True
2022-07-21
Gli ultimi sgarri di Mr Bce ricompattano l’alleanza. E Salvini stacca la spina
Matteo Salvini (Ansa)
«La legge sul Superbonus è stata fatta male». Dai banchi della Lega parte un applauso convinto in direzione di Mario Draghi. Sono le 17.15 del giorno più lungo, è l’unico momento di sincera sintonia fra il partito di Matteo Salvini e il premier. Ma è una briciola e non evita il divorzio. È finito il governo degli Infallibili, è finita l’agonia di un partito che giorno dopo giorno si è convinto di non essere un alleato ma un maggiordomo, una stampella, un voto ambulante a prescindere. «Mai tirare troppo la corda, si spezza», chiude la pratica Roberto Calderoli. E sancisce l’eclissi di Mario Draghi.
La giornata è surreale ma comincia con una ferrea certezza: gli schiaffi del premier alla Lega, che sarebbe il gruppo parlamentare più numeroso. «Ad andarsene sono stati i grillini, ma lui se la prende sempre con noi», sbotta un senatore di lungo corso. Non il modo migliore per rientrare nei giochi, visto che Supermario si era sfiduciato da solo pur avendo la maggioranza, ma è difficile far capire a un banchiere i fondamentali della politica. Nel discorso della corona non c’è un accenno alle istanze del centrodestra, Palazzo Chigi non accoglie nessuno dei punti della coalizione (flat tax, delega fiscale) e neppure apre alla più scontata delle richieste: lasciar fuori il Movimento 5 stelle, definito all’unisono «inaffidabile».
Al mattino, quando Draghi finisce di parlare, nessun leghista applaude. Il solo Giancarlo Giorgetti va a complimentarsi, Salvini è scuro in volto. C’è l’ulteriore conferma di un’evidenza: il premier risponde al Pds (il Partito di Sergio, nel senso di Mattarella) e ha l’unico scopo di ricucire con Giuseppe Conte per dare continuità elettorale al campo largo arato da Enrico Letta. «I vecchi democristiani stanno ponendo le condizioni per il Papeete 2 e vogliono intestarcelo», è il mood dentro la Lega. Parte un comunicato: «Il Movimento 5 stelle ha rotto il patto di fiducia alla base del governo di unità nazionale, che pure ha affrontato gravi emergenze e avviato un lavoro prezioso sul Pnrr. Il centrodestra di governo è disponibile a un nuovo patto e darà il suo contributo per risolvere i problemi dell’Italia. Ma solo con un nuovo governo, guidato da Draghi ma senza il M5s e profondamente rinnovato». Via i ministri grillini, via la sciagura Roberto Speranza, via l’inconcludente Luciana Lamorgese nel gestire l’emergenza migranti.
La posizione viene ribadita in Senato nell’unico intervento consentito, quello del capogruppo, Massimiliano Romeo: «Serve un nuovo governo o il voto. Dal suo discorso iniziale sembrava che l’unico intento fosse sostenere il campo largo del Pd. Se è così non ci interessa, dobbiamo rendere conto ai nostri elettori e alla base. Se l’obiettivo è invece salvare il Paese vediamo un paio di scenari all’orizzonte. Il primo è che il M5s non faccia più parte della maggioranza. Il secondo che le tematiche vadano affrontate in modo diverso, ad esempio quelle sull’energia: possiamo affrontarle con chi dice no alle trivelle e no all’aumento della produzione di gas? Si prenda atto che è nata una nuova maggioranza, serve dunque un nuovo governo con obiettivi più ambiziosi». Quindi, prosegue Romeo: «Con tre paletti. No al reddito di cittadinanza, tutela degli interessi italiani e non delle multinazionali, limiti all’immigrazione con discontinuità riguardo a ciò che il suo governo ha portato avanti. Se questi saranno i limiti la Lega c’è».
La dichiarazione viene sintetizzata nella risoluzione di Roberto Calderoli, che il governo non metterà mai ai voti preferendo quella di Pierferdinando Casini; avanti così madama la marchesa. Il pomeriggio è convulso, Salvini è in riunione permanente con Silvio Berlusconi anche per marcarlo stretto e non farlo cadere fra le spire sinuose di Gianni Letta, che lavora per il consueto «volemose bene». Si vocifera di una telefonata con Conte, di sicuro il leader del Carroccio si tiene in contatto con Giorgia Meloni che invita il centrodestra a staccare la spina. La pancia del partito è di questa idea per evitare sei mesi di agonia, una palude utile al Pd per presentarsi al voto con alle spalle vecchi arnesi della propaganda come l’Europa, lo spread e la narrazione dell’«emergenza democratica». Magari con lo stesso Draghi candidato premier.
La scelta di rompere è contrastata, Giorgetti e i governatori vorrebbero portare il governo a scadenza naturale ma si rendono conto che la richiesta del Draghistan di accontentarsi di un ruolo ancillare sarebbe un suicidio. Salvini riceve una telefonata dal Quirinale; Mattarella insiste per avere la Lega nell’esecutivo (forse gli serve un punching ball), ma la trappola non scatta. Matteo decide - d’accordo con il Cavaliere - di non votare la risoluzione Casini e uscire dall’Aula. La replica al Senato viene affidata a Stefano Candiani, che chiude la partita: «La lealtà della Lega non è mai venuta meno, ma un Parlamento di trasformisti non è in grado di dare stabilità. Non si può continuare dicendo che nulla è successo, spiace che lei abbia ascoltato i cattivi consigli del Pd nonostante le trappole su ius scholae e cannabis. Eravamo pronti a dare un contributo con un governo rinnovato. Spiace che non sia stata scelta la nostra risoluzione e che questo ci metta nelle condizioni di non votare la fiducia». Game over, a meno di qualche trovata da mago Otelma dei fantasiosi «responsabili». Questa volta il «whatever it takes» l’ha alimentato Salvini dall’alba al tramonto. Poiché Draghi e il Partito di Sergio non avevano bisogno di alleati ma di maggiordomi, non poteva funzionare.
Fdi tiene il punto e si gode il tracollo
«Legislatura conclusa, anche se qualcuno vorrebbe trovare qualche altra via d’uscita. Ma è ora di andare al voto, si può farlo tra due mesi, io sono pronta, il centrodestra abbastanza pronto». La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ieri sera in piazza Vittorio a Roma, alla Festa del Patriota, dopo una telefonata con il presidente Silvio Berlusconi e più di qualcuna con il leader della Lega, Matteo Salvini, ha ribadito quello che dal giorno della mancata fiducia del M5s al dl Aiuti, andava ripetendo battendo sul tasto dello stop ai «giochi di Palazzo» e intensificando il pressing sul Colle affinché fosse ridata la parola agli italiani.
Ma ieri mattina la Meloni era anche riuscita a far innervosire il premier, Mario Draghi, commentando il suo discorso al Senato sulla crisi di governo: «Draghi arriva in Parlamento e di fatto pretende pieni poteri, sostenendo che glielo hanno chiesto gli italiani. Ma in una democrazia la volontà popolare si esprime solo con il voto, non sulle piattaforme grilline o con gli appelli del Pd. Sono le autocrazie che rivendicano di rappresentare il popolo senza bisogno di far votare i cittadini, non le democrazie occidentali», aveva aggiunto la Meloni, leader dell’unica forza d’opposizione, «Fratelli d’Italia non intende assecondare questa pericolosa deriva. Decidano gli italiani del proprio futuro, non questo Parlamento delegittimato e impaurito. Elezioni subito». Una reazione inevitabile considerato lo sbilanciamento a sinistra di un discorso che non ha convinto il centrodestra che si aspettava dal premier una sensibilità maggiore rispetto al senso di responsabilità mostrato da Lega e Forza Italia. Quella responsabilità che la sinistra andava chiedendo come un ritornello, perché secondo la Meloni «al Pd interessa solo il potere e allora la responsabilità la chiede quando gli fa comodo», mentre gli italiani «non devono aver paura di andare alle urne, perché il voto è la vera volontà popolare e il voto è libero e segreto, non come le raccolte indotte di firme o le manifestazioni di 100 persone a sostegno di un premier». «Quando noi protestammo in 20.000 davanti Montecitorio contro il Conte bis ci dissero che eravamo sovversivi, loro invece fanno mobilitazione popolare», ha incalzato la Meloni.
Il presidente del Consiglio, nella sua irritata replica al Senato, aveva voluto rispondere proprio alla leader di Fdi: «Niente richiesta di pieni poteri, va bene?». Anche se la stessa chiarezza l’aveva ribadita il capogruppo di Fdi in Senato, Luca Ciriani, nella sua dichiarazione di voto: «Credo che abbiate superato ogni limite. Adesso basta, tiriamo una riga e andiamo oltre. Quello che accade, presidente, noi glielo avevamo anticipato mesi fa, una maggioranza troppo litigiosa. Quello che è accaduto presidente era inevitabile. È apparso evidente stamattina che il suo discorso è stato costruito per compiacere il Pd e la sinistra, non una parola sul centrodestra. Quello che è a rischio oggi non è l’Italia ma un sistema di potere, che il Pd ha costruito per conservare sé stesso. Non credo presidente alla sincerità dei suoi amici e dei suoi alleati, che la applaudono solo per paura. Sono persone che la elogiano in pubblico e la criticano in privato. Non le daremo la fiducia presidente. Noi lavoriamo per un nuovo governo», aveva concluso.
Continua a leggereRiduci
Matteo aspetta invano una mano tesa dal premier. Ma l’appello di Massimiliano Romeo in Aula cade nel vuoto. E pure Giancarlo Giorgetti si convince. Roberto Calderoli: «Tirata troppo la corda».Giorgia Meloni attacca il capo dell’esecutivo: «Ha chiesto i pieni poteri. Le nostre piazze sono “sovversive” e le loro “popolari”?». E in serata prevede: «Si vota in due mesi».Lo speciale contiene due articoli.«La legge sul Superbonus è stata fatta male». Dai banchi della Lega parte un applauso convinto in direzione di Mario Draghi. Sono le 17.15 del giorno più lungo, è l’unico momento di sincera sintonia fra il partito di Matteo Salvini e il premier. Ma è una briciola e non evita il divorzio. È finito il governo degli Infallibili, è finita l’agonia di un partito che giorno dopo giorno si è convinto di non essere un alleato ma un maggiordomo, una stampella, un voto ambulante a prescindere. «Mai tirare troppo la corda, si spezza», chiude la pratica Roberto Calderoli. E sancisce l’eclissi di Mario Draghi. La giornata è surreale ma comincia con una ferrea certezza: gli schiaffi del premier alla Lega, che sarebbe il gruppo parlamentare più numeroso. «Ad andarsene sono stati i grillini, ma lui se la prende sempre con noi», sbotta un senatore di lungo corso. Non il modo migliore per rientrare nei giochi, visto che Supermario si era sfiduciato da solo pur avendo la maggioranza, ma è difficile far capire a un banchiere i fondamentali della politica. Nel discorso della corona non c’è un accenno alle istanze del centrodestra, Palazzo Chigi non accoglie nessuno dei punti della coalizione (flat tax, delega fiscale) e neppure apre alla più scontata delle richieste: lasciar fuori il Movimento 5 stelle, definito all’unisono «inaffidabile».Al mattino, quando Draghi finisce di parlare, nessun leghista applaude. Il solo Giancarlo Giorgetti va a complimentarsi, Salvini è scuro in volto. C’è l’ulteriore conferma di un’evidenza: il premier risponde al Pds (il Partito di Sergio, nel senso di Mattarella) e ha l’unico scopo di ricucire con Giuseppe Conte per dare continuità elettorale al campo largo arato da Enrico Letta. «I vecchi democristiani stanno ponendo le condizioni per il Papeete 2 e vogliono intestarcelo», è il mood dentro la Lega. Parte un comunicato: «Il Movimento 5 stelle ha rotto il patto di fiducia alla base del governo di unità nazionale, che pure ha affrontato gravi emergenze e avviato un lavoro prezioso sul Pnrr. Il centrodestra di governo è disponibile a un nuovo patto e darà il suo contributo per risolvere i problemi dell’Italia. Ma solo con un nuovo governo, guidato da Draghi ma senza il M5s e profondamente rinnovato». Via i ministri grillini, via la sciagura Roberto Speranza, via l’inconcludente Luciana Lamorgese nel gestire l’emergenza migranti.La posizione viene ribadita in Senato nell’unico intervento consentito, quello del capogruppo, Massimiliano Romeo: «Serve un nuovo governo o il voto. Dal suo discorso iniziale sembrava che l’unico intento fosse sostenere il campo largo del Pd. Se è così non ci interessa, dobbiamo rendere conto ai nostri elettori e alla base. Se l’obiettivo è invece salvare il Paese vediamo un paio di scenari all’orizzonte. Il primo è che il M5s non faccia più parte della maggioranza. Il secondo che le tematiche vadano affrontate in modo diverso, ad esempio quelle sull’energia: possiamo affrontarle con chi dice no alle trivelle e no all’aumento della produzione di gas? Si prenda atto che è nata una nuova maggioranza, serve dunque un nuovo governo con obiettivi più ambiziosi». Quindi, prosegue Romeo: «Con tre paletti. No al reddito di cittadinanza, tutela degli interessi italiani e non delle multinazionali, limiti all’immigrazione con discontinuità riguardo a ciò che il suo governo ha portato avanti. Se questi saranno i limiti la Lega c’è».La dichiarazione viene sintetizzata nella risoluzione di Roberto Calderoli, che il governo non metterà mai ai voti preferendo quella di Pierferdinando Casini; avanti così madama la marchesa. Il pomeriggio è convulso, Salvini è in riunione permanente con Silvio Berlusconi anche per marcarlo stretto e non farlo cadere fra le spire sinuose di Gianni Letta, che lavora per il consueto «volemose bene». Si vocifera di una telefonata con Conte, di sicuro il leader del Carroccio si tiene in contatto con Giorgia Meloni che invita il centrodestra a staccare la spina. La pancia del partito è di questa idea per evitare sei mesi di agonia, una palude utile al Pd per presentarsi al voto con alle spalle vecchi arnesi della propaganda come l’Europa, lo spread e la narrazione dell’«emergenza democratica». Magari con lo stesso Draghi candidato premier. La scelta di rompere è contrastata, Giorgetti e i governatori vorrebbero portare il governo a scadenza naturale ma si rendono conto che la richiesta del Draghistan di accontentarsi di un ruolo ancillare sarebbe un suicidio. Salvini riceve una telefonata dal Quirinale; Mattarella insiste per avere la Lega nell’esecutivo (forse gli serve un punching ball), ma la trappola non scatta. Matteo decide - d’accordo con il Cavaliere - di non votare la risoluzione Casini e uscire dall’Aula. La replica al Senato viene affidata a Stefano Candiani, che chiude la partita: «La lealtà della Lega non è mai venuta meno, ma un Parlamento di trasformisti non è in grado di dare stabilità. Non si può continuare dicendo che nulla è successo, spiace che lei abbia ascoltato i cattivi consigli del Pd nonostante le trappole su ius scholae e cannabis. Eravamo pronti a dare un contributo con un governo rinnovato. Spiace che non sia stata scelta la nostra risoluzione e che questo ci metta nelle condizioni di non votare la fiducia». Game over, a meno di qualche trovata da mago Otelma dei fantasiosi «responsabili». Questa volta il «whatever it takes» l’ha alimentato Salvini dall’alba al tramonto. Poiché Draghi e il Partito di Sergio non avevano bisogno di alleati ma di maggiordomi, non poteva funzionare. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ultimi-sgarri-draghi-ricompattano-centrodestra-2657703472.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="fdi-tiene-il-punto-e-si-gode-il-tracollo" data-post-id="2657703472" data-published-at="1658347670" data-use-pagination="False"> Fdi tiene il punto e si gode il tracollo «Legislatura conclusa, anche se qualcuno vorrebbe trovare qualche altra via d’uscita. Ma è ora di andare al voto, si può farlo tra due mesi, io sono pronta, il centrodestra abbastanza pronto». La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ieri sera in piazza Vittorio a Roma, alla Festa del Patriota, dopo una telefonata con il presidente Silvio Berlusconi e più di qualcuna con il leader della Lega, Matteo Salvini, ha ribadito quello che dal giorno della mancata fiducia del M5s al dl Aiuti, andava ripetendo battendo sul tasto dello stop ai «giochi di Palazzo» e intensificando il pressing sul Colle affinché fosse ridata la parola agli italiani. Ma ieri mattina la Meloni era anche riuscita a far innervosire il premier, Mario Draghi, commentando il suo discorso al Senato sulla crisi di governo: «Draghi arriva in Parlamento e di fatto pretende pieni poteri, sostenendo che glielo hanno chiesto gli italiani. Ma in una democrazia la volontà popolare si esprime solo con il voto, non sulle piattaforme grilline o con gli appelli del Pd. Sono le autocrazie che rivendicano di rappresentare il popolo senza bisogno di far votare i cittadini, non le democrazie occidentali», aveva aggiunto la Meloni, leader dell’unica forza d’opposizione, «Fratelli d’Italia non intende assecondare questa pericolosa deriva. Decidano gli italiani del proprio futuro, non questo Parlamento delegittimato e impaurito. Elezioni subito». Una reazione inevitabile considerato lo sbilanciamento a sinistra di un discorso che non ha convinto il centrodestra che si aspettava dal premier una sensibilità maggiore rispetto al senso di responsabilità mostrato da Lega e Forza Italia. Quella responsabilità che la sinistra andava chiedendo come un ritornello, perché secondo la Meloni «al Pd interessa solo il potere e allora la responsabilità la chiede quando gli fa comodo», mentre gli italiani «non devono aver paura di andare alle urne, perché il voto è la vera volontà popolare e il voto è libero e segreto, non come le raccolte indotte di firme o le manifestazioni di 100 persone a sostegno di un premier». «Quando noi protestammo in 20.000 davanti Montecitorio contro il Conte bis ci dissero che eravamo sovversivi, loro invece fanno mobilitazione popolare», ha incalzato la Meloni. Il presidente del Consiglio, nella sua irritata replica al Senato, aveva voluto rispondere proprio alla leader di Fdi: «Niente richiesta di pieni poteri, va bene?». Anche se la stessa chiarezza l’aveva ribadita il capogruppo di Fdi in Senato, Luca Ciriani, nella sua dichiarazione di voto: «Credo che abbiate superato ogni limite. Adesso basta, tiriamo una riga e andiamo oltre. Quello che accade, presidente, noi glielo avevamo anticipato mesi fa, una maggioranza troppo litigiosa. Quello che è accaduto presidente era inevitabile. È apparso evidente stamattina che il suo discorso è stato costruito per compiacere il Pd e la sinistra, non una parola sul centrodestra. Quello che è a rischio oggi non è l’Italia ma un sistema di potere, che il Pd ha costruito per conservare sé stesso. Non credo presidente alla sincerità dei suoi amici e dei suoi alleati, che la applaudono solo per paura. Sono persone che la elogiano in pubblico e la criticano in privato. Non le daremo la fiducia presidente. Noi lavoriamo per un nuovo governo», aveva concluso.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Continua a leggereRiduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
Continua a leggereRiduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
Continua a leggereRiduci