2024-06-19
L’Ue vuole l’Ursula bis «entro fine mese» per salvare Macron alla faccia del voto
Charles Michel ed Emmanuel Macron (Ansa)
Charles Michel (suo alleato) accelera, scordando i due mesi di negoziati del 2019. Il capo dell’Eliseo intanto glissa: «Non abbiamo fretta».Chi, io? Emmanuel Macron, dopo la fumata nera alla «cena informale» sull’Ursula bis, ha fatto lo gnorri: «Non è comunque il nostro obiettivo», ha commentato, chiudere le trattative per fine mese. Ma Charles Michel, presidente del Consiglio Ue e soprattutto suo alleato nel gruppo Renew, ha gettato la maschera: «È nostro compito prendere una decisione sulle nomine entro fine giugno». Guarda caso, prima delle elezioni legislative del 30 in Francia, dalle quali l’inquilino dell’Eliseo rischia di uscire con le ossa rotte.Oltralpe, per lui, arrivano notizie poco incoraggianti: gli spin doctor lo implorano di farsi vedere il meno possibile in tv, mentre lui dà il bacio della morte al premier, Gabriel Attal, chiamandolo «il mio fratellino»; la grande ammucchiata anti lepenista non riesce a presentare candidati decenti in oltre 60 collegi; in altri, pur di scoraggiare il loro matrimonio con il Rassemblement national, non schiera nessuno a sfidare i gollisti uscenti, i quali però negano l’esistenza di un accordo; il ministro della Cultura, Rachida Dati, fresca di medaglia ad Antonio Scurati, asfalta l’ex presidente François Hollande, arruolato dalla compagine progressista ma reo di «fare campagna con degli antisemiti»; il leader della sinistra radicale, Jean-Luc Mélenchon, imbarazza il Fronte popolare, annunciando che in caso di vittoria «riconoscerà immediatamente lo Stato di Palestina».Il carrozzone di Macron si sta aggrappando agli appelli dei Bleus impegnati agli Europei di Germania, da Kylian Mbappé a Marcus Thuram, tanto che la Federazione, ieri, ha convocato una conferenza stampa di chiarimento. La parola d’ordine del suo numero uno, Philippe Diallo, è «garantire la libertà d’espressione ai giocatori», ma pure assicurare che «non vi sia una strumentalizzazione della squadra francese, che appartiene a tutti».Si sono mobilitati l’ex primo ministro socialista, Jean-Marc Ayrault (al quale ha fatto da contraltare, su Le Figaro, l’intemerata di François Fillon sull’estrema sinistra), una quindicina di sindacati dello spettacolo, in piazza domani «per la cultura e contro l’estrema destra» e persino l’Accademia delle Scienze, in polemica con il nazionalismo e il «ripiegamento su sé stessi». Non bastasse la carota, poi, ci sarebbe il bastone. L’ultima carta, infatti, è quella alla Günther Oettinger: ciò che l’ex commissario Ue tedesco disse all’Italia («I mercati vi insegneranno come votare»), prova a dirlo Bruno Le Maire ai francesi. «La vittoria dei nostri oppositori», ha tuonato ieri in un’intervista a Le Monde il ministro delle Finanze, «porterà il Paese sotto tutela». Perché, nell’Europa democratica, i fondamentali di finanza pubblica contano a seconda del governo scelto dagli elettori.Non che nell’altro schieramento regni la serenità assoluta. All’indomani del fascicolo giudiziario aperto su Eric Ciotti, promotore dell’alleanza con il Rn, per presunta sottrazione di fondi pubblici, gli oppositori interni, delusi dall’annullamento della sua espulsione, hanno invocato un nuovo provvedimento di ratifica. Nel frattempo, monta la polemica sulla sorella di Marine Le Pen, che sarebbe stata «paracadutata» in una circoscrizione. Il deflino Jordan Bardella ha attaccato i calciatori dallo «stipendio molto, molto alto», che danno «lezioni alla gente che non arriva a fine mese» e ha catechizzato i sostenitori: vuole la maggioranza assoluta, per non essere «un collaboratore di Macron». Al belga Michel, il quale ha fretta di chiudere i negoziati, bisognerebbe ricordare che, l’ultima volta, questo dovere morale di andare di corsa non lo aveva percepito nessuno. Nel 2019, l’intesa in Consiglio su Ursula von der Leyen richiese cinque settimane, più altre due per il via libera definitivo del Parlamento, anche grazie alla svolta europeista dei grillini: si votò il 26 maggio, i 27 indicarono la Spitzenkandidat tedesca il 2 luglio, l’Aula approvò il 16 luglio. Non c’era una guerra alle porte del continente; non c’era nemmeno un presidente amico da soccorrere.Il punto è che l’establishment sta filando verso il vertice del 27 e 28 giugno con in tasca un patto algebrico, più che politico. Dai tre Paesi fondatori dell’Unione - Francia, Germania e Italia - è arrivato un segnale chiarissimo, che in nome del cordone sanitario antifascista, la sinistra e il centro pretendono di ignorare. È stato surreale, in questo senso, il commento del cancelliere tedesco, Olaf Scholz: secondo lui, le elezioni «hanno portato una maggioranza stabile», composta dalla stessa coalizione che ha sostenuto la prima Commissione della Von der Leyen. È una logica di sprezzo della democrazia, che rischia di umiliare l’Ue, rendendola pericolosamente simile alla nostra prima Repubblica: accordicchi, spartizioni di top jobs col Cencelli in mano, persino la «staffetta» in stile Dc-Psi, con il Ppe che rivendica la guida del Consiglio a partire da metà mandato. L’Europa sta facendo la fine del pentapartito.