C’era chi vaticinava un -25% per il Pil del Regno Unito dopo l’uscita dall’Ue. Invece, per l’Ocse, nel 2022 ha fatto un robusto +4,43%. E pure gli indicatori su disoccupazione, povertà ed export smontano la teoria, in voga sui giornali, di un Paese sull’orlo del baratro.Un ragazzo su tre non ha cibo, le aziende chiudono, il Pil sprofonda e il mediocre Gareth Southgate remain sulla panchina della Nazionale. Non potrebbe andare peggio in Inghilterra, almeno a leggere le narrazioni tardo-dickensiane dei giornali italiani, secondo i quali «a tre anni esatti dalla Brexit, Londra come Cenerentola pare aver perso una scarpetta, in fuga dal grande ballo europeo». La gastrite permanente del progressista globalizzato nei confronti di una libera scelta di una delle più solide democrazie del pianeta sta producendo un effetto straniante; basta un mezzo dato negativo per dipingere il Regno Unito come uno staterello africano in balia di degrado e depressione, presto destinatario di un programma della Fao. Poi tutti a postare su Instagram le foto del weekend a Piccadilly Circus. Chissà perché.La realtà è ovviamente molto diversa e la frase «il gran ballo europeo» andrebbe declinata al femminile. La gran balla europea funziona fino a quando si sorregge su reportage compiacenti che indicano un particolare per il tutto. Poi, con la cocciutaggine che è loro propria, arrivano i numeri e la faccenda cambia. Al concretizzarsi della Brexit, gli istituti di ricerca concordavano che il Pil britannico negli anni successivi (orizzonte 2020) sarebbe andato da +1% a un catastrofico -25%, con una valutazione mediana attorno al -6%. Ebbene, secondo l’Ocse nel 2022 il Pil reale del Regno Unito ha fatto +4,43% contro il +1,77% della Germania, il +2,77% della Francia, il +3,7% dell’Italia e il +4,65% della Spagna, definita il miracolo d’Europa. Secondo lo storytelling eurolirico, Londra dovrebbe essere quasi miracolosa. Nel 2021, uscendo dalla pandemia prima degli altri con coraggio, i brexiters avevano concretizzato un exploit ancora migliore: +7,75% contro il +6,77% della Francia, il +6,72% dell’Italia, il +5,52% della Spagna e il +2,58% della Germania. Oggi, nella competizione fra i cinque Paesi più industrializzati del continente, la Germania traina il gruppo - proprio davanti agli inglesi, esattamente come prima del «Leave» -, seguiti dalla Francia (ma Parigi non sprofonda nella Senna), dalla Spagna e dall’Italia. È vero che lo «splendido isolamento» decantato da Nigel Farage e Boris Johnson al momento del referendum non porterà mai più al ritorno dell’impero (immagine anacronistica che non ha condizionato nessuno), ma almeno evita i diktat del «vincolo esterno» che impone a una nazione orgogliosa l’umiliazione della sovranità limitata. Eppure, secondo i media italiani, Londra meriterebbe un Telethon permanente. A questo proposito è molto interessante l’ultima analisi dell’economista Alberto Bagnai sul sito Goofynomics, che fotografa la realtà con la consueta lucidità sottolineando: «Per ora il Regno Unito non è sprofondato né del 6% né del 25%, e si è tirato fuori dal Covid meno peggio di altri». Poi avvicina la lente d’ingrandimento ai temi al centro delle giaculatorie quotidiane e smonta le forzature collettive. L’indice della disoccupazione (sempre fonte Ocse) è il più illuminante: nel 2016 in Gran Bretagna era al 4.89%, nel rilevamento di novembre 2022 era al 3.7%, non lontana dalla Germania (3,1%). Come parametri non esattamente virtuosi ci sarebbero il 7,4% della Francia, l’8,1% dell’Italia e il 12,8% della Spagna che invece, secondo gli esperti da talk show, vola verso vette di felicità mai raggiunte. In realtà stanno tutte peggio degli inglesi ma poiché sono pienamente dentro «il gran ballo europeo», con musica suonata da Bruxelles, non fanno notizia.La comparazione sugli indici di povertà e di esclusione sociale è meno semplice perché i grafici di Eurostat ignorano, non senza far trasparire una certa stizza, i dati britannici dal 2019 in poi. «Il tasso di povertà era più alto prima che nei due anni successivi alla Brexit», è il commento di Bagnai su Goofynomics. «Ed era comunque considerevolmente più basso che in Italia o Spagna, quindi magari guardare un pochino a casa nostra lo si potrebbe suggerire alla nostra informazione...». A fotografare la situazione ci aiuta ancora l’Ocse: nel 2019 il tasso di povertà in Gran Bretagna era 0,28% contro lo 0,37% della Francia, lo 0,34% della Spagna, lo 0,32% della Germania. Italia non pervenuta. È vero che gli inglesi sarebbero più infelici perché faticano a trovare sugli scaffali il tè Lipton, le minestre Knorr e i gelati Magnum (parola di reportage fotocopia) ma come dicevano sotto le bombe di Adolf Hitler «Business as usual». Altre due cattive notizie per i catastrofisti al porridge: il deficit con l’estero sta calando, prima della Brexit era al -5,49% mentre nel 2021 s’è assestato a -1,50%; in questo caso le importazioni crescono più che negli altri Paesi. Poiché, a differenza dell’Eurozona, Londra è produttore di petrolio, sopporta lo shock energetico in autonomia senza dover subire i pasticci delle centrali di costo continentali. Lo scenario non è da età dell’oro (non lo è per nessuno in Europa) ma neppure così disastrosamente surreale come viene dipinto in troppi quadri pop dove sembra dilagare la «bregret», il rimpianto. È comprensibile che lo strappo inglese sia una ferita ancora aperta, ma sarebbe ora di farsene una ragione: i britannici che hanno un piede dentro al Storia - e ad ogni sfida di calcio contro i tedeschi rispolverano il bombardamento di Coventry e la ritirata di Dunquerque -, non volevano sottostare al quarto Reich dopo avere sconfitto il terzo. Punto. Con una conseguenza: indietro non si torna.La conferma arriva da Ben Page, amministratore delegato della società di sondaggi Ipsos, europeista convinto ma rispettoso delle scelte referendarie. «Non c’è ancora una richiesta spontanea di un’altra consultazione, l’elaborazione potrebbe richiedere un ricambio generazionale. C’è ancora un vasto gruppo di persone convinto che uscire dalla Ue sia stata la cosa giusta. Più che della Brexit i britannici sono preoccupati per economia, inflazione, sanità. E poi per la guerra. Solo uno su dieci pensa che Brexit e il rientro nel mercato unico europeo siano tra le sfide per il Paese. La Brexit rientra appena nella top 10 dei problemi percepiti dai britannici». Il dato di fatto non sfiora i malpancisti appiattiti su Bruxelles ma è un faro per i politici inglesi a caccia di consensi. Non solo i tories al governo da 12 anni, ma anche i laburisti che vorrebbero tornare a Downing Street. Il leader del labour Keir Starmer ha semplicemente stravolto il motto di Johnson «Get Brexit Done» («La Brexit è fatta») in «Make Brexit Work» («Facciamo funzionare la Brexit»). Niente di più, nessuno vuole scontrarsi con valori come storia, tradizione, identità. L’Europa rimane oltre le scogliere di Dover, dove ogni sera un messo pagato dallo Stato accende un fuoco fra la nebbia. Aspetta l’Invincibile Armada.
Robert W.Malone (Getty Images)
L’inventore della tecnologia mRna: «I Cdc Usa hanno soppresso i dati sugli eventi avversi. La buona notizia è che si possono curare: anch’io ho avuto problemi cardiaci dopo Moderna. L’utilitarismo e lo scientismo hanno prodotto un approccio stalinista alla salute».
Robert Malone è il papà dei vaccini a mRna. È lui che, neolaureato, conduce nel 1987 uno storico esperimento al Salk Institute in California e poi, l’11 gennaio 1988, appunta sul suo taccino: «Se le cellule potessero creare proteine dall’mRna, potrebbe essere possibile trattare l’Rna come farmaco». «Scusatemi, ero giovane, avevo soltanto 28 anni», ha ironizzato qualche settimana fa a Bruxelles. Ieri il fisico e biochimico, nominato dal ministro della salute Usa, Robert F. Kennedy, presidente della commissione vaccini americana (Acip), ha lasciato Roma, dove si è fermato tre giorni per partecipare a un convegno al Senato sull’esperienza statunitense della pandemia e alla conferenza sulla sanità del XXI secolo, organizzata dai medici Giuseppe Barbaro, Mariano Bizzarri, Alberto Donzelli e Sandro Sanvenero, insieme con l’avvocato Gianfrancesco Vecchio.
2025-11-11
Nella biblioteca dei conservatori, dove la destra si racconta attraverso i suoi libri
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Nel saggio di Massimiliano Mingoia un viaggio tra i testi che hanno plasmato il pensiero conservatore, da Burke a Prezzolini, da Chateaubriand a Scruton. Un percorso che svela radici, contraddizioni e miti di una cultura politica spesso semplificata dalla cronaca.
C’è un'immagine molto particolare che apre il nuovo libro di Massimiliano Mingoia, La biblioteca dei conservatori. Libri fondamentali per capire la destra (Idrovolante Edizioni, 2025): «Immaginatevi di entrare nella casa di un conservatore e di sfogliare i volumi della sua biblioteca». È una metafora efficace e programmatica, perché il saggio di Mingoia è proprio questo: un viaggio attraverso le stanze del pensiero di destra, le sue genealogie, le sue contraddizioni, e la sua lunga, irrisolta tensione con la modernità.
Giornalista e studioso di cultura politica, Mingoia costruisce un itinerario che ha la forma di una libreria: al centro, sugli scaffali più consultati, i “padri nobili” del conservatorismo liberale — da Edmund Burke a Chateaubriand, da Tocqueville a Prezzolini — e accanto a loro gli autori del Novecento come Russell Kirk, Hayek e Roger Scruton. In alto, quasi a sfiorare il soffitto, le figure più controverse del pensiero reazionario e tradizionalista: de Maistre, Guénon, Jünger, Evola, de Benoist. In basso, ai margini ma non troppo lontani, i liberali “irregolari” come Sartori, Montanelli, Ricossa e Romano.
È una classificazione che racconta, meglio di molti manuali, la pluralità delle destre e la loro difficile convivenza: tra l’ordine e la libertà, tra l’autorità e il mercato, tra la fede e la ragione.
L’autore evita il tono accademico e adotta quello del cronista curioso. Ogni capitolo parte da un libro, spesso introvabile, per ricostruire il contesto e le idee che lo hanno generato. Così Le tre destre di René Rémond diventa il punto di partenza per capire la distinzione tra destra tradizionalista, liberal-conservatrice e nazional-populista; Intervista sulla destra di Galli della Loggia e Prezzolini offre l’occasione per riflettere sull’anomalia italiana, dove la destra è nata liberale e non reazionaria; Destra e sinistra di Bobbio e la replica di Veneziani mettono a confronto due visioni opposte, ma entrambe fondamentali per capire l’Italia degli ultimi trent’anni.
Uno degli episodi più vivaci del volume riguarda Dante Alighieri, collocato da Mingoia in posizione d’onore nella “libreria del conservatore”. Non tanto perché il Sommo Poeta fosse un pensatore di destra — anacronismo che l’autore smonta con finezza — ma perché con la Divina Commedia ha dato all’Italia una lingua e un’identità, un “mito delle origini” che ancora oggi accomuna patrioti e progressisti. Mingoia ricorda come, nel Novecento, Dante sia stato arruolato prima dal fascismo e poi, più di recente, citato da Giorgia Meloni nel suo Io sono Giorgia, a dimostrazione di quanto la tradizione culturale italiana resti terreno di contesa simbolica.
C’è anche spazio per il romanzo: Il Gattopardo e Il Signore degli Anelli appaiono nella sezione “narrativa”, a ricordare che il conservatorismo non vive solo di filosofia ma anche di mito, genealogie familiari e nostalgia per un ordine perduto. Giovanni Raboni, da posizioni progressiste, scrisse che “i grandi scrittori sono tutti di destra”: Mingoia cita la provocazione con ironia, ma riconosce che in certe opere — da Tomasi di Lampedusa a Tolkien — sopravvive l’idea di continuità, di radice, di limite, che è il cuore stesso della sensibilità conservatrice.
Nel capitolo conclusivo, l’autore si interroga sul presente. Esiste oggi una “destra conservatrice” in Italia? O la cultura politica di Fratelli d’Italia è più vicina al populismo identitario che al liberal-conservatorismo di Burke e Prezzolini? L’analisi, sorretta da studi di Marco Tarchi e da esempi tratti dalla storia recente, evita semplificazioni ma suggerisce una risposta: la destra italiana, nel suo insieme, ha ancora una debole consapevolezza della propria tradizione intellettuale.
La biblioteca dei conservatori è dunque molto più di un repertorio di citazioni o di un manuale: è un saggio divulgativo colto, ordinato, a tratti persino affettuoso verso le idee che esplora. Mingoia scrive da osservatore, non da militante: mette in luce le ambiguità del conservatorismo ma ne riconosce anche la profondità e la coerenza.
In un tempo in cui la politica vive di slogan e di tweet, l’autore invita il lettore a tornare ai libri, letteralmente. A entrare in una biblioteca e, come suggerisce il titolo, a scoprire cosa significhi davvero “conservare”: non il rifiuto del nuovo, ma la custodia della memoria.
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Il liceo classico Berchet di Milano. Nel riquadro, il prof Antonino Orlando Lodi (Ansa)
Il prof. Orlando Lodi: «Dopo il presidio al liceo Berchet ho spedito una email agli studenti per spiegare loro la gravità di quel gesto. La preside mi ha sottoposto a un provvedimento disciplinare per aver inviato scritti “non inerenti all’attività didattica”».
Il 9 e il 10 ottobre scorsi, un gruppo di studenti pro Pal ha occupato il liceo classico Giovanni Berchet di Milano. Antonino Orlando Lodi, professore di filosofia dell’istituto, ha voluto avviare un dibattito su quanto accaduto. Per farlo, si è avvalso dell’indirizzo di posta istituzionale della scuola per muovere rilievi critici sull’occupazione. Il preside, Clara Atorino, tuttavia, non ha gradito il gesto e il 31 ottobre ha aperto una procedura disciplinare nei confronti del docente, per aver spedito, senza la sua autorizzazione, «comunicazioni non riconducibili a finalità didattiche». Lodi, però, si difende e dice che il suo scritto tratta «il tema della violenza, della congruità dei mezzi ai fini, delle procedure della democrazia, del valore del pluralismo delle informazioni, oggetto di riflessione nel dialogo educativo. Lo abbiamo intervistato, per sentire che cosa avesse da raccontare.
2025-11-11
Dimmi La Verità | Santomartino: «Ecco che cosa sono la guerra ibrida e le dimensione cognitiva»
Ecco #DimmiLaVerità dell'11 novembre 2025. Il generale Giuseppe Santomartino ci spiega i concetti di guerra ibrida e dimensione cognitiva.






