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2018-09-01
Tutti i vescovi legati a McCarrick hanno fatto guerra ai conservatori
Ansa
Si potrebbe provare a leggere il memoriale Viganò, e anche il silenzio di Bergoglio sulla veridicità o meno dello stesso, in questo modo: nel dialogo tra l'ex nunzio e papa Francesco, riguardo al cardinale Theodore McCarrick, il Pontefice si trova spiazzato, perché da una parte sospetta di lui (non è detto che abbia alcuna prova), dall'altra gli è grato, sebbene non direttamente. La sua domanda, «McCarrick com'è?», può nascondere proprio questo scrupolo: Bergoglio sa di dovergli, in parte, l'elezione, ma conosce anche i sospetti su di lui.
Perché il Papa poteva essere grato a McCarrick, ma «non direttamente»? Semplicemente perché il cardinale ha partecipato agli incontri pre conclave, ma non al conclave stesso, dove però sembra essere stato protagonista un suo pupillo, il cardinale Donald Wuerl, che nel 2006 aveva sostituito proprio McCarrick come arcivescovo di Washington. Se rileggiamo alcune ricostruzioni del conclave del 2013, come quella del vaticanista di Repubblica Paolo Rodari (15 marzo 2013), troviamo questa affermazione: «Insieme agli italiani (sodaniani e bertoniani, ndr) anche gli americani», sono stati «spinti su Bergoglio dal loro principale Pope Maker: l'arcivescovo di Washington Donald Wuerl». Anche alcuni giornalisti americani all'epoca presentarono Wuerl, se non come il «Pope Maker», come uno di essi.
Questo aiuta a capire un passaggio successivo: papa da soli sette mesi, Bergoglio rimuove dall'importantissima congregazione dei vescovi il cardinale Raymond Burke (forse uno degli americani che non lo avevano votato? Certamente un vescovo molto lontano da Wuerl) e vi mette proprio Donald Wuerl. Il seguito è noto: i pupilli di McCarrick, cioè Kevin Farrell, Joseph William Tobin, Blase Cupich, tutte personalità inclini a un dialogo stretto con il mondo Lgbt e favorevoli ad Amoris laetitia, vengono nominati cardinali. Chi li ha segnalati a Francesco? Forse non il cardinale omosessuale e abusatore McCarrick, ma il suo fedelissimo Wuerl. Che dunque può essere stato il tramite, più «presentabile» e credibile.
Un ulteriore dettaglio: Viganò scrive che il Papa, incontrandolo nel giugno 2013, subito lo «investì con tono di rimprovero con queste parole: “I vescovi degli Stati Uniti non devono essere ideologizzati! Devono essere pastori!"».
Il video dell'incontro sembra dare ragione a Viganò. Infatti, dopo un veloce saluto di circostanza, mostra Bergoglio che afferma: «Ma negli Stati Uniti…». Poi il video si ferma. Quel «ma» deciso, all'inizio del colloquio, sembra indicare che per Francesco qualcosa negli Usa non va. Poco dopo, come detto, le nomine cambieranno direzione, rispetto all'epoca di Benedetto XVI, e verranno promossi per lo più vescovi «liberal», come i cardinali già citati, a discapito dei «conservatori».
Commentando l'esclusione di Burke e la nomina di Wuerl alla congregazione dei vescovi, il vaticanista dell'Espresso Sandro Magister il 20 dicembre 2013 scrive: «Al posto di Burke il Papa ha scelto Wuerl, che […] ha un atteggiamento molto più morbido di Burke nei confronti dei politici pro aborto. Questo cambiamento è stato salutato positivamente nel mondo “liberal" americano, che ora spera nella scelta di vescovi più progressisti rispetto a quelli nominati negli ultimi anni».
Analoga la linea adottata in Italia: basti ricordare che uno dei primi discorsi di monsignor Nunzio Galantino, scelto da Bergoglio come segretario della Cei, fu contro le persone che pregano davanti agli ospedali contro l'aborto, mentre buona parte del suo impegno successivo è stato per boicottare i due Family day contro il gender, l'utero in affitto e la legge Cirinnà, in discontinuità con l'azione della Cei di Camillo Ruini e Angelo Bagnasco.
Infine, una curiosità: in seguito alla pubblicazione dei famosi Dubia, Wuerl lanciò l'idea che forse era il caso, per Burke, di rinunciare alla berretta cardinalizia, facendo un paragone piuttosto esplicito con quanto avvenuto ai tempi di Pio XI con Louis Billot. Subito diversi giornalisti italiani e non, tra cui Andrea Tornielli e Alberto Melloni, rilanciarono molto misericordiosamente la proposta, fingendo di ignorare quanti sono stati nella storia della Chiesa gli scontri tra pontefici e alti ecclesiastici, a partire da San Pietro e San Paolo.
Oggi Burke conserva la sua berretta, mentre l'ha persa, perché considerato colpevole, il padrino di Wuerl, McCarrick. Di più, sia Wuerl che Farrell sono al centro di una campagna mediatica fortissima, alimentata dagli stessi cattolici e anche da giornali «liberal» americani, che ne chiedono le dimissioni da cardinale, in nome dell'intima vicinanza dei due a McCarrick e dei risultati del rapporto del grand jury della Pennsylvania, secondo il quale Wuerl, quando era vescovo di Pittsburgh, «trasferì e spostò preti che avevano abusato di adolescenti maschi, nascondendo le notizie alle autorità civili e addirittura pagando uno di loro perché tacesse».
Stefano Agnoli
Il cardinale dà del «sicario» al giornalista
75 anni, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del gruppo di 9 cardinali che coadiuva Francesco nel governo della Chiesa.
Intervistato dalla testata in lingua spagnola Periodista digital, Maradiaga ha risposto alla domanda sul caso Viganò e le accuse che lo riguardano nel memoriale dell'ex nunzio negli Stati Uniti. Da «circa tre anni», ha detto, «sono vittima di un “sicario" che pratica molestie sui media. Il suo nome è Edward Pentin e lavora per un giornale della rete Ewt chiamato National Catholic Register». Si dà il caso che il Register sia uno dei media che domenica scorsa, insieme alla Verità, ha diffuso il memoriale di Viganò, perciò il riferimento al «sicario» potrebbe voler dire che per il cardinale tutto il dossier si riduce a una operazione dei soliti nemici. Penne al servizio di chissà chi e dedite non all'informazione, ma alla demolizione prezzolata dell'avversario. È una narrazione (non dimostrata) che va per la maggiore sul caso Viganò, sostenuta da tanti media paravaticani che tirano in ballo poteri forti statunitensi, piogge di dollari e magari, aggiungiamo noi, anche James Bond.
Maradiaga si difende dal «sicario» Pentin e ne mette in discussione la professionalità: «Non ho mai parlato con lui», dice, «ma ha usato la “diffamazione anonima" che è stata pubblicata da un altro “sicario" honduregno in un giornale locale che costantemente mi insulta e mi calunnia. Chi sono io, arcivescovo di una piccola diocesi e un piccolo Paese per apparire diffamato nella stampa mondiale, senza possibilità di difendermi?».
Sarà anche piccola, la diocesi di Tegucigalpa, ma sembra ben attrezzata in quanto a mezzi finanziari, visto che una della questioni sollevate da Pentin sul conto di Maradiaga riguarda la fine che ha fatto una sovvenzione caritatevole di 1,3 milioni di dollari che il vescovo ausiliare del cardinale, José Pineda Fasquelle, ha ottenuto dal governo dell'Honduras, ma che non è mai stata resa nota. Pineda, 57 anni, ha visto le proprie dimissioni accettate da papa Francesco lo scorso 20 luglio, dopo un'indagine che il Vaticano ha condotto per mano del vescovo argentino Alcides Casaretto. Le accuse al braccio destro di Maradiaga (Pineda era suo ausiliare dal 2005) riguardano sia cattiva e opaca gestione finanziaria che comportamenti sessuali inappropriati anche con giovani seminaristi. Su questa faccenda il «sicario» Pentin ha avuto l'ardire di porre una domanda: cosa può dire il cardinale Maradiaga a proposito del suo ausiliare? Era a conoscenza di queste situazioni?
Inoltre, il «sicario» ha reso nota una lettera scritta da 48 seminaristi su 180 iscritti nel seminario della diocesi di Maradiaga. «Stiamo vivendo e sperimentando», hanno scritto, «un tempo di tensione nella nostra casa a causa di situazioni gravemente immorali, soprattutto di omosessualità attiva all'interno del seminario», cosa che evidentemente è in contrasto con le attuali norme della Chiesa rispetto all'ingresso nelle case di formazione. La cosa, denunciano i seminaristi ai loro insegnanti, andrebbe avanti da tempo, tanto che «per il fatto di aver insabbiato e penalizzato questa situazione, il problema si è rafforzato, diventando, come un sacerdote ha detto non molto tempo fa, una “epidemia nel seminario"». La lettera ha fatto seguito anche al fallito tentativo di suicidio di un seminarista della diocesi honduregna di Santa Rosa de Copán, il quale aveva scoperto che il suo amante nel seminario era impegnato in un'altra relazione.
Pentin sostiene anche di avere in mano «prove fotografiche di pornografia omosessuale, scambiate su Whatsapp tra seminaristi che non hanno firmato la lettera». I messaggi «sono stati verificati come autentici da specialisti informatici presso l'Università cattolica dell'Honduras che hanno perquisito la memoria del computer e hanno consegnato gli scambi ai vescovi del Paese». Il tutto sarebbe poi stato discusso dai vescovi che hanno respinto le accuse, sebbene abbiano riconosciuto che c'è una «fragilità affettiva e sessuale che ci colpisce tutti e che può generare atteggiamenti e comportamenti inappropriati». Maradiaga da parte sua avrebbe liquidato la lettera e le notizie di Pentin come «chiacchiere». E ora accusa di killeraggio un giornalista che non rinuncia a fare il proprio mestiere. Il cardinale dice di non avere avuto dal «sicario» la possibilità di difendersi, ma forse non la racconta tutta. Ha dichiarato Pentin all'inglese Catholic Herald: «Ho scritto al cardinale quattro volte quest'anno chiedendogli di commentare tutti questi problemi e di dare la sua versione della storia, invitandolo anche a incontrarmi quando fosse passato qui a Roma. Un collega che ha collaborato con me lo ha contattato in diverse occasioni per un commento. Tutte queste richieste non hanno mai avuto risposta».
Eppure il cardinale ha già mostrato di conoscere la deontologia professionale dei cronisti. Emiliano Fittipaldi aveva tirato in ballo Maradiaga sul settimanale L'Espresso sul finire del 2017 per una prebenda di 35.000 euro ricevuta mensilmente, per anni, dall'Università cattolica dell'Honduras, dove il porporato era gran cancelliere, ma soprattutto per alcune manovre intorno a grandi somme di denaro della diocesi girate a finanziarie londinesi e di cui si sarebbero perse le tracce, oltre che per un'inchiesta della Corte dei conti dell'Honduras condotta sui bilanci della diocesi per il periodo 2012-2014. Dopo quella inchiesta giornalistica il Papa telefonò a Maradiaga per sostenerlo, e lui poi dichiarò alla Stampa la sua completa innocenza: «È tutta una calunnia», pubblicata da «un giornalista con poca etica». Perché, aggiunse Maradiaga, «una regola di base dell'etica professionale del comunicatore è che quando si tratta di diffondere qualcosa che riguarda una persona bisogna fare prima lo sforzo di parlare con essa».
A questo punto però anche a noi abbiamo una domanda da fare al cardinale esperto di comunicazione: se Fittipaldi era colpevole di non averla interpellata, perché Pentin il «sicario», che dichiara di averle scritto quattro volte e quindi di aver fatto «lo sforzo» di parlare con lei, non ha mai ricevuto risposta? Il rapporto tra prelati e giornalisti ultimamente è davvero problematico. Se non si fanno domande non si segue l'etica professionale, ma se si fanno domande non si riceve risposta.
Lorenzo Bertocchi
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Il documento di Carlo Maria Viganò illumina le ragioni della svolta «liberal» impressa da Francesco alla Chiesa Usa A partire dalla sostituzione di Raymond Burke, firmatario dei Dubia, con Donald William Wuerl, pupillo del porporato molestatore.L'honduregno Oscar Rodriguez Maradiaga, accusato anche dalla testimonianza dell'ex nunzio, insulta un cronista perché scrive degli scandali gay che lo circondano a Tegucigalpa. Ma una lettera di 48 seminaristi della sua diocesi conferma: qui l'omosessualità è una «epidemia».Lo speciale contiene due articoliSi potrebbe provare a leggere il memoriale Viganò, e anche il silenzio di Bergoglio sulla veridicità o meno dello stesso, in questo modo: nel dialogo tra l'ex nunzio e papa Francesco, riguardo al cardinale Theodore McCarrick, il Pontefice si trova spiazzato, perché da una parte sospetta di lui (non è detto che abbia alcuna prova), dall'altra gli è grato, sebbene non direttamente. La sua domanda, «McCarrick com'è?», può nascondere proprio questo scrupolo: Bergoglio sa di dovergli, in parte, l'elezione, ma conosce anche i sospetti su di lui. Perché il Papa poteva essere grato a McCarrick, ma «non direttamente»? Semplicemente perché il cardinale ha partecipato agli incontri pre conclave, ma non al conclave stesso, dove però sembra essere stato protagonista un suo pupillo, il cardinale Donald Wuerl, che nel 2006 aveva sostituito proprio McCarrick come arcivescovo di Washington. Se rileggiamo alcune ricostruzioni del conclave del 2013, come quella del vaticanista di Repubblica Paolo Rodari (15 marzo 2013), troviamo questa affermazione: «Insieme agli italiani (sodaniani e bertoniani, ndr) anche gli americani», sono stati «spinti su Bergoglio dal loro principale Pope Maker: l'arcivescovo di Washington Donald Wuerl». Anche alcuni giornalisti americani all'epoca presentarono Wuerl, se non come il «Pope Maker», come uno di essi.Questo aiuta a capire un passaggio successivo: papa da soli sette mesi, Bergoglio rimuove dall'importantissima congregazione dei vescovi il cardinale Raymond Burke (forse uno degli americani che non lo avevano votato? Certamente un vescovo molto lontano da Wuerl) e vi mette proprio Donald Wuerl. Il seguito è noto: i pupilli di McCarrick, cioè Kevin Farrell, Joseph William Tobin, Blase Cupich, tutte personalità inclini a un dialogo stretto con il mondo Lgbt e favorevoli ad Amoris laetitia, vengono nominati cardinali. Chi li ha segnalati a Francesco? Forse non il cardinale omosessuale e abusatore McCarrick, ma il suo fedelissimo Wuerl. Che dunque può essere stato il tramite, più «presentabile» e credibile.Un ulteriore dettaglio: Viganò scrive che il Papa, incontrandolo nel giugno 2013, subito lo «investì con tono di rimprovero con queste parole: “I vescovi degli Stati Uniti non devono essere ideologizzati! Devono essere pastori!"».Il video dell'incontro sembra dare ragione a Viganò. Infatti, dopo un veloce saluto di circostanza, mostra Bergoglio che afferma: «Ma negli Stati Uniti…». Poi il video si ferma. Quel «ma» deciso, all'inizio del colloquio, sembra indicare che per Francesco qualcosa negli Usa non va. Poco dopo, come detto, le nomine cambieranno direzione, rispetto all'epoca di Benedetto XVI, e verranno promossi per lo più vescovi «liberal», come i cardinali già citati, a discapito dei «conservatori».Commentando l'esclusione di Burke e la nomina di Wuerl alla congregazione dei vescovi, il vaticanista dell'Espresso Sandro Magister il 20 dicembre 2013 scrive: «Al posto di Burke il Papa ha scelto Wuerl, che […] ha un atteggiamento molto più morbido di Burke nei confronti dei politici pro aborto. Questo cambiamento è stato salutato positivamente nel mondo “liberal" americano, che ora spera nella scelta di vescovi più progressisti rispetto a quelli nominati negli ultimi anni».Analoga la linea adottata in Italia: basti ricordare che uno dei primi discorsi di monsignor Nunzio Galantino, scelto da Bergoglio come segretario della Cei, fu contro le persone che pregano davanti agli ospedali contro l'aborto, mentre buona parte del suo impegno successivo è stato per boicottare i due Family day contro il gender, l'utero in affitto e la legge Cirinnà, in discontinuità con l'azione della Cei di Camillo Ruini e Angelo Bagnasco.Infine, una curiosità: in seguito alla pubblicazione dei famosi Dubia, Wuerl lanciò l'idea che forse era il caso, per Burke, di rinunciare alla berretta cardinalizia, facendo un paragone piuttosto esplicito con quanto avvenuto ai tempi di Pio XI con Louis Billot. Subito diversi giornalisti italiani e non, tra cui Andrea Tornielli e Alberto Melloni, rilanciarono molto misericordiosamente la proposta, fingendo di ignorare quanti sono stati nella storia della Chiesa gli scontri tra pontefici e alti ecclesiastici, a partire da San Pietro e San Paolo. Oggi Burke conserva la sua berretta, mentre l'ha persa, perché considerato colpevole, il padrino di Wuerl, McCarrick. Di più, sia Wuerl che Farrell sono al centro di una campagna mediatica fortissima, alimentata dagli stessi cattolici e anche da giornali «liberal» americani, che ne chiedono le dimissioni da cardinale, in nome dell'intima vicinanza dei due a McCarrick e dei risultati del rapporto del grand jury della Pennsylvania, secondo il quale Wuerl, quando era vescovo di Pittsburgh, «trasferì e spostò preti che avevano abusato di adolescenti maschi, nascondendo le notizie alle autorità civili e addirittura pagando uno di loro perché tacesse».Stefano Agnoli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tutti-i-vescovi-legati-a-mccarrick-hanno-fatto-guerra-ai-conservatori-2600814638.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-cardinale-da-del-sicario-al-giornalista" data-post-id="2600814638" data-published-at="1767108068" data-use-pagination="False"> Il cardinale dà del «sicario» al giornalista 75 anni, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del gruppo di 9 cardinali che coadiuva Francesco nel governo della Chiesa. Intervistato dalla testata in lingua spagnola Periodista digital, Maradiaga ha risposto alla domanda sul caso Viganò e le accuse che lo riguardano nel memoriale dell'ex nunzio negli Stati Uniti. Da «circa tre anni», ha detto, «sono vittima di un “sicario" che pratica molestie sui media. Il suo nome è Edward Pentin e lavora per un giornale della rete Ewt chiamato National Catholic Register». Si dà il caso che il Register sia uno dei media che domenica scorsa, insieme alla Verità, ha diffuso il memoriale di Viganò, perciò il riferimento al «sicario» potrebbe voler dire che per il cardinale tutto il dossier si riduce a una operazione dei soliti nemici. Penne al servizio di chissà chi e dedite non all'informazione, ma alla demolizione prezzolata dell'avversario. È una narrazione (non dimostrata) che va per la maggiore sul caso Viganò, sostenuta da tanti media paravaticani che tirano in ballo poteri forti statunitensi, piogge di dollari e magari, aggiungiamo noi, anche James Bond. Maradiaga si difende dal «sicario» Pentin e ne mette in discussione la professionalità: «Non ho mai parlato con lui», dice, «ma ha usato la “diffamazione anonima" che è stata pubblicata da un altro “sicario" honduregno in un giornale locale che costantemente mi insulta e mi calunnia. Chi sono io, arcivescovo di una piccola diocesi e un piccolo Paese per apparire diffamato nella stampa mondiale, senza possibilità di difendermi?». Sarà anche piccola, la diocesi di Tegucigalpa, ma sembra ben attrezzata in quanto a mezzi finanziari, visto che una della questioni sollevate da Pentin sul conto di Maradiaga riguarda la fine che ha fatto una sovvenzione caritatevole di 1,3 milioni di dollari che il vescovo ausiliare del cardinale, José Pineda Fasquelle, ha ottenuto dal governo dell'Honduras, ma che non è mai stata resa nota. Pineda, 57 anni, ha visto le proprie dimissioni accettate da papa Francesco lo scorso 20 luglio, dopo un'indagine che il Vaticano ha condotto per mano del vescovo argentino Alcides Casaretto. Le accuse al braccio destro di Maradiaga (Pineda era suo ausiliare dal 2005) riguardano sia cattiva e opaca gestione finanziaria che comportamenti sessuali inappropriati anche con giovani seminaristi. Su questa faccenda il «sicario» Pentin ha avuto l'ardire di porre una domanda: cosa può dire il cardinale Maradiaga a proposito del suo ausiliare? Era a conoscenza di queste situazioni? Inoltre, il «sicario» ha reso nota una lettera scritta da 48 seminaristi su 180 iscritti nel seminario della diocesi di Maradiaga. «Stiamo vivendo e sperimentando», hanno scritto, «un tempo di tensione nella nostra casa a causa di situazioni gravemente immorali, soprattutto di omosessualità attiva all'interno del seminario», cosa che evidentemente è in contrasto con le attuali norme della Chiesa rispetto all'ingresso nelle case di formazione. La cosa, denunciano i seminaristi ai loro insegnanti, andrebbe avanti da tempo, tanto che «per il fatto di aver insabbiato e penalizzato questa situazione, il problema si è rafforzato, diventando, come un sacerdote ha detto non molto tempo fa, una “epidemia nel seminario"». La lettera ha fatto seguito anche al fallito tentativo di suicidio di un seminarista della diocesi honduregna di Santa Rosa de Copán, il quale aveva scoperto che il suo amante nel seminario era impegnato in un'altra relazione. Pentin sostiene anche di avere in mano «prove fotografiche di pornografia omosessuale, scambiate su Whatsapp tra seminaristi che non hanno firmato la lettera». I messaggi «sono stati verificati come autentici da specialisti informatici presso l'Università cattolica dell'Honduras che hanno perquisito la memoria del computer e hanno consegnato gli scambi ai vescovi del Paese». Il tutto sarebbe poi stato discusso dai vescovi che hanno respinto le accuse, sebbene abbiano riconosciuto che c'è una «fragilità affettiva e sessuale che ci colpisce tutti e che può generare atteggiamenti e comportamenti inappropriati». Maradiaga da parte sua avrebbe liquidato la lettera e le notizie di Pentin come «chiacchiere». E ora accusa di killeraggio un giornalista che non rinuncia a fare il proprio mestiere. Il cardinale dice di non avere avuto dal «sicario» la possibilità di difendersi, ma forse non la racconta tutta. Ha dichiarato Pentin all'inglese Catholic Herald: «Ho scritto al cardinale quattro volte quest'anno chiedendogli di commentare tutti questi problemi e di dare la sua versione della storia, invitandolo anche a incontrarmi quando fosse passato qui a Roma. Un collega che ha collaborato con me lo ha contattato in diverse occasioni per un commento. Tutte queste richieste non hanno mai avuto risposta». Eppure il cardinale ha già mostrato di conoscere la deontologia professionale dei cronisti. Emiliano Fittipaldi aveva tirato in ballo Maradiaga sul settimanale L'Espresso sul finire del 2017 per una prebenda di 35.000 euro ricevuta mensilmente, per anni, dall'Università cattolica dell'Honduras, dove il porporato era gran cancelliere, ma soprattutto per alcune manovre intorno a grandi somme di denaro della diocesi girate a finanziarie londinesi e di cui si sarebbero perse le tracce, oltre che per un'inchiesta della Corte dei conti dell'Honduras condotta sui bilanci della diocesi per il periodo 2012-2014. Dopo quella inchiesta giornalistica il Papa telefonò a Maradiaga per sostenerlo, e lui poi dichiarò alla Stampa la sua completa innocenza: «È tutta una calunnia», pubblicata da «un giornalista con poca etica». Perché, aggiunse Maradiaga, «una regola di base dell'etica professionale del comunicatore è che quando si tratta di diffondere qualcosa che riguarda una persona bisogna fare prima lo sforzo di parlare con essa». A questo punto però anche a noi abbiamo una domanda da fare al cardinale esperto di comunicazione: se Fittipaldi era colpevole di non averla interpellata, perché Pentin il «sicario», che dichiara di averle scritto quattro volte e quindi di aver fatto «lo sforzo» di parlare con lei, non ha mai ricevuto risposta? Il rapporto tra prelati e giornalisti ultimamente è davvero problematico. Se non si fanno domande non si segue l'etica professionale, ma se si fanno domande non si riceve risposta. Lorenzo Bertocchi
Ansa
Ieri abbiamo raccontato che ha intestati circa 90 immobili acquistati alle aste giudiziarie senza dover accendere mutui. Ora La Verità è in grado di svelare che Abu Rawwa per operare ha aperto un’agenzia immobiliare e investe insieme a un giovane palestinese che appartiene a una famiglia molto religiosa e molto attiva nella difesa della causa palestinese. Ben 12 dei 90 immobili di cui è diventato proprietario per via giudiziaria Abu Rawwa, infatti, sono cointestati (al 50%) con Osama Qasim. Otto sono appartamenti. Alloggi residenziali inseriti nello stesso stabile, con metrature diverse e distribuiti su più piani. Blocchi compatti di unità abitative spalmati su tre strade dello stesso comune della provincia di Reggio Emilia: Castellarano.
Il resto delle proprietà non è abitativo. Ci sono due locali di servizio: accessori funzionali alle case. Gli ultimi due immobili sono strutture non ancora definite, volumi ampi, uno dei quali particolarmente esteso: 603 metri quadri. Entrambi i locali non sono pronti per essere abitati, né sono destinati a un uso immediato. Sono spazi da completare o da trasformare. Un’operazione da immobiliaristi.
Abu Rawwa e Qasim compaiono in visure camerali diverse. Il primo è amministratore unico e socio al 100% dell’Immobiliare My home srls, impresa costituita il 6 dicembre 2023 e iscritta al Registro imprese di Modena il 13 dicembre di quello stesso anno. Capitale sociale da 2.000 euro. Attività dichiarata: «Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri», con una specificazione ampia che comprende edifici residenziali, non residenziali, strutture commerciali e terreni. La sede legale è a Sassuolo, in circonvallazione Nord Est. Un solo addetto risultante dai dati Inps.
Osama Qasim, nato a Sassuolo il 3 febbraio 1993, è invece amministratore unico della Qasim srls, società costituita il 24 maggio 2022 con capitale sociale da 3.000 euro. Anche qui l’attività prevalente è immobiliare: «Compravendita di beni immobili effettuata su beni propri». La sede è sempre a Sassuolo, in circonvallazione Nord Est, ma il civico è differente. I soci sono tre: Osama (che è il legale rappresentante e nel frattempo gestisce anche una società di ristorazione a Modena) detiene il 20%, Khawla Ghannam (60 anni), la mamma, il 60%, e Zahi Qasim (62 anni), il papà, il 20%. Un nucleo familiare di cui si sono interessati, negli anni, numerosi giornalisti ma anche la polizia. Su Internet si trova ancora un articolo dell’Herald tribune sulla famiglia Qasim, ripreso in Italia dal Secolo XIX, proprio il giornale di Genova. Risale a 20 anni fa, ma è molto interessante. Anche perché ci racconta che la famiglia di Osama è molto religiosa e ha ricevuto nel tempo anche la visita della polizia italiana dopo alcuni attentati dei tagliagole islamici.
Il padre, Zahi, classe 1963, all’epoca era caposquadra in fabbrica a Sassuolo ed era già «uno degli esponenti più impegnati della comunità». Sua moglie, Khawla, era un’insegnante che «parla fluentemente tre lingue». Osama, all’epoca era un bambino di 12 anni. Il cronista scriveva che il fratello, «l’esuberante Ali, un anno, adora gattonare sulle piastrelle della sala, decorata con illustrazioni di proverbi tratti dal Corano». I Qasim non offrirono né cibo, né bevande al giornalista «perché per loro era in corso il Ramadan». «Ci piacerebbe molto essere italiani», aveva dichiarato Ghannam, con indosso «un hijab color porpora». Ed ecco il passaggio più interessante dell’articolo: «La loro vita, sebbene economicamente agiata, è costellata da continui episodi che ricordano loro che non sono pienamente integrati in un Paese che definiscono casa da 20 anni. A seguito degli attentati a Londra di questa estate (del 2005, ndr), Qasim è stato più volte interrogato dalla polizia che gli ha anche perquisito la casa. L’uomo afferma anche che il suo cellulare è sotto controllo. Quando ha invitato a cena alcuni amici di Torino in occasione del Ramadan, la polizia lo ha chiamato per chiedergli chi fossero quelle persone e l’hanno rimproverato di non aver comunicato che avrebbe avuto ospiti. I tentativi di Qasim di comprare un edificio per aprirvi una scuola islamica domenicale sono stati ostacolati per quattro anni dalle istituzioni locali che ritenevano che il luogo non fosse idoneo per via della mancanza di spazi da adibire al parcheggio». Zahi disse: «È chiaro che tutto questo mi dà fastidio: succede perché sono musulmano e non accadrebbe lo stesso se fossi europeo».
Ricordiamo che all’epoca un islamico sospettato di aver preso parte agli attentati di Londra è stato catturato in Italia, dove si era rifugiato. Ghannam ha spiegato che l’inserimento non è stato sempre facile e che «suo figlio è stato spesso preso in giro per il suo nome, Osama, soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre». Quando i Qasim si trasferirono nel loro attuale appartamento, «i vicini italiani si mostrarono freddi e ostili. Tuttavia, il loro atteggiamento è migliorato nel tempo». Zahi ha anche dichiarato di «esser sempre stato trattato con rispetto a lavoro, e gli è stato persino consentito di pregare cinque volte al giorno».
L’articolo contiene anche un’altra notizia interessante: «La famiglia ha una casa a Ramallah e torna laggiù durante le vacanze estive». Anche se la famiglia non si sentiva sicura in Israele: «Ci sono aspetti dell’Islam che vanno bene in Palestina, ma non qui», ha concesso l’uomo con il cronista. Ha anche detto di credere che «gli arresti e il coprifuoco siano soltanto serviti ad aggravare la situazione in Francia». E ha spiegato che «è sbagliato ricorrere alla polizia». Il motivo? «Quando parli con gli altri li fai sentire parte della società. Se li fai sentire emarginati, prima o poi si ribelleranno». Alla fine l’intervistato aveva consegnato al cronista il motto che ripeteva al figlio Osama: «Ignora le offese, lavora più sodo dei tuoi compagni. In fondo i palestinesi sono abituati a essere controllati: pensa solo di essere a Ramallah». Papà Qasim è stato un grande animatore del centro «al Medina» (dell’Associazione della comunità islamica di Sassuolo), fondato nel 1993 da un gruppo di migranti nordafricani, chiuso e poi riaperto varie volte. Qui si riunivano per pregare a turni sino a 600 fedeli per volta. Nel 2018 Zahi, a Casalgrande, è stato tra i promotori del Villaggio islamico, che l’associazione islamica di Sassuolo voleva tirare su nell’area di un ex salumificio. E fu proprio Zahi, col piglio dell’immobiliarista, a spiegare: «Abbiamo comprato l’area per un guadagno, come qualsiasi altro cittadino. A Casalgrande, Veggia e Villalunga abbiamo comprato all’asta circa 6-7 appartamenti».
L’idea di acquistare dai tribunali qualche anno dopo è stata fatta propria dal figlio Osama e da Abu Rawwa. Le indagini della Procura di Genova dovranno stabilire se in questo shopping compulsivo c’entri Hamas.
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Ansa
Tema che dovrebbe stare a cuore di chi si batte per la Palestina, e quindi di tanti ProPal. E invece a quanto pare no. Poco importa se il flusso di denaro che dall’Italia è volato a Gaza avrebbe permesso di acquistare armi e immobili anziché portare cibo e servizi ai civili. La propria solidarietà, più che a quanti avrebbero avuto diritto agli aiuti e a quanto pare non li hanno mai ricevuti, meglio portarla al presidente dei palestinesi in Italia. Colui che nell’ipotesi della procura è l’ideatore di una grande operazione di triangolazione di fondi. E così ieri è scattato il tam tam via social e in 200 si sono radunati davanti al carcere Marassi di Genova per gridare contro quella che viene considerata una vera e propria «offensiva contro tutte le realtà e tutti gli attivisti cosiddetti “ProPal” scatenata dalla propaganda di regime». Tra gli organizzatori del meeting solidale, l’Unione democratica arabo palestinese e Si Cobas Genova che in un post spiega l’architettura che muoverebbe l’indagine della procura.
«Già con la repressione degli ultimi mesi […] è emersa chiaramente la volontà di individuare un nuovo nemico pubblico numero uno nella cosiddetta saldatura tra sinistra radicale e islam. Associare tutta la popolazione che ha manifestato e scioperato contro il genocidio palestinese, e in particolare gli organizzatori di queste mobilitazioni, al terrorismo islamico». Il riferimento è alla revoca del permesso di soggiorno ad Abbas, coordinatore sindacale e destinatario di un foglio di via per due anni da Brescia. Già il 12 dicembre, in occasione del provvedimento, Si Cobas aveva lanciato il medesimo slogan. «La vostra repressione non fermerà le nostre lotte». Ben prima della notizia dell’operazione Domino ma tant’è. L’accusa è buona per tutte le stagioni. E tutte le mobilitazioni. Anche a Piacenza, dove una serie di sigle e associazioni puntano il dito contro la regia di Israele. Tra gli altri Usb, Sgb, Laboratorio popolare della cultura e dell’arte, Collettivo Schiaffo, Resisto, Collettivo 26x1, ControTendenza e Una voce per Gaza. «L’impianto accusatorio - commentano - si basa essenzialmente, come scritto dagli stessi inquirenti, su documenti forniti da Israele», posizione ribadita anche dalle sedi locali di Potere al popolo e Rifondazione comunista in linea con quelle nazionali. «Un’indagine basata su documenti forniti da uno Stato accusato di genocidio dagli organismi internazionali e guidato da un premier condannato e ricercato come criminale di guerra, è in partenza completamente squalificata». Iniziata sabato a Milano poche ore dopo la notizia degli arresti al grido di «Liberi subito» e «La solidarietà non è terrorismo», l’onda delle mobilitazioni in soccorso di Hannoun viaggia in parallelo alle adesioni social, come quella di Alaeddine Kaabouri, consigliere comunale di Thiene, Vicenza, sul suo profilo Instagram. «Criminalizzare tutto questo significa colpire l’idea stessa di solidarietà internazionale e trasformare l’aiuto umanitario in un reato. Sostenere il popolo palestinese non è terrorismo: è un dovere umano e politico».
Intanto, oggi Hannoun incontra il Gip per delle dichiarazioni spontanee. Non si sottoporrà a interrogatorio perché non sono ancora stati recapitati tutti gli atti depositati, spiegano gli avvocati Emanuele Tambuscio e Fabio Sommovigo che tengono a precisare che l’attivista ha sempre operato in maniera tracciabile e con associazioni registrate, molte delle quali anche in Israele. Spiegano inoltre che non sarebbe stato in procinto di fuggire per la Turchia, come sostenuto dalla procura, perché il viaggio sarebbe stato parte di regolari attività di beneficenza. Dal 7 ottobre 2023 non aveva più possibilità di operare dall’Italia e, a causa del blocco dei conti, doveva portare i contanti in Turchia o in Egitto. In difesa del leader dei palestinesi in Italia, ieri è sceso anche il figlio e alcuni suoi familiari, che hanno preso parte ad un corteo sempre attorno al carcere di Genova dove non sono mancati cori anche contro la premier Giorgia Meloni: «Meloni fascista, sei tu la terrorista».
Se i «fondi per Gaza» finiti ad Hamas abbiano aiutato i palestinesi, lo chiarirà la procura ma certo è che nelle piazze a oggi non si scorge cenno alcuno che entri nel merito delle iniziative «finto benefiche» di Hannoun. Che pur essendo attualmente solo «presunte», con tutti i condizionali del caso, qualora dovessero essere confermate, costituirebbero un vero e proprio tradimento del popolo palestinese in nome del quale si continua a scendere in piazza.
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L’esperto confronta il trentennio 1960-1990, connotato dalla «crescita travolgente dell’industria farmaceutica con un solo obiettivo comune, la quantità e la qualità di vita dell’uomo - il risultato furono 52 nuove classi di farmaci con il 90% delle patologie guarite o cronicizzate» -, con quanto accadde dopo la nascita del marketing farmacologico. «L’obiettivo viene stravolto, diventa fare il massimo fatturato possibile. Parallelamente la politica capisce che la salute è una grande opportunità per rafforzare il potere e acquistare consenso, per cui trasforma il settore in azienda (nascono le Asl), mettendo a capo delle aziende non un medico ma un politico che per incapacità e clientelismo riesce a sopravvivere grazie a tagli feroci di posti letto, di personale medico e attrezzature».
Il risultato è che da allora il malato diventa per i secondi un potenziale elettore, per i primi un consumatore. «In questo contesto la finanza crea le Big Pharma, attraverso fusioni e acquisizioni delle classiche aziende farmaceutiche», interviene Franco Stocco, 35 anni trascorsi nel settore oncologico e poi nelle aree dell’immunologia di colossi quali Farmitalia Carlo Erba, Aventis Pharma, Sanofi. Aggiunge: «Non si limita a questo, ha un obiettivo ben preciso ovvero creare e raggiungere il nuovo enorme mercato, cioè la popolazione sana». Se per un farmaco il mercato non c’è, basta crearlo.
Il terreno di coltura che ha permesso l’evoluzione del pensiero scientifico verso il presente «risiede nella medicalizzazione della società umana, resa possibile dall’elencare un numero pressoché infinito di malattie le quali descrivono non solo una condizione di rischio, ma una specie di allontanamento più o meno marcato da un archetipo di perfezione. Ogni anomalia o devianza o disfunzione sono in definitiva riconducibili a una patologia o a una sindrome».
Per realizzare il progetto di trasformare le persone sane in potenziali malati, l’industria della salute «vende quindi anche “fattori di rischio”». In quest’ottica i vaccini ricoprono un ruolo chiave. Sfruttando il concetto che prevenire è meglio che curare, radicato nell’opinione comune, sono stati proposti o imposti nuovi prodotti «che non sono antigeni ma approcci genici», sottolinea Stocco.
Se la prevenzione è l’imperativo strategico dettato dalla grande industria farmacologica, che margine di azione ci può essere per impedire che a farne le spese sia il cittadino, non paziente afflitto da patologie, ma anche un servizio sanitario inutilmente gravato da diagnosi non necessarie? «Da un lato c’è il problema sociale di far passare il concetto di una sana sanità, non quella di stare bene subito con qualsiasi mezzo, e per questo obiettivo serve tanta informazione. Dall’altro, è necessario che le associazioni scientifiche siano meno influenzabili dalle case farmaceutiche», osserva Maria Rita Gismondo, già direttrice del laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano.
L’iper prevenzione «è una tendenza generalizzata», prosegue la professoressa, «basti vede quello che accade quando si consiglia una Rx e il paziente con un minimo di conoscenza chiede: “Ma non è meglio che faccia una risonanza magnetica o una Tac?”. Si chiede una cosa sempre più sofisticata. Sicuramente questo è dovuto alla pressione da parte delle case farmaceutiche che devono vendere sempre più strumenti, test e servizi, ma si fonda anche su un fatto sociale, su un concetto di salute che è cambiato. Se oggi mi alzo con il mal di testa o il mal di schiena non dico aspetto, mi passerà; c’è un abuso di antidolorifici e anti infiammatori. Su questo atteggiamento si fonda la speculazione della Big Pharma, che trova terreno fertile».
Un protocollo di prevenzione deve partire da una possibilità di ricadute positive superiori a quello che è il rischio della falsa diagnosi. Se lo aggiungiamo alla psicosi di un benessere estremizzato, «le conseguenze sono un dispendio di energie economiche e molto stress da parte del paziente».
Per Gismondo, occorre dunque «interrompere la catena deleteria sponsor-sperimentatore. Dall’altra, il ministero della Salute dovrebbe esercitare un controllo maggiore sulle linee guida date dalle associazioni scientifiche perché non si ecceda con i percorsi diagnostici, che rischiano di diventare inutili se non dannosi».
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Roberto Fico (Ansa)
Il partito di Matteo Renzi, a ieri sera, al momento in cui siamo andati in stampa, non aveva ancora raggiunto l’accordo al suo interno sul nome da proporre a Fico; solito marasma nel Pd, dove alla fine due posti su tre in giunta sono stati decisi (Mario Casillo ed Enzo Cuomo) mentre sul terzo è andato in scena lo psicodramma, con Elly Schlein che ha rotto lo schema che prevedeva almeno una donna e ha deciso, a quanto ci risulta, di nominare un terzo uomo (in pole Andrea Morniroli). Per il M5s in pole c’è la deputata Gilda Sportiello, fedelissima di Fico, mentre Vincenzo De Luca dovrebbe riuscire a vincere il braccio di ferro con Fico e ottenere una delega di peso per il suo ex vicepresidente, Fulvio Buonavitacola. Per il Psi certo l’ingresso in giunta di Enzo Maraio, per Avs Fiorella Zabatta, mentre Noi di centro, lista di Clemente Mastella, dovrebbe indicare Maria Carmela Serluca.
«Siamo agli sgoccioli», ha commentato Fico al termine della seduta, «a breve la giunta sarà annunciata. Non ci sono ritardi, la legge ci dice che possono passare fino a dieci giorni dall’insediamento del Consiglio per la nomina della giunta, siamo perfettamente nei tempi. Ci prendiamo il tempo giusto per la migliore giunta possibile. Penso che sia normale che ogni forza politica metta sul tavolo anche le proprie competenze, le proprie volontà e quindi si sta cercando solo un equilibrio giusto nell’interesse dei cittadini campani. Ma se devo dire che ci sono particolari discussioni, no».
Manco a dirlo a centrare il bersaglio al primo colpo è stato invece il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, il cui fratello Massimiliano è stato eletto presidente del Consiglio regionale con 41 voti su 51 presenti. Considerato che il centrodestra ha votato per lui, a Manfredi jr sono mancati una decina di voti della maggioranza. I sospetti si addensano sui consiglieri della lista di Vincenzo De Luca, A testa alta, e su qualche mal di pancia in altre liste. «Nessun soccorso alla maggioranza, ma una scelta politica netta e motivata dal rispetto delle istituzioni e dagli interessi della Campania». Forza Italia, in una nota, «chiarisce» il senso del voto espresso per l’elezione del presidente del Consiglio regionale. «Non abbiamo votato Manfredi per far dispetto a qualcuno», hanno dichiarato capogruppo e vice di Fi, Massimo Pelliccia e Roberto Celano, «ma perché riteniamo che il presidente del Consiglio regionale debba essere la più alta espressione del Consiglio stesso. Una decisione che nasce da una valutazione autonoma e istituzionale. Non abbiamo guardato a quello che faceva De Luca, non ci interessavano dinamiche o contrapposizioni personali. Abbiamo guardato esclusivamente agli interessi dei campani». «A fronte di un’apertura istituzionale del centrodestra che ha votato compatto Manfredi», hanno poi precisato tutti i capigruppo del centrodestra, «dimostrando rigore istituzionale e collaborazione nell’interesse dei cittadini campani, la maggioranza di centrosinistra si lacera nelle sue divisioni interne. I fatti sono chiari nella loro oggettività, il centrosinistra parte male». In realtà anche la Lega è partita con un passo falso: caso più unico che raro un consigliere appena eletto, Mimì Minella, ha abbandonato alla prima seduta il Carroccio e si è iscritto al Misto. I problemi del centrosinistra si sono manifestati plasticamente quando, dopo una sospensione, i cinque consiglieri regionali del gruppo congiunto Casa riformista-Noi di centro non si sono ripresentati in aula. Clamorosa poi la protesta pubblica di Avs che con un comunicato durissimo in serata parla addirittura di «atti di forza che mortificano il confronto democratico e alterano gli equilibri della coalizione» e chiede al governatore di intervenire immediatamente.
Fico ha annunciato il ritiro da parte della Regione della querela contro la trasmissione Rai Report, presentata da Vincenzo De Luca e relativa a un servizio sulla sanità campana: «Per dare un segnale di distensione da subito», ha detto Fico, «annuncio il ritiro della querela. Sosterremo un’informazione locale plurale e di qualità, gli organi di stampa del territorio sono presidi di democrazia. Ognuno deve naturalmente fare il proprio mestiere, ma deve farlo liberamente e senza condizionamenti».
Da parte sua, il candidato del centrodestra sconfitto da Fico, il viceministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, non ha sciolto l’interrogativo sulla sua permanenza in Consiglio come capo dell’opposizione: «Sto qua, sto bene, farò la mia parte», ha detto Cirielli, «poi si prenderanno decisioni ad alto livello istituzionale per garantire il miglior funzionamento del Consiglio regionale».
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