2021-06-13
L’Ucoii incolpa l’Italia per la fine di Saman
Il presidente dell'Ucoii, Yassine Lafram (Ansa)
Per il presidente dell'Unione delle comunità islamiche, le responsabilità della scomparsa della giovane sono delle nostre istituzioni, ree di non averla protetta. E derubrica la probabile uccisione a «femminicidio dettato dal contesto patriarcale».L'esperto Lorenzo Vidino: «Enfatizzando l'odio antimusulmano, ogni critica viene definita islamofoba».Lo speciale contiene due articoli.La fatwa, una condanna religiosa, che molti hanno interpretato come un segnale positivo da parte dell'associazione islamica, emessa per condannare il «matrimonio forzato», spregevole pratica alla quale la povera Saman Abbas voleva sfuggire e che con tutta probabilità le è costata la vita, rischia di trasformarsi in una bomba innescata nella comunità musulmana in Italia. E a ribadire la posizione dell'Ucoii, l'Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, che la fatwa l'ha emanata, dopo le dichiarazioni che da qualche giorno va rilasciando Nadia Bouzekri, la vicepresidente dell'associazione, che sta cercando di far passare l'idea che l'islam non c'entri nulla («La religione non c'entra e nemmeno la cultura», ha detto al Corriere della Sera), ieri è sceso in campo anche il presidente Yassine Lafram. «l'islam non c'entra», ha ribadito Lafram, originario di Casablanca, alla guida dell'Ucoii, in un'intervista all'Agi, «ed è evidente che ci sono state delle falle nel protocollo d'intervento e su queste dobbiamo intervenire subito». Ma qual è il protocollo d'intervento? «Ragioniamo in primis su chi aveva il dovere di monitorare e salvaguardare Saman, soprattutto dopo le denunce», ha sottolineato Lafram, scaricando sulle istituzioni italiane. E aggiunge: «Poi c'è una responsabilità più ampia spartita sulla nostra società e qui ognuno ha il dovere di riflettere su come meglio aumentare la propria azione affinché non ci siano più altre Saman». E infine ha tirato fuori una teoria che ricalca le più recenti boldrinate: «Siamo di fronte a un femminicidio vero e proprio, che tenta di prendere una veste religiosa senza riuscirci, dettato dal contesto patriarcale, e dalla cultura del possesso maschile sulle donne, che è trasversale a tutte le culture». Per i vertici dell'Ucoii, insomma, seguire la pista religiosa trasformerebbe il caso in un femminicidio di serie B. Ma è proprio derubricandolo a femminicidio che il caso di Saman rischia di non essere inserito nel giusto contesto, come l'inchiesta giudiziaria sta dimostrando. D'altra parte la posizione dell'Ucoii è stata criticata addirittura da chi sembra avere delle posizioni perfino più oltranziste e che da tempo si occupa di contrastare quella che definiscono «islamofobia»: il bollettino di informazione online La Luce news. Ibrahim Gabriele Iungo, che in un precedente articolo si era occupato della conquista di Costantinopoli e della salvaguardia ottomana della cultura bizantina, ha fornito il suo punto di vista sulla fatwa per Saman. E sostiene che della fatwa «sono apprezzabili la buone intenzioni e la sostanza dei contenuti, ma le criticità risultano maggiori dei benefici». Per spiegarsi, Iungo usa le parole del muftì (che nel mondo islamico è un dotto autorizzato a emettere responsi in materia giuridica e teologica) Shaykh Muhammad al Yaqoubi, che definisce un «sapiente giurisperito (faqìh)»: «Mentre la sentenza (qadà') di un giudice non si può respingere, se non appellandosi ad un nuovo giudizio, il parere (fatwa) di un muftì può essere accolto o meno: [...] esso non implica per nessuno l'obbligatorietà della sua applicazione, ed a ciascuno è lasciata la libertà di accoglierlo o meno, a seconda del suo timor di Dio». Poi sostiene: «Il muftì che in un Paese occidentale si pronunci, non solo in termini informativi, bensì con pretese di efficacia giuridica, rispetto a questioni come il divorzio o controversie commerciali fra fedeli musulmani sbaglia, poiché assume il ruolo del giudice senza averne la facoltà (sultàn); la sua responsabilità è piuttosto quella di consigliare e edificare spiritualmente i fedeli». E ancora: [...] Chi agisca diversamente sbaglia, collocando la fatwa in una posizione che non è la propria, eccedendo i propri limiti, ed arrogandosi prerogative che non gli spettano - facendo sì che la fatwa divenga un nuovo motivo di confusione e controversia, anziché uno strumento di conciliazione». Nelle sue conclusioni, Iungo boccia definitivamente la fatwa per Saman con questi argomenti: «Non essendo sottoscritto da alcuna autorità sapienziale (muftì) od organismo giuridico specializzato (darul-iftà'), né afferendo ad alcuna specifica scuola giuridica tradizionale (madhhab), che, oltre a costituire un riferimento immediatamente riconoscibile per i fedeli, ne garantirebbe autorevolezza tradizionale e consistenza metodologica, questo documento costituisce di fatto una sorta di comunicato stampa, pur avvalorato dall'(ovvia) adesione morale di “imam e guide religiose"». Liquida così la fatwa dell'Ucoii a un comunicato stampa. Che, inoltre, sempre secondo Iungo, «contribuisce ad acuire la confusione, tanto fra i fedeli, quanto in seno all'opinione pubblica, circa la natura dei riferimenti religiosi islamici». La conclusione trasforma in carta straccia la fatwa dell'Ucoii: «Ribadendo un'ovvietà (la proibizione del matrimonio forzato), e in assenza di circostanze inedite (nawàzil), questa dichiarazione risulta tecnicamente superflua». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/ucoii-incolpa-italia-saman-2653361916.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-sostenitori-dellislam-politico-usano-il-vittimismo-come-strategia" data-post-id="2653361916" data-published-at="1623539719" data-use-pagination="False"> «I sostenitori dell’islam politico usano il vittimismo come strategia» Lorenzo Vidino (Ansa) Lorenzo Vidino, direttore del Program on extremism della George Washington University, è uno dei maggiori studiosi italiani dell'islamismo, ed è particolarmente utile ascoltare la sua voce nel dibattito sul «caso Saman». Si ripropone la controversia: quanto c'entra la religione islamica con il probabile omicidio di Saman? «Non è questione di islam, ma di una certa interpretazione dell'islam, che in parte è culturale e in parte politica, e concepisce la donna come un soggetto asservito alla volontà dell'uomo. È un'interpretazione che esiste in due mondi, i quali a volte sono contigui e a volte no, ma che non sono minoritari. Uno è quello dell'islam rurale, molto conservatore, che comprende soprattutto persone con un livello di istruzione molto basso. Senza conoscere i dettagli, posso pensare che sia questo il mondo da cui arriva la famiglia di Saman. In qualche modo è una situazione simile a quella che si ritrovava un secolo fa o vari decenni fa in alcune zone d'Italia. Poi c'è un altro mondo: quello dell'islam politico. Ne fanno parte soggetti con istruzione ben più alta e che hanno una visione volutamente letteralista e conservatrice della religione. Parliamo di chi gravita nell'orbita dei Fratelli musulmani e dei salafiti». L'Ucoii ha emesso una fatwa contro i matrimoni forzati. Come valuta questo gesto? «Dobbiamo per forza partire da una certa ipocrisia che esiste in quel mondo. L'Ucoii e giornali online come La Luce (testata di cui è direttore editoriale Davide Piccardo, ndr) rappresentano un movimento eterogeneo, dove ovviamente non tutti la pensano allo stesso modo: esistono visioni e correnti diverse. Però possiamo dire che quel mondo è, almeno ideologicamente, legato alla Fratellanza musulmana». E questo che cosa comporta? «Significa che quel mondo ha sempre fatto riferimento a personaggi come Yusuf al-Qaradawi e alle fatwe emesse dal Consiglio europeo per la fatwa e la ricerca, che ha base a Dublino ma collabora con esperti da tutto il mondo. Tra le fatwe che ha emesso ce ne sono alcune che giustificano il marito che picchia la moglie se si taglia i capelli senza permesso o se esce con le amiche. Se questo è l'ambiente, è chiaro che suona un po' ipocrita la condanna di chi compie il passo successivo, e cioè di chi arriva magari all'omicidio». C'è un ritornello, nei discorsi dei rappresentanti di queste associazioni: «Le vere vittime siamo noi musulmani». È un problema questo atteggiamento? «È un problema di questa minoranza di islamisti, che è estremamente attiva e forte nel dibattito pubblico, che ha un approccio molto conservatore (per essere diplomatici) e strumentalizza ogni episodio a fini politici. Ecco la dinamica classi: avviene un attentato jihadista o un episodio come quello di Saman. Prima le associazioni condannano, perché non possono evitarlo. Poi però dicono: le vere vittime siamo noi. Iniziano a parlare di islamofobia ed entrano nel ruolo della vittima. È una strategia politica». E funziona? «Serve per parlare a due audience. La prima è la comunità musulmana, a cui queste associazioni dicono costantemente: l'Occidente vi odia, è contro di voi e non vi accetterà mai. Il messaggio è: siete sotto scacco e solo noi possiamo difendervi». L'altra audience? «L'establishment occidentale, che viene sempre accusato di islamofobia. Vero, esiste un odio antimusulmano. Però queste associazioni lo enfatizzano, lo ingigantiscono per creare una situazione in cui qualunque cosa si dica è islamofoba. Chiunque critica i musulmani o le organizzazioni islamiste viene considerato islamofobo. Sia chi dice davvero cose offensive sia chi fa analisi sofisticate». Come lei. Infatti la accusano, proprio in questi giorni sulla Luce, di essere islamofobo. «Ho letto l'articolo in questione, il giochetto retorico è chiaro. A livello europeo (ancora non molto in Italia, purtroppo), esiste una maggiore consapevolezza sull'islam politico. Tedeschi, francesi, austriaci e altri stanno in guardia rispetto all'islamismo, anche a quello non violento dei Fratelli musulmani, e prendono provvedimenti. Il gioco è far sembrare che sia tutta colpa di un islamofobo o due, cosa che pare difficilmente credibile. In realtà si tratta di una presa di coscienza importante che va aumentando».
Giorgia Meloni e Donald Trump (Getty Images)
il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi (Ansa)
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