoco amico. E allora ha deciso di fare i conti senza misurare la realtà.Il fuoco amico gli è entrato addosso. Ora è il leit motiv della sua road map politica. Matteo Renzi è convinto che sia stato il Pd a mollarlo, non gli italiani. Quello per lui è ormai un concetto superato. Anzi, rimosso. Manco si ricorda che ci sono state le elezioni e una maggioranza schiacciante gli ha votato contro, come al referendum. È un suo difetto ma anche un suo valore: non sa fermarsi di fronte all'evidenza. E nemmeno misurarsi, perché la percezione del limite che lui ha di sé stesso è l'infinito. Come ora, che ha deciso, evidentemente, di asfaltare il Pd. Di fargliela pagare. Come ha intuito Achille Occhetto: «Sta avvelenando i pozzi». Perché l'obiettivo primario di Renzi è diventato quello di distruggere il Pd? Perché gli attribuisce le cause della sua disfatta. Fateci caso: non perde occasione per ripetere di essere stato vittima del fuoco amico. Non dei suoi errori o degli attacchi delle opposizioni. No. «Mi hanno dato addosso i miei del Pd». Glielo abbiamo sentito ripetere spesso. Una settimana fa, insieme al pensiero rivolto a chi vincerà i prossimo congresso. «Gli auguro di non subire il trattamento che hanno riservato a me», ha piagnucolato. L'ultima volta qualche giorno fa: «Mentre esponenti dei servizi segreti tramavano contro di me e contro mio padre, c'erano esponenti del Pd che discutevano del mio carattere». Ecco il vero colpevole. Il suo partito. Ovviamente dimenticando, Renzi, di come lui ha trattato la minoranza interna quando era signore e padrone; di quanto nessuna voce dissonante fosse permessa, pena l'immediata emarginazione morale e materiale all'interno del Pd. Se il partito fosse stato a cuore al suo segretario, non ci sarebbe stata nessuna scissione, perché questi non avrebbe permesso lo strappo. Invece lo strappo era funzionale. Al suo percorso personale.Del resto c'è coerenza in questo comportamento: che cosa gliene è mai importato a Renzi del Pd? Era infastidito dai vessilli del partito: non ne ha mai voluti nemmeno dentro la Leopolda. Gli storici diranno che è stato solo uno strumento per conquistare il potere. Se Silvio Berlusconi gli avesse dato spazio, quando ancora il ragazzo era presidente della Provincia di Firenze, neanche sindaco, e i due già si annusavano, parliamo del 2006, non avrebbe avuto scrupoli a saltare il fosso. Non era depositario della storia della Dc (checché se ne dicesse all'epoca) a cui faceva riferimento come segretario locale della Margherita, figuriamoci se si sentiva di rappresentare l'archeologia comunista. Dunque avrebbe potuto benissimo scegliere Forza Italia, se ne avesse intravisto un immediato vantaggio.Ma Berlusconi pretendeva tempo prima di dare strada al suo successore. Lo aveva chiesto a Pier Ferdinando Casini e poi a Gianfranco Fini, e nessuno aveva avuto la pazienza di aspettare. Meno che mai aveva pazienza uno come Renzi, che si sentiva già predestinato, con il futuro alla porta e voleva tutto e subito. Infatti lo ha avuto. Sotto questo aspetto non ha sbagliato un colpo. A modo suo aveva ragione. Pensò: ora o mai più. E riempì lo spazio che in quel momento gli sembrava, giustamente, più vuoto: il centrosinistra. Date queste premesse, non possiamo oggi meravigliarci del poco rispetto che Renzi dimostra verso il Partito democratico, che pure aveva portato a superare il 40%. Che ne sa Renzi del Pd, visto che al massimo ha visitato qualche sezione opportunamente attrezzata per acclamarlo? Mai stato tipo da fare rivoluzioni per il popolo.Mai affrontato un confronto che non fosse un monologo. Ricordate i finti dibattiti nelle direzioni nazionali, blindato dai pretoriani. Il povero Gianni Cuperlo, che le prime volte aveva creduto in un ruolo sincero di coscienza critica, poi ha smesso di intervenire per rassegnazione. Non dimentichiamo che ancora il Pd deve analizzare le ragioni della sconfitta del 4 marzo. Vi sembra normale? Mai discusso in una trattativa perché con Renzi non si discute: si ascolta e si obbedisce quello che lui ha già deciso. Che ne sa della voglia di tanti iscritti o simpatizzanti, di parlare ed esporre i loro problemi? Lasciamo stare il metodo piuttosto diffuso in altre parrocchie, da Berlusconi a Salvini a Grillo. Chi vota o vorrebbe votare Pd, viene da lontano ed è di un'altra pasta, per cui la politica è discutere, discutere discutere. Troppo? Forse. Ma è meglio che non farlo. Recita Renzi: «Non sarò mai il capo di una corrente. Per questo mi disinteresso del congresso, che è una gara fra correnti». Chi gli crede? Certo non gli ha creduto Marco Minniti. Forse ci ha pensato per un attimo, ma si è accorto che candidandosi all'ombra di Renzi avrebbe fatto la fine di Enrico Letta. L'ex ministro dell'Interno è uomo intelligente che conosce il mondo e soprattutto conosce Renzi, e sa bene che a stringere alleanza con uno come lui c'è solo da rimetterci.Quanto alle correnti, considerate il demonio dall'ex segretario: che cosa sono i renziani se non una corrente? Come concepisce Renzi la possibilità di dissentire da una linea e da una scelta politica? Le correnti nel Pd sono uno sfogo all'impossibilità di dialogare con chi detiene la maggioranza. È il concetto di democrazia, che sfugge a Renzi. Il confronto? II dibattito? Niet. Allora: che aspetta il senatore di Scandicci a sbattere la porta e a farsi il suo benedetto partito? Ebbene, questo non è più all'ordine del giorno. Almeno a breve scadenza. I sondaggi sono impietosi.Non mi meraviglierebbe se Matteo Renzi annunciasse di candidarsi per le primarie. Dopo la rinuncia di Marco Minniti, che gli ha scoperto il giochino, tutti lo davano in stato confusionale. Spiazzato. Lui che di solito spiazza gli altri. Ed è proprio una sua candidatura che ora sarebbe spiazzante: l'unica carta in controtendenza a quanto si dice sulle sue reali intenzioni.Tuttavia Renzi, come è sua abitudine, fa i conti senza misurare la realtà, la cui dimensione spesso gli sfugge. Gli sono rimasti i colonnelli, quelli del giglio magico, molti dei quali però, già si preparavano al distacco, giustificandolo con l'attaccamento al partito. «Io resto nel Pd». La sua improvvisa, possibile discesa in campo li ha rigettati nello sconforto. Chi è rimasto lucido sa bene che il Pd ha un futuro solo senza di lui. Senza quella presenza ingombrante che ha la valenza di un convitato di pietra del quale è impossibile liberarsi. Che parla da senatore di Scandicci ma agisce da burattinaio, disposto a tutto pur di non farsi rompere i fili del potere. Fra poche ore, alla scadenza della presentazione delle candidature per le primarie, sapremo.