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2025-03-13
Trump alza la voce con il Cremlino: «Tregua o conseguenze devastanti»
Donald Trump (Ansa)
È una fase delicata quella che sta attraversando il processo diplomatico relativo alla crisi ucraina. Dopo aver convinto Kiev ad accettare un piano per il cessate il fuoco durante i colloqui di Gedda, l’obiettivo dell’amministrazione Trump è adesso quello di far sì che Mosca dia a sua volta l’ok a questa proposta. Una proposta, rispetto a cui ieri il Cremlino si è mostrato significativamente cauto: ha fatto sapere che Mosca sta studiando con attenzione le dichiarazioni successive ai colloqui ucraino-americani in Arabia Saudita, aggiungendo di essere in attesa di ulteriori dettagli da Washington.
Non a caso, nella serata italiana di ieri, la Casa Bianca ha reso noto che l’inviato speciale degli Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, si recherà a Mosca in settimana e che il consigliere per la sicurezza nazionale americano, Mike Waltz, aveva avuto una conversazione con il proprio omologo russo. In questo quadro, Donald Trump ha detto ieri di sperare che possa arrivare l’ok dalla Russia per un cessate il fuoco. In caso contrario, il presidente americano si è detto pronto a delle ritorsioni «finanziarie» ai danni di Mosca. «Potremmo fare cose molto negative per la Russia. Sarebbe devastante per la Russia. Ma non voglio farlo perché voglio vedere la pace», ha affermato. Un punto di dissidio sarebbe rappresentato dagli armamenti all’Ucraina. Ieri sera, Bloomberg riferiva di indiscrezioni, secondo cui il Cremlino sarebbe disposto ad accettare una tregua, ma a condizione che gli Stati Uniti fermino la fornitura di armi a Kiev: fornitura che, insieme alla condivisione del materiale d’intelligence, era stata ripristinata l’altro ieri, dopo l’incontro di Gedda.
Nel frattempo, il segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha reso noto che, durante i colloqui sauditi, Washington e Kiev hanno discusso di possibili «concessioni territoriali» nell’ambito di un eventuale accordo di pace tra Ucraina e Russia. Dall’altra parte, Rubio ha sottolineato che, una volta raggiunta un’intesa, si discuterà anche della capacità di deterrenza da parte di Kiev. «L’Ucraina può creare un deterrente sufficiente contro future aggressioni, contro futuri attacchi, contro future invasioni? Perché ogni Paese del mondo ha il diritto di difendersi e nessuno può contestarlo», ha detto, per poi proseguire: «Quindi questo dovrà certamente essere parte della conversazione. Ma ripeto, non c’è una pace da garantire finché non si ha una pace. Ma non c’è modo di avere una pace duratura senza che la deterrenza ne faccia parte». Rubio ha comunque escluso che la crisi ucraina possa avere una «soluzione militare» e ha aperto alla possibilità che il cessate il fuoco possa essere monitorato attraverso l’impiego di «satelliti commerciali». Dal canto suo, Volodymyr Zelensky ha definito «molto positivi» i colloqui di Gedda, auspicando inoltre delle «misure forti», qualora Mosca dovesse rifiutare il cessate il fuoco.
Premesso che il quadro è ancora in evoluzione, l’obiettivo di Trump è quello di convincere il Cremlino ad accettare la proposta di tregua sia mettendolo sotto pressione con delle minacce sia facendo leva sulla debolezza russa in Siria: la caduta di Bashar Al Assad ha inferto infatti un duro colpo all’influenza di Mosca sul Paese a netto vantaggio di Ankara. Il presidente americano punta quindi a uno scambio con Vladimir Putin: aiutare il Cremlino a recuperare terreno in Siria, ottenendo in cambio un ammorbidimento russo sul fronte ucraino. Trump, insieme a israeliani e sauditi, non vede di buon occhio il rafforzamento della Turchia, seguito all’ascesa di Mohammed Al Jolani a Damasco. E il contenimento in funzione antiturca nello scacchiere mediorientale è sicuramente benvisto dai russi. Inoltre, Ankara è sempre più irritata per il crescente peso detenuto da Riad sia nel processo di pace ucraino sia nella distensione tra Washington e Mosca.
Guarda caso, ieri Recep Tayyip Erdogan ha auspicato, con la benedizione di Donald Tusk, che possa essere la Turchia a ospitare i colloqui tra ucraini e russi. Il sultano è ostile agli Accordi di Abramo e al piano di Trump per Gaza: un piano che è apprezzato dagli israeliani e che, nonostante le critiche a livello ufficiale, è di fatto spalleggiato dagli stessi sauditi. L’obiettivo dell’asse tra Washington, Gerusalemme e Riad è quello di coinvolgere anche Mosca, in funzione antiturca, tanto nel piano per Gaza quanto nel rilancio degli Accordi di Abramo: un coinvolgimento che passerebbe, come detto, attraverso un recupero dell’influenza del Cremlino in Siria, oltre che tramite una mediazione russa tra Washington e Teheran per negoziare un nuovo accordo sul nucleare iraniano. Insomma, Trump sta cercando di convincere Putin ad accettare un percorso diplomatico in Ucraina, promettendogli in cambio dei benefici in Medio Oriente. E infatti a essere atteso in Russia è l’inviato americano per il Medio Oriente, Witkoff, e non quello per l’Ucraina, Keith Kellogg.
Il fine ultimo del presidente americano resta comunque quello di sganciare il più possibile Mosca da Pechino. Una strategia che la Cina ha capito e che sta cercando di contrastare. Ieri, la Repubblica popolare ha reso noto che domani ospiterà dei colloqui sul nucleare con Iran e Russia. Inoltre, lunedì, Pechino, Mosca e Teheran hanno avviato delle esercitazioni navali congiunte nel Golfo di Oman. Il Dragone contende agli Usa l’influenza sul Medio Oriente perché ha capito che è proprio tramite il Medio Oriente che Trump punta a incunearsi nei rapporti sino-russi.
Tagliagole siriani invitati a Bruxelles
Nonostante la morte di 1.450 siriani, di cui oltre 900 civili durante gli scontri in Siria tra gli alawiti fedeli all’ex regime di Assad e le forze di sicurezza del governo ad interim guidato da Al Jolani, l’Ue continua imperterrita a sostenere la Siria, senza prendere le distanze dall’ex leader di Hts.
E quindi lunedì prossimo ospiterà a Bruxelles la conferenza «Standing with Syria: meeting the needs for a successful transition», il cui scopo è «mobilitare il sostegno internazionale per una transizione inclusiva e pacifica e sviluppare promesse per assistenza umanitaria e non umanitaria, assicurando un supporto duraturo ai siriani, sia all’interno del Paese che nelle comunità della regione, in particolare Giordania, Libano, Turchia, Egitto e Iraq». Dell’appoggio al Paese si parlerà anche il giorno successivo, il 18 marzo, con l’organizzazione di un workshop intitolato «Come garantire un supporto internazionale coordinato alla ripresa socioeconomica della Siria?».
Si tratta della nona edizione dell’evento organizzato dall’Ue sulla Siria, ma rispetto al passato ci sarebbero due elementi di novità: il titolo della conferenza che ribadisce di essere dalla parte della Siria e la presenza di una figura del governo siriano. Segnale che ribadisce come Damasco sia riconosciuto da Bruxelles come interlocutore fondamentale.
Infatti, a prendere parte all’evento di lunedì non saranno solamente i rappresentanti di Paesi Ue, ma anche, secondo quanto ha riportato un funzionario europeo a Reuters, il ministro degli Esteri siriano, Asaad Al Shibani. E sarebbe dunque la prima volta che la Siria viene rappresentata ufficialmente alla conferenza annuale, visto che durante gli anni del regime di Bashar Al Assad erano invitati solamente i rappresentanti della società civile. Vi è incertezza, invece, sull’eventuale partecipazione di Al Jolani in giacca e cravatta: sempre secondo l’agenzia di stampa britannica, una fonte siriana e due diplomatici ne avevano confermato la presenza, poi smentita dal funzionario Ue.
Quel che è certo è che dopo i recenti massacri che non fanno altro che confermare l’escalation di violenze nel Paese, l’Ue non sta facendo alcun passo indietro nel mostrare aperto sostegno a Damasco. Mentre la Casa Bianca, con il segretario di Stato americano Marco Rubio, ha subito condannato gli attacchi dello scorso weekend contro le minoranze, Bruxelles si è limitata a comunicare, in una breve dichiarazione: «L’Unione europea condanna fermamente i recenti attacchi, presumibilmente compiuti da elementi pro-Assad, contro le forze del governo ad interim nelle aree costiere della Siria e tutte le violenze contro i civili». Si è riferita in modo esplicito solo agli attacchi da parte delle forze fedeli di Assad, senza quindi fare alcun accenno alla risposta violenta dei soldati governativi che hanno lasciato una scia di più di 900 vittime civili. Si è dovuto attendere fino a martedì sera per ottenere la condanna del massacro. Nella dichiarazione Ue, infatti, è stato poi sottolineato: «Condanniamo inoltre con la massima fermezza gli orribili crimini commessi contro i civili, tra cui le esecuzioni sommarie, molte delle quali sarebbero state perpetrate da gruppi armati che sostengono le forze di sicurezza delle autorità di transizione». Ma il sostegno ad Al Jolani, nonostante l’imbarazzo, non vacilla: «Accogliamo con favore gli impegni assunti dalle autorità di transizione e in particolare l’istituzione di un comitato investigativo, per assicurare gli autori alle proprie responsabilità in linea con le norme e gli standard giuridici internazionali».
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Mosca resta cauta sulla proposta di cessate il fuoco uscita dai colloqui di Gedda, ma il tycoon preme forte: «Dite sì o ci saranno nuove sanzioni». In cambio di disponibilità, Washington aiuterebbe la Russia in Siria.Nonostante le recenti mattanze degli sgherri del nuovo governo, l’Ue ospiterà il ministro degli Esteri di Al Jolani in un evento in cui si vaneggia ancora di «transizione inclusiva».Lo speciale contiene due articoli. È una fase delicata quella che sta attraversando il processo diplomatico relativo alla crisi ucraina. Dopo aver convinto Kiev ad accettare un piano per il cessate il fuoco durante i colloqui di Gedda, l’obiettivo dell’amministrazione Trump è adesso quello di far sì che Mosca dia a sua volta l’ok a questa proposta. Una proposta, rispetto a cui ieri il Cremlino si è mostrato significativamente cauto: ha fatto sapere che Mosca sta studiando con attenzione le dichiarazioni successive ai colloqui ucraino-americani in Arabia Saudita, aggiungendo di essere in attesa di ulteriori dettagli da Washington.Non a caso, nella serata italiana di ieri, la Casa Bianca ha reso noto che l’inviato speciale degli Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, si recherà a Mosca in settimana e che il consigliere per la sicurezza nazionale americano, Mike Waltz, aveva avuto una conversazione con il proprio omologo russo. In questo quadro, Donald Trump ha detto ieri di sperare che possa arrivare l’ok dalla Russia per un cessate il fuoco. In caso contrario, il presidente americano si è detto pronto a delle ritorsioni «finanziarie» ai danni di Mosca. «Potremmo fare cose molto negative per la Russia. Sarebbe devastante per la Russia. Ma non voglio farlo perché voglio vedere la pace», ha affermato. Un punto di dissidio sarebbe rappresentato dagli armamenti all’Ucraina. Ieri sera, Bloomberg riferiva di indiscrezioni, secondo cui il Cremlino sarebbe disposto ad accettare una tregua, ma a condizione che gli Stati Uniti fermino la fornitura di armi a Kiev: fornitura che, insieme alla condivisione del materiale d’intelligence, era stata ripristinata l’altro ieri, dopo l’incontro di Gedda. Nel frattempo, il segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha reso noto che, durante i colloqui sauditi, Washington e Kiev hanno discusso di possibili «concessioni territoriali» nell’ambito di un eventuale accordo di pace tra Ucraina e Russia. Dall’altra parte, Rubio ha sottolineato che, una volta raggiunta un’intesa, si discuterà anche della capacità di deterrenza da parte di Kiev. «L’Ucraina può creare un deterrente sufficiente contro future aggressioni, contro futuri attacchi, contro future invasioni? Perché ogni Paese del mondo ha il diritto di difendersi e nessuno può contestarlo», ha detto, per poi proseguire: «Quindi questo dovrà certamente essere parte della conversazione. Ma ripeto, non c’è una pace da garantire finché non si ha una pace. Ma non c’è modo di avere una pace duratura senza che la deterrenza ne faccia parte». Rubio ha comunque escluso che la crisi ucraina possa avere una «soluzione militare» e ha aperto alla possibilità che il cessate il fuoco possa essere monitorato attraverso l’impiego di «satelliti commerciali». Dal canto suo, Volodymyr Zelensky ha definito «molto positivi» i colloqui di Gedda, auspicando inoltre delle «misure forti», qualora Mosca dovesse rifiutare il cessate il fuoco.Premesso che il quadro è ancora in evoluzione, l’obiettivo di Trump è quello di convincere il Cremlino ad accettare la proposta di tregua sia mettendolo sotto pressione con delle minacce sia facendo leva sulla debolezza russa in Siria: la caduta di Bashar Al Assad ha inferto infatti un duro colpo all’influenza di Mosca sul Paese a netto vantaggio di Ankara. Il presidente americano punta quindi a uno scambio con Vladimir Putin: aiutare il Cremlino a recuperare terreno in Siria, ottenendo in cambio un ammorbidimento russo sul fronte ucraino. Trump, insieme a israeliani e sauditi, non vede di buon occhio il rafforzamento della Turchia, seguito all’ascesa di Mohammed Al Jolani a Damasco. E il contenimento in funzione antiturca nello scacchiere mediorientale è sicuramente benvisto dai russi. Inoltre, Ankara è sempre più irritata per il crescente peso detenuto da Riad sia nel processo di pace ucraino sia nella distensione tra Washington e Mosca.Guarda caso, ieri Recep Tayyip Erdogan ha auspicato, con la benedizione di Donald Tusk, che possa essere la Turchia a ospitare i colloqui tra ucraini e russi. Il sultano è ostile agli Accordi di Abramo e al piano di Trump per Gaza: un piano che è apprezzato dagli israeliani e che, nonostante le critiche a livello ufficiale, è di fatto spalleggiato dagli stessi sauditi. L’obiettivo dell’asse tra Washington, Gerusalemme e Riad è quello di coinvolgere anche Mosca, in funzione antiturca, tanto nel piano per Gaza quanto nel rilancio degli Accordi di Abramo: un coinvolgimento che passerebbe, come detto, attraverso un recupero dell’influenza del Cremlino in Siria, oltre che tramite una mediazione russa tra Washington e Teheran per negoziare un nuovo accordo sul nucleare iraniano. Insomma, Trump sta cercando di convincere Putin ad accettare un percorso diplomatico in Ucraina, promettendogli in cambio dei benefici in Medio Oriente. E infatti a essere atteso in Russia è l’inviato americano per il Medio Oriente, Witkoff, e non quello per l’Ucraina, Keith Kellogg.Il fine ultimo del presidente americano resta comunque quello di sganciare il più possibile Mosca da Pechino. Una strategia che la Cina ha capito e che sta cercando di contrastare. Ieri, la Repubblica popolare ha reso noto che domani ospiterà dei colloqui sul nucleare con Iran e Russia. Inoltre, lunedì, Pechino, Mosca e Teheran hanno avviato delle esercitazioni navali congiunte nel Golfo di Oman. Il Dragone contende agli Usa l’influenza sul Medio Oriente perché ha capito che è proprio tramite il Medio Oriente che Trump punta a incunearsi nei rapporti sino-russi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-tregua-ucraina-2671322502.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tagliagole-siriani-invitati-a-bruxelles" data-post-id="2671322502" data-published-at="1741865078" data-use-pagination="False"> Tagliagole siriani invitati a Bruxelles Nonostante la morte di 1.450 siriani, di cui oltre 900 civili durante gli scontri in Siria tra gli alawiti fedeli all’ex regime di Assad e le forze di sicurezza del governo ad interim guidato da Al Jolani, l’Ue continua imperterrita a sostenere la Siria, senza prendere le distanze dall’ex leader di Hts. E quindi lunedì prossimo ospiterà a Bruxelles la conferenza «Standing with Syria: meeting the needs for a successful transition», il cui scopo è «mobilitare il sostegno internazionale per una transizione inclusiva e pacifica e sviluppare promesse per assistenza umanitaria e non umanitaria, assicurando un supporto duraturo ai siriani, sia all’interno del Paese che nelle comunità della regione, in particolare Giordania, Libano, Turchia, Egitto e Iraq». Dell’appoggio al Paese si parlerà anche il giorno successivo, il 18 marzo, con l’organizzazione di un workshop intitolato «Come garantire un supporto internazionale coordinato alla ripresa socioeconomica della Siria?». Si tratta della nona edizione dell’evento organizzato dall’Ue sulla Siria, ma rispetto al passato ci sarebbero due elementi di novità: il titolo della conferenza che ribadisce di essere dalla parte della Siria e la presenza di una figura del governo siriano. Segnale che ribadisce come Damasco sia riconosciuto da Bruxelles come interlocutore fondamentale. Infatti, a prendere parte all’evento di lunedì non saranno solamente i rappresentanti di Paesi Ue, ma anche, secondo quanto ha riportato un funzionario europeo a Reuters, il ministro degli Esteri siriano, Asaad Al Shibani. E sarebbe dunque la prima volta che la Siria viene rappresentata ufficialmente alla conferenza annuale, visto che durante gli anni del regime di Bashar Al Assad erano invitati solamente i rappresentanti della società civile. Vi è incertezza, invece, sull’eventuale partecipazione di Al Jolani in giacca e cravatta: sempre secondo l’agenzia di stampa britannica, una fonte siriana e due diplomatici ne avevano confermato la presenza, poi smentita dal funzionario Ue. Quel che è certo è che dopo i recenti massacri che non fanno altro che confermare l’escalation di violenze nel Paese, l’Ue non sta facendo alcun passo indietro nel mostrare aperto sostegno a Damasco. Mentre la Casa Bianca, con il segretario di Stato americano Marco Rubio, ha subito condannato gli attacchi dello scorso weekend contro le minoranze, Bruxelles si è limitata a comunicare, in una breve dichiarazione: «L’Unione europea condanna fermamente i recenti attacchi, presumibilmente compiuti da elementi pro-Assad, contro le forze del governo ad interim nelle aree costiere della Siria e tutte le violenze contro i civili». Si è riferita in modo esplicito solo agli attacchi da parte delle forze fedeli di Assad, senza quindi fare alcun accenno alla risposta violenta dei soldati governativi che hanno lasciato una scia di più di 900 vittime civili. Si è dovuto attendere fino a martedì sera per ottenere la condanna del massacro. Nella dichiarazione Ue, infatti, è stato poi sottolineato: «Condanniamo inoltre con la massima fermezza gli orribili crimini commessi contro i civili, tra cui le esecuzioni sommarie, molte delle quali sarebbero state perpetrate da gruppi armati che sostengono le forze di sicurezza delle autorità di transizione». Ma il sostegno ad Al Jolani, nonostante l’imbarazzo, non vacilla: «Accogliamo con favore gli impegni assunti dalle autorità di transizione e in particolare l’istituzione di un comitato investigativo, per assicurare gli autori alle proprie responsabilità in linea con le norme e gli standard giuridici internazionali».
Il meccanismo si applica guardando non a quando è stato pagato il riscatto, ma a quando si maturano i requisiti per l’uscita anticipata: nel 2031 non concorrono 6 mesi tra quelli riscattati; nel 2032 diventano 12; poi 18 nel 2033, 24 nel 2034, fino ad arrivare a 30 mesi nel 2035. La platea indicata è quella del riscatto della «laurea breve», richiamata anche come diplomi universitari della legge 341/1990. La conseguenza pratica è che il riscatto continua a «esistere» come contribuzione accreditata, ma diventa progressivamente molto meno efficace come acceleratore del requisito contributivo. Con una triennale piena (36 mesi) il taglio a regime dal 2035 (30 mesi) lascia, per l’anticipo del diritto, un vantaggio residuo di appena 6 mesi; nel 2031, invece, la sterilizzazione è limitata a 6 mesi e, quindi, restano utilizzabili 30 mesi su 36 per raggiungere prima la soglia. Il punto che rende la stretta economicamente esplosiva è che il costo del riscatto non viene rimodulato. Nel 2025, per il riscatto a costo agevolato, l’Inps indica come base il reddito minimo annuo di 18.555 euro e l’aliquota del 33%, da cui deriva un onere pari a 6.123,15 euro per ogni anno di corso riscattato (per le domande presentate nel 2025).
In altri termini: si continua a pagare secondo i parametri ordinari dell’istituto, ma una fetta crescente di quel «tempo comprato» smette di essere spendibile per andare prima in pensione con l’anticipata. La contestazione più immediata riguarda l’effetto «a scadenza»: chi ha già riscattato oggi, ma maturerà i requisiti dopo il 2030, potrebbe scoprire che una parte dei mesi riscattati non vale più come si aspettava per centrare prima l’uscita dalla vita lavorativa.
La norma, in realtà, è destinata a creare dibattito politico. «Non c’è nessunissima intenzione di alzare l’età pensionabile», ha detto il senatore della Lega. Claudio Borghi, «e meno che mai di scippare il riscatto della laurea. Le voci scritte in legge di bilancio sono semplici clausole di salvaguardia che qualche tecnico troppo zelante ha inserito per compensare un possibile futuro aumento dei pensionamenti anticipati, che la norma incentiva sfruttando la possibilità data dal sistema 64 anni più 25 di contributi inclusa la previdenza complementare. Quello che succederà in futuro verrà monitorato di anno in anno ma posso dire con assoluta certezza che non ci sarà mai alcun aumento delle finestre di uscita o alcuno scippo dei riscatti della laurea a seguito di questa norma». «In assenza di intervento immediato del governo, noi sicuramente presenteremo emendamenti», conclude il leghista. A spazzare via ogni dubbio ci ha pensato il premier, Giorgia Meloni: «Nessuno che abbia riscattato la laurea vedra’ cambiata la sua situazione, la modifica varra’ per il futuro, in questo senso l’emendamento deve essere corretto» a detto in Senato.
Dal canto suo, il segretario del Pd, Elly Schlein, alla Camera, ha subito dichiarato la sua contrarietà all’emendamento. «Ieri (due giorni fa, ndr) avete riscritto la manovra e con una sola mossa fate una stangata sulle pensioni che è un furto sia ai giovani che agli anziani. È una vergogna prendervi i soldi di chi ha già pagato per riscattare la laurea: è un’altra manovra di promesse tradite. Dovevate abolire la Fornero e invece allungate l’età pensionabile a tutti. Non ci provate, non ve lo permetteremo».
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(IStock)
Novità anche per l’attività delle forze dell’ordine. Un emendamento riformulato dal governo prevede che anche gli interventi di soccorso promossi da polizia e carabinieri, a partire dal prossimo anno, andranno «rimborsati» se risulteranno non «giustificati», ovvero se dietro sarà rinvenuta l’ombra del dolo o della colpa grave di chi è stato soccorso. La stretta era stata già prevista nel testo uscito dal Consiglio dei ministri il 17 ottobre ma era limitata a uomini e mezzi della Guardia di finanza, ora con questa proposta di modifica viene estesa agli interventi effettuati dagli altri due corpi. Dal 2026 la richiesta di aiuto che verrà rivolta a polizia di Stato e Arma dei carabinieri, impegnati nel soccorso alpino e in quello in mare, andrà giustificata e motivata. E se non ci sarà una motivazione adeguata e reale la ricerca, il soccorso e il salvataggio in montagna o in mare diventeranno tutte operazioni a pagamento. Non solo. Il contributo sarà dovuto anche da chi procura, per dolo o colpa grave, un incidente o un evento che richiede l’impiego di uomini e mezzi appartenenti alla polizia di Stato e all’Arma. L’importo sarà stabilito con decreti dal ministro dell’Interno e da quello della Difesa, di concerto con l’Economia. L’emendamento precisa, infine, che «il corrispettivo è dovuto qualora l’evento per il quale è stato effettuato l’intervento sia imputabile a dolo o colpa grave dell’agente».
Nessuna novità, invece, per maggiori fondi, che restano rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura d’infrazione. I sindacati di polizia continuano a martellare l’esecutivo dicendo che «per il governo la sicurezza è uno slogan adatto ai discorsi pubblici ma non è una priorità quando si tratta di mettere in campo risorse concrete». In una lettera inviata da Sap, Coisp-Mosap, Fsp Polizia, Silp-Cgil al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si attacca «l’ipotesi di un innalzamento dell’età pensionabile, inaccettabile per chi ha trascorso una vita professionale tra rischi e responsabilità enormi e si pretende di allungare ulteriormente la carriera dei poliziotti senza alcun confronto con i sindacati». Per i sindacati è anche «grave, lo stanziamento simbolico di appena 20 milioni di euro per la previdenza dedicata. Una cifra che condanna molti a pensioni indegne dopo una vita spesa al servizio dello Stato».
Intanto hanno avuto il via libera in commissione Bilancio una serie di modifiche alla manovra sui temi di interesse comune alla maggioranza e all’opposizione in materia di enti locali e calamità naturali. In totale sono 64 gli emendamenti. Tra questi, la possibilità di assumere a tempo indeterminato il personale in servizio presso gli Uffici speciali per la ricostruzione e che abbia maturato almeno tre anni di servizio. Arriva anche un contributo di 2,5 milioni per il 2026 per il disagio abitativo finalizzato alla ricostruzione per i territori colpiti dai terremoti in Marche e Umbria.
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha sottolineato i maggiori fondi per la sanità. «Sul fronte del personale», ha detto, ci sono degli aumenti importanti e delle assunzioni aggiuntive. Le Regioni possono assumere con il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra di loro».
Soddisfatto il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani. La manovra, infatti, contiene +7,4 miliardi per il Fondo sanitario nazionale e un ulteriore +0,1% che consente di far scendere il payback a carico delle aziende farmaceutiche. «Il segnale è ampiamente positivo», ha commentato Cattani.
Intanto ieri alla Camera, nel dibattito sulle comunicazioni alla vigilia del Consiglio europeo, c’è stato un botta e risposta tra la segretaria del Pd, Elly Schlein, e Meloni. Tema: le tasse e la manovra. «La pressione fiscale sale perché sale il gettito fiscale certo anche grazie al fatto che oggi lavora un milione di persone in più che pagano le tasse», ha detto il premier. E a fronte del rumoreggiamento dell’Aula, ha incalzato: «Se volete facciamo un simposio ma siccome siamo in Parlamento le cose o si dicono come stanno o si studia».
Ma per Schlein «le tasse aumentano per il drenaggio fiscale». Il premier ha, poi, ribadito che la manovra «è seria» e che «l’Italia ha ampiamente pagato in termini reputazionali, e non solo, le allegre politiche degli anni passati».
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Il direttore di Limes, Lucio Caracciolo (Imagoeconomica)
«A tutto c’è un Limes». E i professoroni se ne sono andati sbattendo la porta, accompagnati dal generale con le stellette e dall’eco della marcetta militare mediatica tutta grancassa e tromboni, a sottolineare come fosse democratica e dixie la ritirata strategica da quel covo di «putiniani sfegatati». La vicenda con al centro la guerra in Ucraina merita un approfondimento perché è paradigmatica di una polarizzazione che non lascia scampo a chi semplicemente intende approfondire i fatti. Nell’era del pensiero igienista, ogni contatto con il nemico e ogni lettura (anche critica) dei testi che egli produce sono considerati contaminanti.
Già la narrazione lascia perplessi e l’uscita dei martiri da un consiglio scientifico che vede nelle sue file Enrico Letta, Romano Prodi, Andrea Riccardi, Angelo Panebianco, Federico Fubini (atlantisti di ferro più che compagni di merende dello zar) indebolisce le ragioni dei transfughi. Se poi si aggiunge che in cima al comitato dei saggi della rivista campeggia il nome di Rosario Aitala - il giudice della Corte penale internazionale che due anni fa firmò un mandato di cattura per Vladimir Putin - ecco che le motivazioni del commando in doppiopetto si scaricano in fretta come le batterie dell’auto full electric guidata da Ursula von der Leyen.
Eppure Federico Argentieri (studioso di affari europei), Franz Gustincich (giornalista e fotografo), Giorgio Arfaras (economista) e Vincenzo Camporini (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) hanno preso la porta e hanno salutato Lucio Caracciolo con parole stizzite per «incompatibilità con la linea politica». Avvertivano una «nube tossica» aleggiare su Limes. Evidentemente non sopportavano che ogni dieci analisi filo-occidentali ce ne fossero un paio dedicate alle ragioni russe. Un’accusa pretestuosa al mensile di geopolitica più importante d’Italia e a uno storico direttore che in 30 anni si è guadagnato prestigio e indipendenza pur rimanendo nell’alveo del grande fiume navigabile (e spesso limaccioso) della sinistra culturale.
«Io quelli che se ne sono andati non li ho mai visti. Chi ci accusa di essere filorusso non ha mai sfogliato la rivista», ha dichiarato il giornalista Mirko Mussetti a Radio Cusano Campus. Dietro le rumorose dimissioni ci sarebbero cause tutt’altro che culturali, forse di opportunità. Arfaras è marito della giornalista russa naturalizzata italiana Anna Zafesova, studiosa del putinismo, firma della Stampa e voce di Radio Radicale. Il generale Camporini ha solidi interessi politici: già candidato di + Europa, è passato con Carlo Calenda e ha tentato invano la scalata all’Europarlamento. Oggi è responsabile della difesa dell’eurolirica Azione. La tempistica della fibrillazione è sospetta e chiama in causa anche le strategie editoriali. Limes fa parte del gruppo Gedi messo in vendita (in blocco o come spezzatino) da John Elkann; la rivista è solida, quindi obiettivo di qualcuno che potrebbe avere interesse a destabilizzarne la catena di comando.
Ieri Caracciolo ha replicato ai transfughi sottolineando che «la notizia è largamente sopravvalutata». Lo è anche in chiave numerica, visto che i consiglieri (fra scientifici e redazionali) sono un esercito: 106, ben più dei giornalisti che lavorano. Parlando con Il Fatto Quotidiano, il direttore ha aggiunto: «Noi siamo una rivista di geopolitica. Occorre analizzare i conflitti e ascoltare tutte le voci, anche le più lontane. Non possiamo metterci da una parte contro l’altra ma essere aperti a punti di vista diversi. Pubblicare non significa condividere il punto di vista dell’uno o dell’altro».
Argentieri lo ha messo sulla graticola con un paio di motivazioni surreali: avrebbe sbagliato a prevedere l’invasione russa nel febbraio 2022 («Non la faranno mai») e continua a colorare la Crimea come territorio russo sulle mappe, firmate dalla formidabile Laura Canali. Caracciolo non si scompone: «Avevo detto che se Putin avesse invaso l’Ucraina avrebbe fatto una follia. Pensavo che non l’avrebbe fatta, ho sbagliato, mi succede. Non capisco perché a distanza di tempo questo debba provocare le dimissioni». Capitolo cartina: «Chiunque sbarchi a Sebastopoli si accorge che si trova in Russia e non in Ucraina; per dichiarazione dello stesso Zelensky gli ucraini non sono in grado di recuperare quei territori».
Gli analisti lavorano sullo stato di fatto, non sui desiderata dei «Volenterosi» guidati da Bruxelles, ai quali i media italiani hanno srotolato i tradizionali tappetini. E ancora convinti come Napoleone e Hitler che la Russia vada sconfitta sul campo. Se Limes non ha creduto che Putin si curava con il sangue di bue; che uno degli eserciti più potenti del mondo combatteva con le pale; che Mosca era ridotta a usare i microchip delle lavatrici per far volare i missili, il problema non è suo ma di chi si è appiattito sulla retorica dopo aver studiato la Storia sui «Classici Audacia» a fumetti. Nel febbraio del 2024 Limes titolava: «Stiamo perdendo la guerra». Aveva ragione, notizia ruvidamente fattuale. La disinformazione da nube tossica aleggia altrove.
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