
Il presidente eletto degli Usa promette, dal giorno uno, di lasciare l’Organizzazione, azzoppandola politicamente ed economicamente. E di cancellare le follie gender: «Fuori gli uomini dagli sport femminili».L’era woke è tramontata per sempre: Donald Trump intende invertire la rotta dell’ideologia politically correct fin dal primo giorno del suo insediamento attraverso alcuni decreti esecutivi che firmerà proprio il 20 gennaio, stabilendosi alla Casa Bianca. La squadra che sta guidando la transizione dai democratici di Joe Biden ai repubblicani ha annunciato che l’America di Trump uscirà dall’Oms e ieri il presidente eletto ha promesso che porrà fine alla «follia transgender».La prima mossa annunciata da Trump è l’uscita degli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della sanità: secondo il Financial Times, gli Stati Uniti si ritireranno dall’Oms «on day one», facendo mancare al governo sanitario mondiale, diretto dall’etiope Tedros Ghebreyesus, il sostegno del suo primo finanziatore. Gli Usa, infatti, sono il maggiore contribuente dell’Organizzazione mondiale della Sanità con finanziamenti pari a quasi1 miliardo di dollari tra quota di adesione (260,626 milioni) e contributi volontari (697,888 milioni), su un bilancio totale di 6,83 miliardi per il biennio 2024-25. Una stangata per l’Oms e per il suo direttore, già bocciato dalla comunità internazionale dopo che il suo tentativo di imporre il Trattato pandemico mondiale è stato sventato da molti Stati membri, tra cui l’Italia. Che Trump voglia portar fuori l’America dall’Oms non è una novità: già nel 2020, in piena pandemia, il tycoon aveva minacciato il ritiro accusando l’Organizzazione di piegarsi al controllo della Cina, che contribuisce con 203,269 milioni di dollari. Il presidente eletto, travolto dal fuoco amico del capo del Niaid Anthony Fauci e della stessa Oms, non era tuttavia riuscito a portare a termine il progetto e il suo successore, Joe Biden, aveva riavviato le relazioni con l’agenzia internazionale già nel giorno dell’insediamento, il 20 gennaio 2021. Trump ha puntato proprio sull’Oms per lanciare un segnale netto sul suo mandato e questa volta la promessa sembra definitiva: gli uomini del presidente eletto a novembre hanno reso noto di volersi muovere rapidamente, avviando il piano di ritiro sin dal primo giorno di lavoro dell’amministrazione. Sarà molto difficile, per l’Organizzazione, tornare a giocarsi la carta dell’autorevolezza nel mondo senza il sostegno dell’amministrazione americana. Ghebreyesus non resterà tuttavia a bocca asciutta: se il contributo Usa è pari al 14,53 per cento del budget totale, quello della Bill e Melinda Gates Foundation, secondo contribuente Oms, non è da meno: 13,67 per cento, pari a 689,617 milioni di dollari di contributi volontari. Ai soldi di Bill Gates si aggiungono quelli della Gavi Alliance - lanciata e finanziata dallo stesso Gates con l’obiettivo dichiarato di «vaccinare tutto il mondo» - che è terzo finanziatore dell’Oms con 500,7 milioni di dollari, pari al 10,49 per cento del totale. L’Organizzazione mondiale della sanità, insomma, tanto «sovranazionale» non è, considerato che i suoi maggiori finanziatori, a parte gli Usa, sono privati con interessi nel ricco business della salute e dei vaccini. Ghebreyesus potrà contare anche sul sostegno della Commissione europea di Ursula von der Leyen (quarto contribuente con 412 milioni di dollari, pari al 7,82 per cento del budget) e, a seguire, di Germania (324,7 milioni di dollari), Regno Unito (215,8 milioni) e Canada (141 milioni). Anche l’Italia fa la sua «piccola» parte, versando all’Oms 69 milioni di dollari tra quota di adesione (36 milioni), contributi volontari (19,9 milioni) e finanziamento a progetti specifici (12,5 milioni), cui si aggiungono 231.088 dollari versati fino al 2023 dalla Regione Veneto di Luca Zaia. Ieri il presidente, intervenendo alla conferenza dei giovani conservatori in Arizona, ha anche messo il punto sulle politiche pro gender: «Firmerò ordini esecutivi per porre fine alle mutilazioni sessuali infantili», ha dichiarato Trump, promettendo inoltre che «non accetterà più transgender nell’esercito americano». Un netto cambio di rotta rispetto a Biden, che aveva simbolicamente promosso l’ammiraglio transgender Rachel Levine ad assistente segretaria per la salute Usa. «Fuori i transgender anche dalle nostre scuole elementari, medie e superiori» ha aggiunto il presidente eletto, annunciando di voler «tenere gli uomini fuori dagli sport femminili», con buona pace delle tante Imane Khelif. Addio anche a schwa, asterischi e altre follie del politicamente corretto: «La politica ufficiale del governo degli Stati Uniti - ha chiosato Trump - sarà che ci sono solo due generi, maschio e femmina».La battaglia sulle questioni transgender è ormai diventata terreno di scontro politico acceso negli Stati Uniti, ma soprattutto fruttuoso business della «gender industry» (l’industria delle cliniche e dei prodotti farmaceutici che lavorano intorno alla transizione di identità di genere), che specula sui dubbi i identitari delle giovani generazioni. La mappa delle cliniche «pediatriche» per cambio di sesso e terapie ormonali dal 2007 al 2023 è cresciuta a ritmo incessante, sebbene nell’ultimo anno si sia registrata un’inversione di tendenza: ormai, è soltanto nei (pochi) Stati democratici che si concentra il più alto numero di «non binari».«Il 20 gennaio», ha dichiarato Trump , «gli Stati Uniti gireranno pagina per sempre su quattro lunghi e orribili anni di fallimento, incompetenza, declino nazionale. Inaugureremo una nuova era di pace, prosperità e grandezza nazionale». Amen.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
Continua a leggereRiduci





