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2021-06-13
L’Ucoii incolpa l’Italia per la fine di Saman
Il presidente dell'Ucoii, Yassine Lafram (Ansa)
La fatwa, una condanna religiosa, che molti hanno interpretato come un segnale positivo da parte dell'associazione islamica, emessa per condannare il «matrimonio forzato», spregevole pratica alla quale la povera Saman Abbas voleva sfuggire e che con tutta probabilità le è costata la vita, rischia di trasformarsi in una bomba innescata nella comunità musulmana in Italia. E a ribadire la posizione dell'Ucoii, l'Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, che la fatwa l'ha emanata, dopo le dichiarazioni che da qualche giorno va rilasciando Nadia Bouzekri, la vicepresidente dell'associazione, che sta cercando di far passare l'idea che l'islam non c'entri nulla («La religione non c'entra e nemmeno la cultura», ha detto al Corriere della Sera), ieri è sceso in campo anche il presidente Yassine Lafram. «l'islam non c'entra», ha ribadito Lafram, originario di Casablanca, alla guida dell'Ucoii, in un'intervista all'Agi, «ed è evidente che ci sono state delle falle nel protocollo d'intervento e su queste dobbiamo intervenire subito». Ma qual è il protocollo d'intervento? «Ragioniamo in primis su chi aveva il dovere di monitorare e salvaguardare Saman, soprattutto dopo le denunce», ha sottolineato Lafram, scaricando sulle istituzioni italiane. E aggiunge: «Poi c'è una responsabilità più ampia spartita sulla nostra società e qui ognuno ha il dovere di riflettere su come meglio aumentare la propria azione affinché non ci siano più altre Saman». E infine ha tirato fuori una teoria che ricalca le più recenti boldrinate: «Siamo di fronte a un femminicidio vero e proprio, che tenta di prendere una veste religiosa senza riuscirci, dettato dal contesto patriarcale, e dalla cultura del possesso maschile sulle donne, che è trasversale a tutte le culture». Per i vertici dell'Ucoii, insomma, seguire la pista religiosa trasformerebbe il caso in un femminicidio di serie B. Ma è proprio derubricandolo a femminicidio che il caso di Saman rischia di non essere inserito nel giusto contesto, come l'inchiesta giudiziaria sta dimostrando. D'altra parte la posizione dell'Ucoii è stata criticata addirittura da chi sembra avere delle posizioni perfino più oltranziste e che da tempo si occupa di contrastare quella che definiscono «islamofobia»: il bollettino di informazione online La Luce news. Ibrahim Gabriele Iungo, che in un precedente articolo si era occupato della conquista di Costantinopoli e della salvaguardia ottomana della cultura bizantina, ha fornito il suo punto di vista sulla fatwa per Saman. E sostiene che della fatwa «sono apprezzabili la buone intenzioni e la sostanza dei contenuti, ma le criticità risultano maggiori dei benefici». Per spiegarsi, Iungo usa le parole del muftì (che nel mondo islamico è un dotto autorizzato a emettere responsi in materia giuridica e teologica) Shaykh Muhammad al Yaqoubi, che definisce un «sapiente giurisperito (faqìh)»: «Mentre la sentenza (qadà') di un giudice non si può respingere, se non appellandosi ad un nuovo giudizio, il parere (fatwa) di un muftì può essere accolto o meno: [...] esso non implica per nessuno l'obbligatorietà della sua applicazione, ed a ciascuno è lasciata la libertà di accoglierlo o meno, a seconda del suo timor di Dio». Poi sostiene: «Il muftì che in un Paese occidentale si pronunci, non solo in termini informativi, bensì con pretese di efficacia giuridica, rispetto a questioni come il divorzio o controversie commerciali fra fedeli musulmani sbaglia, poiché assume il ruolo del giudice senza averne la facoltà (sultàn); la sua responsabilità è piuttosto quella di consigliare e edificare spiritualmente i fedeli». E ancora: [...] Chi agisca diversamente sbaglia, collocando la fatwa in una posizione che non è la propria, eccedendo i propri limiti, ed arrogandosi prerogative che non gli spettano - facendo sì che la fatwa divenga un nuovo motivo di confusione e controversia, anziché uno strumento di conciliazione». Nelle sue conclusioni, Iungo boccia definitivamente la fatwa per Saman con questi argomenti: «Non essendo sottoscritto da alcuna autorità sapienziale (muftì) od organismo giuridico specializzato (darul-iftà'), né afferendo ad alcuna specifica scuola giuridica tradizionale (madhhab), che, oltre a costituire un riferimento immediatamente riconoscibile per i fedeli, ne garantirebbe autorevolezza tradizionale e consistenza metodologica, questo documento costituisce di fatto una sorta di comunicato stampa, pur avvalorato dall'(ovvia) adesione morale di “imam e guide religiose"». Liquida così la fatwa dell'Ucoii a un comunicato stampa. Che, inoltre, sempre secondo Iungo, «contribuisce ad acuire la confusione, tanto fra i fedeli, quanto in seno all'opinione pubblica, circa la natura dei riferimenti religiosi islamici». La conclusione trasforma in carta straccia la fatwa dell'Ucoii: «Ribadendo un'ovvietà (la proibizione del matrimonio forzato), e in assenza di circostanze inedite (nawàzil), questa dichiarazione risulta tecnicamente superflua».
«I sostenitori dell’islam politico usano il vittimismo come strategia»

Lorenzo Vidino (Ansa)
Lorenzo Vidino, direttore del Program on extremism della George Washington University, è uno dei maggiori studiosi italiani dell'islamismo, ed è particolarmente utile ascoltare la sua voce nel dibattito sul «caso Saman».
Si ripropone la controversia: quanto c'entra la religione islamica con il probabile omicidio di Saman?
«Non è questione di islam, ma di una certa interpretazione dell'islam, che in parte è culturale e in parte politica, e concepisce la donna come un soggetto asservito alla volontà dell'uomo. È un'interpretazione che esiste in due mondi, i quali a volte sono contigui e a volte no, ma che non sono minoritari. Uno è quello dell'islam rurale, molto conservatore, che comprende soprattutto persone con un livello di istruzione molto basso. Senza conoscere i dettagli, posso pensare che sia questo il mondo da cui arriva la famiglia di Saman. In qualche modo è una situazione simile a quella che si ritrovava un secolo fa o vari decenni fa in alcune zone d'Italia. Poi c'è un altro mondo: quello dell'islam politico. Ne fanno parte soggetti con istruzione ben più alta e che hanno una visione volutamente letteralista e conservatrice della religione. Parliamo di chi gravita nell'orbita dei Fratelli musulmani e dei salafiti».
L'Ucoii ha emesso una fatwa contro i matrimoni forzati. Come valuta questo gesto?
«Dobbiamo per forza partire da una certa ipocrisia che esiste in quel mondo. L'Ucoii e giornali online come La Luce (testata di cui è direttore editoriale Davide Piccardo, ndr) rappresentano un movimento eterogeneo, dove ovviamente non tutti la pensano allo stesso modo: esistono visioni e correnti diverse. Però possiamo dire che quel mondo è, almeno ideologicamente, legato alla Fratellanza musulmana».
E questo che cosa comporta?
«Significa che quel mondo ha sempre fatto riferimento a personaggi come Yusuf al-Qaradawi e alle fatwe emesse dal Consiglio europeo per la fatwa e la ricerca, che ha base a Dublino ma collabora con esperti da tutto il mondo. Tra le fatwe che ha emesso ce ne sono alcune che giustificano il marito che picchia la moglie se si taglia i capelli senza permesso o se esce con le amiche. Se questo è l'ambiente, è chiaro che suona un po' ipocrita la condanna di chi compie il passo successivo, e cioè di chi arriva magari all'omicidio».
C'è un ritornello, nei discorsi dei rappresentanti di queste associazioni: «Le vere vittime siamo noi musulmani». È un problema questo atteggiamento?
«È un problema di questa minoranza di islamisti, che è estremamente attiva e forte nel dibattito pubblico, che ha un approccio molto conservatore (per essere diplomatici) e strumentalizza ogni episodio a fini politici. Ecco la dinamica classi: avviene un attentato jihadista o un episodio come quello di Saman. Prima le associazioni condannano, perché non possono evitarlo. Poi però dicono: le vere vittime siamo noi. Iniziano a parlare di islamofobia ed entrano nel ruolo della vittima. È una strategia politica».
E funziona?
«Serve per parlare a due audience. La prima è la comunità musulmana, a cui queste associazioni dicono costantemente: l'Occidente vi odia, è contro di voi e non vi accetterà mai. Il messaggio è: siete sotto scacco e solo noi possiamo difendervi».
L'altra audience?
«L'establishment occidentale, che viene sempre accusato di islamofobia. Vero, esiste un odio antimusulmano. Però queste associazioni lo enfatizzano, lo ingigantiscono per creare una situazione in cui qualunque cosa si dica è islamofoba. Chiunque critica i musulmani o le organizzazioni islamiste viene considerato islamofobo. Sia chi dice davvero cose offensive sia chi fa analisi sofisticate».
Come lei. Infatti la accusano, proprio in questi giorni sulla Luce, di essere islamofobo.
«Ho letto l'articolo in questione, il giochetto retorico è chiaro. A livello europeo (ancora non molto in Italia, purtroppo), esiste una maggiore consapevolezza sull'islam politico. Tedeschi, francesi, austriaci e altri stanno in guardia rispetto all'islamismo, anche a quello non violento dei Fratelli musulmani, e prendono provvedimenti. Il gioco è far sembrare che sia tutta colpa di un islamofobo o due, cosa che pare difficilmente credibile. In realtà si tratta di una presa di coscienza importante che va aumentando».
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Per il presidente dell'Unione delle comunità islamiche, le responsabilità della scomparsa della giovane sono delle nostre istituzioni, ree di non averla protetta. E derubrica la probabile uccisione a «femminicidio dettato dal contesto patriarcale».L'esperto Lorenzo Vidino: «Enfatizzando l'odio antimusulmano, ogni critica viene definita islamofoba».Lo speciale contiene due articoli.La fatwa, una condanna religiosa, che molti hanno interpretato come un segnale positivo da parte dell'associazione islamica, emessa per condannare il «matrimonio forzato», spregevole pratica alla quale la povera Saman Abbas voleva sfuggire e che con tutta probabilità le è costata la vita, rischia di trasformarsi in una bomba innescata nella comunità musulmana in Italia. E a ribadire la posizione dell'Ucoii, l'Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, che la fatwa l'ha emanata, dopo le dichiarazioni che da qualche giorno va rilasciando Nadia Bouzekri, la vicepresidente dell'associazione, che sta cercando di far passare l'idea che l'islam non c'entri nulla («La religione non c'entra e nemmeno la cultura», ha detto al Corriere della Sera), ieri è sceso in campo anche il presidente Yassine Lafram. «l'islam non c'entra», ha ribadito Lafram, originario di Casablanca, alla guida dell'Ucoii, in un'intervista all'Agi, «ed è evidente che ci sono state delle falle nel protocollo d'intervento e su queste dobbiamo intervenire subito». Ma qual è il protocollo d'intervento? «Ragioniamo in primis su chi aveva il dovere di monitorare e salvaguardare Saman, soprattutto dopo le denunce», ha sottolineato Lafram, scaricando sulle istituzioni italiane. E aggiunge: «Poi c'è una responsabilità più ampia spartita sulla nostra società e qui ognuno ha il dovere di riflettere su come meglio aumentare la propria azione affinché non ci siano più altre Saman». E infine ha tirato fuori una teoria che ricalca le più recenti boldrinate: «Siamo di fronte a un femminicidio vero e proprio, che tenta di prendere una veste religiosa senza riuscirci, dettato dal contesto patriarcale, e dalla cultura del possesso maschile sulle donne, che è trasversale a tutte le culture». Per i vertici dell'Ucoii, insomma, seguire la pista religiosa trasformerebbe il caso in un femminicidio di serie B. Ma è proprio derubricandolo a femminicidio che il caso di Saman rischia di non essere inserito nel giusto contesto, come l'inchiesta giudiziaria sta dimostrando. D'altra parte la posizione dell'Ucoii è stata criticata addirittura da chi sembra avere delle posizioni perfino più oltranziste e che da tempo si occupa di contrastare quella che definiscono «islamofobia»: il bollettino di informazione online La Luce news. Ibrahim Gabriele Iungo, che in un precedente articolo si era occupato della conquista di Costantinopoli e della salvaguardia ottomana della cultura bizantina, ha fornito il suo punto di vista sulla fatwa per Saman. E sostiene che della fatwa «sono apprezzabili la buone intenzioni e la sostanza dei contenuti, ma le criticità risultano maggiori dei benefici». Per spiegarsi, Iungo usa le parole del muftì (che nel mondo islamico è un dotto autorizzato a emettere responsi in materia giuridica e teologica) Shaykh Muhammad al Yaqoubi, che definisce un «sapiente giurisperito (faqìh)»: «Mentre la sentenza (qadà') di un giudice non si può respingere, se non appellandosi ad un nuovo giudizio, il parere (fatwa) di un muftì può essere accolto o meno: [...] esso non implica per nessuno l'obbligatorietà della sua applicazione, ed a ciascuno è lasciata la libertà di accoglierlo o meno, a seconda del suo timor di Dio». Poi sostiene: «Il muftì che in un Paese occidentale si pronunci, non solo in termini informativi, bensì con pretese di efficacia giuridica, rispetto a questioni come il divorzio o controversie commerciali fra fedeli musulmani sbaglia, poiché assume il ruolo del giudice senza averne la facoltà (sultàn); la sua responsabilità è piuttosto quella di consigliare e edificare spiritualmente i fedeli». E ancora: [...] Chi agisca diversamente sbaglia, collocando la fatwa in una posizione che non è la propria, eccedendo i propri limiti, ed arrogandosi prerogative che non gli spettano - facendo sì che la fatwa divenga un nuovo motivo di confusione e controversia, anziché uno strumento di conciliazione». Nelle sue conclusioni, Iungo boccia definitivamente la fatwa per Saman con questi argomenti: «Non essendo sottoscritto da alcuna autorità sapienziale (muftì) od organismo giuridico specializzato (darul-iftà'), né afferendo ad alcuna specifica scuola giuridica tradizionale (madhhab), che, oltre a costituire un riferimento immediatamente riconoscibile per i fedeli, ne garantirebbe autorevolezza tradizionale e consistenza metodologica, questo documento costituisce di fatto una sorta di comunicato stampa, pur avvalorato dall'(ovvia) adesione morale di “imam e guide religiose"». Liquida così la fatwa dell'Ucoii a un comunicato stampa. Che, inoltre, sempre secondo Iungo, «contribuisce ad acuire la confusione, tanto fra i fedeli, quanto in seno all'opinione pubblica, circa la natura dei riferimenti religiosi islamici». La conclusione trasforma in carta straccia la fatwa dell'Ucoii: «Ribadendo un'ovvietà (la proibizione del matrimonio forzato), e in assenza di circostanze inedite (nawàzil), questa dichiarazione risulta tecnicamente superflua». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/ucoii-incolpa-italia-saman-2653361916.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-sostenitori-dellislam-politico-usano-il-vittimismo-come-strategia" data-post-id="2653361916" data-published-at="1623539719" data-use-pagination="False"> «I sostenitori dell’islam politico usano il vittimismo come strategia» Lorenzo Vidino (Ansa) Lorenzo Vidino, direttore del Program on extremism della George Washington University, è uno dei maggiori studiosi italiani dell'islamismo, ed è particolarmente utile ascoltare la sua voce nel dibattito sul «caso Saman». Si ripropone la controversia: quanto c'entra la religione islamica con il probabile omicidio di Saman? «Non è questione di islam, ma di una certa interpretazione dell'islam, che in parte è culturale e in parte politica, e concepisce la donna come un soggetto asservito alla volontà dell'uomo. È un'interpretazione che esiste in due mondi, i quali a volte sono contigui e a volte no, ma che non sono minoritari. Uno è quello dell'islam rurale, molto conservatore, che comprende soprattutto persone con un livello di istruzione molto basso. Senza conoscere i dettagli, posso pensare che sia questo il mondo da cui arriva la famiglia di Saman. In qualche modo è una situazione simile a quella che si ritrovava un secolo fa o vari decenni fa in alcune zone d'Italia. Poi c'è un altro mondo: quello dell'islam politico. Ne fanno parte soggetti con istruzione ben più alta e che hanno una visione volutamente letteralista e conservatrice della religione. Parliamo di chi gravita nell'orbita dei Fratelli musulmani e dei salafiti». L'Ucoii ha emesso una fatwa contro i matrimoni forzati. Come valuta questo gesto? «Dobbiamo per forza partire da una certa ipocrisia che esiste in quel mondo. L'Ucoii e giornali online come La Luce (testata di cui è direttore editoriale Davide Piccardo, ndr) rappresentano un movimento eterogeneo, dove ovviamente non tutti la pensano allo stesso modo: esistono visioni e correnti diverse. Però possiamo dire che quel mondo è, almeno ideologicamente, legato alla Fratellanza musulmana». E questo che cosa comporta? «Significa che quel mondo ha sempre fatto riferimento a personaggi come Yusuf al-Qaradawi e alle fatwe emesse dal Consiglio europeo per la fatwa e la ricerca, che ha base a Dublino ma collabora con esperti da tutto il mondo. Tra le fatwe che ha emesso ce ne sono alcune che giustificano il marito che picchia la moglie se si taglia i capelli senza permesso o se esce con le amiche. Se questo è l'ambiente, è chiaro che suona un po' ipocrita la condanna di chi compie il passo successivo, e cioè di chi arriva magari all'omicidio». C'è un ritornello, nei discorsi dei rappresentanti di queste associazioni: «Le vere vittime siamo noi musulmani». È un problema questo atteggiamento? «È un problema di questa minoranza di islamisti, che è estremamente attiva e forte nel dibattito pubblico, che ha un approccio molto conservatore (per essere diplomatici) e strumentalizza ogni episodio a fini politici. Ecco la dinamica classi: avviene un attentato jihadista o un episodio come quello di Saman. Prima le associazioni condannano, perché non possono evitarlo. Poi però dicono: le vere vittime siamo noi. Iniziano a parlare di islamofobia ed entrano nel ruolo della vittima. È una strategia politica». E funziona? «Serve per parlare a due audience. La prima è la comunità musulmana, a cui queste associazioni dicono costantemente: l'Occidente vi odia, è contro di voi e non vi accetterà mai. Il messaggio è: siete sotto scacco e solo noi possiamo difendervi». L'altra audience? «L'establishment occidentale, che viene sempre accusato di islamofobia. Vero, esiste un odio antimusulmano. Però queste associazioni lo enfatizzano, lo ingigantiscono per creare una situazione in cui qualunque cosa si dica è islamofoba. Chiunque critica i musulmani o le organizzazioni islamiste viene considerato islamofobo. Sia chi dice davvero cose offensive sia chi fa analisi sofisticate». Come lei. Infatti la accusano, proprio in questi giorni sulla Luce, di essere islamofobo. «Ho letto l'articolo in questione, il giochetto retorico è chiaro. A livello europeo (ancora non molto in Italia, purtroppo), esiste una maggiore consapevolezza sull'islam politico. Tedeschi, francesi, austriaci e altri stanno in guardia rispetto all'islamismo, anche a quello non violento dei Fratelli musulmani, e prendono provvedimenti. Il gioco è far sembrare che sia tutta colpa di un islamofobo o due, cosa che pare difficilmente credibile. In realtà si tratta di una presa di coscienza importante che va aumentando».
Da domani in Arabia Saudita al via la final four. A inaugurare il torneo saranno Milan e Napoli, in campo giovedì (ore 20 italiane) per la prima semifinale. Venerdì tocca a Inter e Bologna contendersi un posto nella finalissima di lunedì 22 dicembre.
Il primo trofeo della stagione si assegna ancora una volta lontano dall’Italia. Da domani la Supercoppa entra nel vivo a Riyadh con la formula della final four: giovedì la semifinale tra Milan e Napoli, venerdì quella tra Inter e Bologna, lunedì 22 dicembre la finale che chiuderà il programma e consegnerà il titolo.
Riyadh si prepara ad accogliere di nuovo la Supercoppa italiana,. Tre partite secche, quattro squadre e una posta che va oltre il campo: Napoli, Inter, Milan e Bologna portano in Arabia Saudita storie diverse, ambizioni opposte e un equilibrio che negli ultimi anni ha reso la competizione meno scontata di quanto dicano le statistiche.
Il Napoli arriva da campione d’Italia, il Bologna da vincitore della Coppa Italia, l’Inter da seconda forza del campionato e il Milan da detentore del trofeo. È soltanto la terza edizione con il formato a quattro, ma è già sufficiente per raccontare una Supercoppa che ha cambiato volto: nelle ultime due stagioni hanno vinto squadre che non partivano con lo scudetto cucito sul petto, un’inversione rispetto a una tradizione che per decenni aveva premiato quasi sempre i campioni d’Italia.
Proprio il Milan è il simbolo di questo ribaltamento. Campioni in carica, i rossoneri hanno spezzato una serie di finali perse all’estero e hanno riscritto la storia della manifestazione vincendo prima da finalista di Coppa Italia e poi da seconda classificata in campionato. In Arabia Saudita tornano con l’obiettivo di agganciare la Juventus in vetta all’albo d’oro, dove oggi i bianconeri comandano con nove successi, uno in più di Inter e Milan.
Il primo incrocio, giovedì 18 dicembre, è contro il Napoli. Gli azzurri inseguono invece un ritorno al passato: l’ultima Supercoppa vinta risale al 2014, una finale rimasta negli archivi per durata e tensione. Da allora, tentativi falliti e una presenza costante tra semifinali e finali mancate. Per la squadra di Antonio Conte, il confronto con il Milan è anche un passaggio chiave per evitare una prima volta storica: mai la squadra campione d’Italia in carica è rimasta fuori dall’atto conclusivo della competizione.
Dall’altra parte del tabellone, Inter e Bologna. I nerazzurri sono ormai una presenza abituale nella Supercoppa a quattro, protagonisti nelle ultime due edizioni e detentori di record individuali che raccontano la continuità del loro percorso. Il Bologna, invece, vivrà un esordio assoluto: sarà il tredicesimo club a partecipare alla manifestazione, chiamato subito a misurarsi con una dimensione internazionale che rappresenta una novità anche simbolica per il club. Negli ultimi anni la Supercoppa si è decisa spesso senza supplementari e rigori, ma resta una competizione capace di ribaltare copioni già scritti. Lo dimostrano le rimonte, i gol decisivi negli ultimi minuti e una storia che, pur ricca di record individuali e panchine vincenti, continua a sorprendere.
Fuori dal campo, la tappa di Riyadh diventa anche una vetrina per il calcio italiano. La Lega Serie A ha annunciato iniziative dedicate all’inclusione di tifosi con disabilità sensoriali, che accompagneranno tutte le partite del torneo. Da un lato, l’utilizzo di una mappa tattile interattiva permetterà a tifosi ciechi e ipovedenti di seguire l’andamento della gara attraverso il tatto; dall’altro, magliette sensoriali trasformeranno i suoni dello stadio in vibrazioni per tifosi sordi. Un progetto che coinvolgerà complessivamente trenta spettatori per ciascuna iniziativa, inserendosi nel programma ufficiale della competizione.
A rappresentare visivamente la Supercoppa sarà invece il nuovo Trophy travel case, realizzato dal brand fiorentino Stefano Ricci. Un baule pensato per accompagnare il trofeo nelle tappe internazionali, simbolo di un’italianità che la Serie A continua a esportare all’estero, soprattutto in Medio Oriente, dove la Supercoppa si gioca per il quarto anno consecutivo.
Il calcio d’inizio è fissato. A Riyadh non si gioca soltanto una coppa, ma un racconto che intreccia campo, storia recente e immagine del calcio italiano nel mondo. E, come spesso accade in Supercoppa, i numeri potrebbero non bastare per spiegare come andrà a finire.
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(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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