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2022-10-10
Trump: negoziati subito tra russi e ucraini
Donald Trump (Ansa)
«Ora abbiamo una guerra tra Russia e Ucraina con potenzialmente centinaia di migliaia di morti. Dobbiamo iniziare immediatamente a negoziare per una fine pacifica della guerra in Ucraina o finiremo nella terza guerra mondiale, e non rimarrà più niente del nostro pianeta, perché persone stupide non comprendono la potenza nucleare». Così Donald Trump si è espresso sabato, durante un comizio in Nevada. Ora, prima che qualcuno cominci a dire che l’ex presidente Usa è un filorusso, vale la pena di fare qualche precisazione. Ad aprile, Trump definì la guerra in Ucraina un «genocidio». Inoltre, per quanto da presidente avesse avuto un rapporto personale cordiale con Vladimir Putin, non ha mai portato avanti una politica filorussa. Era dicembre 2019, quando inflisse sanzioni al Nord Stream 2: gasdotto caldeggiato invece da Mosca e Berlino. Sempre Trump aveva del resto criticato la Germania per la sua eccessiva dipendenza energetica dalla Russia.
Era invece maggio 2018 quando si sfilò dal controverso accordo sul nucleare iraniano: accordo appoggiato da Bruxelles e Mosca. Tra l’altro, andrebbe rammentato che è stato proprio Joe Biden a tentare di rilanciare l’intesa sul nucleare e a togliere le sanzioni al Nord Stream 2: tutto questo, senza ottenere alcuna contropartita concreta da Putin. Se c’è quindi qualcuno che è tacciabile di appeasement verso il leader russo (soprattutto tra aprile e luglio dell’anno scorso), quello è proprio Biden. Trump, di contro, ha costantemente lavorato, con Mike Pompeo, per un’efficace strategia di deterrenza verso gli avversari degli Usa. D’altronde, sarà un caso: ma Putin ha aggredito l’Ucraina sempre quando nello studio ovale sedevano presidenti dem (nel 2014, ai tempi di Barack Obama, e nel 2022 con Biden). Detto en passant: appena quattro giorni prima dell’invasione russa, Kamala Harris affermò che la strategia di deterrenza della Casa Bianca stava funzionando.
Tuttavia le parole pronunciate sabato da Trump sono rivolte anche alla politica interna. L’8 novembre si terranno le elezioni di metà mandato e, secondo i sondaggi, i repubblicani riprenderanno quasi certamente il controllo almeno della Camera. Ebbene, un grosso punto interrogativo riguarda proprio l’impatto della crisi ucraina sugli umori degli elettori. Secondo un recente sondaggio Ipsos, circa tre quarti degli americani sono favorevoli a mantenere il sostegno a Kiev. Larga parte del Partito repubblicano è di quest’idea. Le incognite sorgono tuttavia sotto due aspetti: gli impatti indiretti della crisi ucraina e le modalità di aiuto a Kiev.
Quanto agli impatti indiretti, il dossier principale è il caro energia: un nodo che si sta ripresentando dopo la recente decisione dell’Opec di tagliare la produzione di petrolio. Si tratta di un grattacapo che rischia di affossare Biden e i dem nelle settimane immediatamente precedenti al voto. Inoltre, il suddetto sondaggio Ipsos registra che il 58% degli americani teme uno scontro nucleare con Mosca. In secondo luogo, c’è la questione della modalità di aiuto agli ucraini. Sebbene gran parte dei repubblicani abbia votato a favore dei pacchetti di sostegno a Kiev, alcuni settori conservatori stanno lanciando allarmi. E non ci riferiamo solo alla minoranza isolazionista che considera trascurati i dossier di politica interna (come il controllo della frontiera a Sud). No: ci riferiamo anche a figure istituzionali. È per esempio il caso del presidente della Heritage Foundation, Kevin Roberts. «Heritage ha sostenuto e continua a sostenere un aiuto militare responsabile all’Ucraina. Ma la politica estera dovrebbe garantire ciò che è meglio per i contribuenti americani e fornire risultati, non solo gettare soldi su un problema, senza una strategia, senza un piano e senza un obiettivo finale», ha scritto in un recente editoriale. Heritage è il principale think tank conservatore americano e, oltre ad aver sempre espresso posizioni critiche verso il Cremlino, esercita storicamente una forte influenza sul Partito repubblicano. Lo stesso Pompeo, da sempre pro Ucraina, ha biasimato le parole di Biden sull’Armageddon, sostenendo di sperare che la Casa Bianca stia usando la «diplomazia silenziosa» per dissuadere Putin dall’uso di armi nucleari.
Tutto ciò non vuol quindi dire che, se i repubblicani riprenderanno il Congresso, l’Ucraina sarà abbandonata a sé stessa. Significa, semmai, che spingeranno probabilmente Biden a una spesa più attenta e a elaborare una strategia maggiormente coerente: una strategia che cerchi di ripristinare innanzitutto la deterrenza perduta. Un passo, questo, fondamentale se si vuole cercare di uscire dalla crisi, evitando uno scenario nucleare.
Stampa americana e Putin d’accordo: «C’è Kiev dietro l’attentato al ponte»
A quarantotto ore dall’attacco al ponte di Crimea sono ancora molte le domande su come si sono svolti realmente i fatti. È stato davvero un camion bomba? Oppure è stato lanciato un missile Mgm-140 (Atacms)? E chi è stato? Le parti si accusano reciprocamente: secondo Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, quanto accaduto al ponte di Kerch sarebbe «una manifestazione del conflitto tra le forze di sicurezza russe, in particolare tra l’Fsb (i servizi di sicurezza interni) da un lato e il ministero della Difesa e lo Stato maggiore dall’altro».
I russi invece non hanno dubbi sul fatto che ad attaccare il ponte simbolo della annessione della Crimea alla Russia sia stata una squadra speciale dello Sbu, il servizio segreto di Kiev. Il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che chi ha fatto esplodere il ponte di Crimea sono «i servizi speciali dell’Ucraina», che hanno commesso «un atto di terrorismo». Il New York Times ha riferito che un alto funzionario ucraino protetto dall’anonimato ha dichiarato: «L’intelligence ucraina ha partecipato all’esplosione». Le autorità russe, che nel frattempo hanno istituito una commissione d’inchiesta per far luce sui fatti, hanno anche ordinato ai sommozzatori della Marina militare «di esaminare l’entità dei danni causati dalla potente esplosione di un camion bomba».
I sub hanno iniziato a lavorare ieri mattina alle 6 (le 5 in Italia), mentre i risultati di un’indagine più dettagliata dei danni dovrebbe essere disponibile già nella giornata odierna. Dell’attacco ha parlato il governatore della Crimea insediato dal Cremlino, Sergei Aksyonov, che ha dichiarato: «Naturalmente si sono scatenate le emozioni e c’è un sano desiderio di vendetta. La situazione è gestibile: è spiacevole, ma non fatale». Una prima risposta russa è arrivata l’altra notte con i 12 attacchi contro Zaporizhzhia che hanno interessato una serie di aree residenziali: il bilancio provvisorio parla di almeno 17 morti (ci sono bambini) e 87 feriti.
Del bombardamento ha parlato il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba che su Twitter ha chiesto nuove armi all’Occidente: «Abbiamo urgente bisogno di più moderni sistemi di difesa aerea e missilistica per salvare vite innocenti. Invito i partner ad accelerare le consegne». A lui ha risposto Aleksei Polishchuk, direttore del secondo dipartimento per la Csi al ministero degli Esteri russo, che alla Tass ha affermato: «Le consegne da parte dell’Occidente a Kiev di armi a lungo raggio o più potenti diventeranno una linea rossa per la Russia».
Di armi (quelle atomiche) ha parlato alla Abc il portavoce del Consiglio di sicurezza della Casa Bianca John Kirby che sulle recenti dichiarazioni del presidente Usa, Joe Biden, sul rischio di un Armageddon atomico ha detto: «I commenti riflettono l’elevatissima posta in gioco ma non sono basati su dati di intelligence recenti né su nuove indicazioni sul fatto che Putin abbia preso la decisione di usare armi nucleari. Non abbiamo alcuna indicazione che abbia preso questo genere di decisione, né abbiamo visto qualcosa che ci spinga a riconsiderare la nostra postura nucleare strategica nei nostri sforzi a difesa dei nostri interessi in campo di sicurezza nazionale».
Oggi si terrà una riunione del Consiglio di sicurezza russo (38 membri), presente anche il presidente Vladimir Putin. Di sicuro ci saranno il primo ministro, i presidenti delle due camere (Consiglio federale e Duma di stato), il capo dello staff di Putin, tre ministri (Difesa, Esteri e Interno), i direttori di Fsb, Svr, Guardia russa e il segretario del Consiglio. Si discuterà della guerra e di quanto accaduto sul ponte di Crimea; tuttavia, potrebbe essere anche l’occasione per annunciare nuovi cambiamenti all’interno dello Stato russo. Quali? Il canale Telegram della Compagnia militare privata Wagner, di proprietà dell’oligarca Yevgeny Prigozhin, fedelissimo di Putin, da giorni ha preso di mira il ministro della Difesa Sergeij Shoigu e il capo di Stato maggiore, Valerij Gerasimov, entrambi accusati pubblicamente dal leader ceceno Razman Kadyrov e dallo stesso Prigozhin di essere i responabili anche del tracollo avvenuto durante la controffensiva ucraina. Secondo quanto affermato, Shoigu e Gerasimov verrebbero sostituiti con il governatore di Tula Alexey Dyumin e il vice comandante in capo delle forze di terra, il tenente generale Alexander Matovnikov. In serata si è appreso, attraverso il governatore Serhiy Gaidai, che l’esercito ucraino ha riconquistato sette nuovi insediamenti nella regione orientale di Lugansk, proprio quella annessa alla Russia la scorsa settimana.
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«Persone stupide non comprendono la potenza nucleare»: appello a trattative urgenti dell’ex presidente, da sempre più anti Putin di Joe Biden. Anche i conservatori, in testa ai sondaggi, premono perché gli Stati Uniti riprendano il loro ruolo nella deterrenza bellica.Bombe su Zaporizhzhia come rappresaglia. A Mosca alcuni ministri sono a rischio.Lo speciale contiene due articoli.«Ora abbiamo una guerra tra Russia e Ucraina con potenzialmente centinaia di migliaia di morti. Dobbiamo iniziare immediatamente a negoziare per una fine pacifica della guerra in Ucraina o finiremo nella terza guerra mondiale, e non rimarrà più niente del nostro pianeta, perché persone stupide non comprendono la potenza nucleare». Così Donald Trump si è espresso sabato, durante un comizio in Nevada. Ora, prima che qualcuno cominci a dire che l’ex presidente Usa è un filorusso, vale la pena di fare qualche precisazione. Ad aprile, Trump definì la guerra in Ucraina un «genocidio». Inoltre, per quanto da presidente avesse avuto un rapporto personale cordiale con Vladimir Putin, non ha mai portato avanti una politica filorussa. Era dicembre 2019, quando inflisse sanzioni al Nord Stream 2: gasdotto caldeggiato invece da Mosca e Berlino. Sempre Trump aveva del resto criticato la Germania per la sua eccessiva dipendenza energetica dalla Russia. Era invece maggio 2018 quando si sfilò dal controverso accordo sul nucleare iraniano: accordo appoggiato da Bruxelles e Mosca. Tra l’altro, andrebbe rammentato che è stato proprio Joe Biden a tentare di rilanciare l’intesa sul nucleare e a togliere le sanzioni al Nord Stream 2: tutto questo, senza ottenere alcuna contropartita concreta da Putin. Se c’è quindi qualcuno che è tacciabile di appeasement verso il leader russo (soprattutto tra aprile e luglio dell’anno scorso), quello è proprio Biden. Trump, di contro, ha costantemente lavorato, con Mike Pompeo, per un’efficace strategia di deterrenza verso gli avversari degli Usa. D’altronde, sarà un caso: ma Putin ha aggredito l’Ucraina sempre quando nello studio ovale sedevano presidenti dem (nel 2014, ai tempi di Barack Obama, e nel 2022 con Biden). Detto en passant: appena quattro giorni prima dell’invasione russa, Kamala Harris affermò che la strategia di deterrenza della Casa Bianca stava funzionando. Tuttavia le parole pronunciate sabato da Trump sono rivolte anche alla politica interna. L’8 novembre si terranno le elezioni di metà mandato e, secondo i sondaggi, i repubblicani riprenderanno quasi certamente il controllo almeno della Camera. Ebbene, un grosso punto interrogativo riguarda proprio l’impatto della crisi ucraina sugli umori degli elettori. Secondo un recente sondaggio Ipsos, circa tre quarti degli americani sono favorevoli a mantenere il sostegno a Kiev. Larga parte del Partito repubblicano è di quest’idea. Le incognite sorgono tuttavia sotto due aspetti: gli impatti indiretti della crisi ucraina e le modalità di aiuto a Kiev.Quanto agli impatti indiretti, il dossier principale è il caro energia: un nodo che si sta ripresentando dopo la recente decisione dell’Opec di tagliare la produzione di petrolio. Si tratta di un grattacapo che rischia di affossare Biden e i dem nelle settimane immediatamente precedenti al voto. Inoltre, il suddetto sondaggio Ipsos registra che il 58% degli americani teme uno scontro nucleare con Mosca. In secondo luogo, c’è la questione della modalità di aiuto agli ucraini. Sebbene gran parte dei repubblicani abbia votato a favore dei pacchetti di sostegno a Kiev, alcuni settori conservatori stanno lanciando allarmi. E non ci riferiamo solo alla minoranza isolazionista che considera trascurati i dossier di politica interna (come il controllo della frontiera a Sud). No: ci riferiamo anche a figure istituzionali. È per esempio il caso del presidente della Heritage Foundation, Kevin Roberts. «Heritage ha sostenuto e continua a sostenere un aiuto militare responsabile all’Ucraina. Ma la politica estera dovrebbe garantire ciò che è meglio per i contribuenti americani e fornire risultati, non solo gettare soldi su un problema, senza una strategia, senza un piano e senza un obiettivo finale», ha scritto in un recente editoriale. Heritage è il principale think tank conservatore americano e, oltre ad aver sempre espresso posizioni critiche verso il Cremlino, esercita storicamente una forte influenza sul Partito repubblicano. Lo stesso Pompeo, da sempre pro Ucraina, ha biasimato le parole di Biden sull’Armageddon, sostenendo di sperare che la Casa Bianca stia usando la «diplomazia silenziosa» per dissuadere Putin dall’uso di armi nucleari. Tutto ciò non vuol quindi dire che, se i repubblicani riprenderanno il Congresso, l’Ucraina sarà abbandonata a sé stessa. Significa, semmai, che spingeranno probabilmente Biden a una spesa più attenta e a elaborare una strategia maggiormente coerente: una strategia che cerchi di ripristinare innanzitutto la deterrenza perduta. Un passo, questo, fondamentale se si vuole cercare di uscire dalla crisi, evitando uno scenario nucleare.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-negoziati-subito-russi-ucraini-2658417020.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="stampa-americana-e-putin-daccordo-ce-kiev-dietro-lattentato-al-ponte" data-post-id="2658417020" data-published-at="1665351083" data-use-pagination="False"> Stampa americana e Putin d’accordo: «C’è Kiev dietro l’attentato al ponte» A quarantotto ore dall’attacco al ponte di Crimea sono ancora molte le domande su come si sono svolti realmente i fatti. È stato davvero un camion bomba? Oppure è stato lanciato un missile Mgm-140 (Atacms)? E chi è stato? Le parti si accusano reciprocamente: secondo Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, quanto accaduto al ponte di Kerch sarebbe «una manifestazione del conflitto tra le forze di sicurezza russe, in particolare tra l’Fsb (i servizi di sicurezza interni) da un lato e il ministero della Difesa e lo Stato maggiore dall’altro». I russi invece non hanno dubbi sul fatto che ad attaccare il ponte simbolo della annessione della Crimea alla Russia sia stata una squadra speciale dello Sbu, il servizio segreto di Kiev. Il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che chi ha fatto esplodere il ponte di Crimea sono «i servizi speciali dell’Ucraina», che hanno commesso «un atto di terrorismo». Il New York Times ha riferito che un alto funzionario ucraino protetto dall’anonimato ha dichiarato: «L’intelligence ucraina ha partecipato all’esplosione». Le autorità russe, che nel frattempo hanno istituito una commissione d’inchiesta per far luce sui fatti, hanno anche ordinato ai sommozzatori della Marina militare «di esaminare l’entità dei danni causati dalla potente esplosione di un camion bomba». I sub hanno iniziato a lavorare ieri mattina alle 6 (le 5 in Italia), mentre i risultati di un’indagine più dettagliata dei danni dovrebbe essere disponibile già nella giornata odierna. Dell’attacco ha parlato il governatore della Crimea insediato dal Cremlino, Sergei Aksyonov, che ha dichiarato: «Naturalmente si sono scatenate le emozioni e c’è un sano desiderio di vendetta. La situazione è gestibile: è spiacevole, ma non fatale». Una prima risposta russa è arrivata l’altra notte con i 12 attacchi contro Zaporizhzhia che hanno interessato una serie di aree residenziali: il bilancio provvisorio parla di almeno 17 morti (ci sono bambini) e 87 feriti. Del bombardamento ha parlato il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba che su Twitter ha chiesto nuove armi all’Occidente: «Abbiamo urgente bisogno di più moderni sistemi di difesa aerea e missilistica per salvare vite innocenti. Invito i partner ad accelerare le consegne». A lui ha risposto Aleksei Polishchuk, direttore del secondo dipartimento per la Csi al ministero degli Esteri russo, che alla Tass ha affermato: «Le consegne da parte dell’Occidente a Kiev di armi a lungo raggio o più potenti diventeranno una linea rossa per la Russia». Di armi (quelle atomiche) ha parlato alla Abc il portavoce del Consiglio di sicurezza della Casa Bianca John Kirby che sulle recenti dichiarazioni del presidente Usa, Joe Biden, sul rischio di un Armageddon atomico ha detto: «I commenti riflettono l’elevatissima posta in gioco ma non sono basati su dati di intelligence recenti né su nuove indicazioni sul fatto che Putin abbia preso la decisione di usare armi nucleari. Non abbiamo alcuna indicazione che abbia preso questo genere di decisione, né abbiamo visto qualcosa che ci spinga a riconsiderare la nostra postura nucleare strategica nei nostri sforzi a difesa dei nostri interessi in campo di sicurezza nazionale». Oggi si terrà una riunione del Consiglio di sicurezza russo (38 membri), presente anche il presidente Vladimir Putin. Di sicuro ci saranno il primo ministro, i presidenti delle due camere (Consiglio federale e Duma di stato), il capo dello staff di Putin, tre ministri (Difesa, Esteri e Interno), i direttori di Fsb, Svr, Guardia russa e il segretario del Consiglio. Si discuterà della guerra e di quanto accaduto sul ponte di Crimea; tuttavia, potrebbe essere anche l’occasione per annunciare nuovi cambiamenti all’interno dello Stato russo. Quali? Il canale Telegram della Compagnia militare privata Wagner, di proprietà dell’oligarca Yevgeny Prigozhin, fedelissimo di Putin, da giorni ha preso di mira il ministro della Difesa Sergeij Shoigu e il capo di Stato maggiore, Valerij Gerasimov, entrambi accusati pubblicamente dal leader ceceno Razman Kadyrov e dallo stesso Prigozhin di essere i responabili anche del tracollo avvenuto durante la controffensiva ucraina. Secondo quanto affermato, Shoigu e Gerasimov verrebbero sostituiti con il governatore di Tula Alexey Dyumin e il vice comandante in capo delle forze di terra, il tenente generale Alexander Matovnikov. In serata si è appreso, attraverso il governatore Serhiy Gaidai, che l’esercito ucraino ha riconquistato sette nuovi insediamenti nella regione orientale di Lugansk, proprio quella annessa alla Russia la scorsa settimana.
Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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Thierry Breton (Ansa)
«Condanniamo fermamente la decisione degli Stati Uniti di imporre restrizioni di viaggio a cinque individui europei, tra cui l’ex commissario Thierry Breton. Reagiremo», è stato il commento postato sull’account X della Commissione, «la libertà di parola è il fondamento della nostra forte e vivace democrazia europea. Ne siamo orgogliosi. La proteggeremo. Perché la Commissione europea è la custode dei nostri valori», ha cinguettato con piglio autoreferenziale Ursula von der Leyen, cui ha fatto eco la sua vice Kaja Kallas: «La decisione degli Stati Uniti è un tentativo di sfidare la nostra sovranità. L’Europa continuerà a difendere i suoi valori: libertà di espressione, regole digitali eque e il diritto di regolamentare il nostro spazio». Sembrerebbero parole giuste e coraggiose, se non fosse che il bersaglio della decisione di Rubio è la stessa persona che della libertà di espressione ha fatto strame, ideando la famigerata legge del Dsa (Digital services act), che impone alle grandi piattaforme misure di moderazione arbitrarie che di fatto limitano il free speech.
È Breton che il 12 agosto 2024 ha vergato di suo pugno, su carta intestata dell’esecutivo Ue, una lettera senza precedenti in cui, alla vigilia di un’intervista di Elon Musk a Donald Trump su X, ha minacciato Musk di «censura preventiva». Una pesante interferenza nella campagna elettorale Usa due mesi prima delle presidenziali, coronata dalla gravosa multa di 120 milioni di euro comminata dall’Ue a Musk tre settimane fa per violazioni di obblighi di trasparenza previsti dal Dsa, indicando tra i «problemi rilevati» perfino il design della «spunta blu». E non è tutto: a gennaio scorso, Breton non si è fatto problemi nel dichiarare che l’Unione «ha gli strumenti per bloccare qualsiasi ingerenza straniera, come ha fatto in Romania (dove le elezioni sono state invalidate su pressione europea, ndr) e come dovrà fare, se necessario, anche in Germania».
Che il Dsa uccida non soltanto il Primo emendamento ma anche le aziende americane è un altro dato di fatto: l’Unione europea incassa più dalle multe (a Meta, Google, Apple e X) che dalle tasse pagate dalle aziende tecnologiche europee. Per l’amministrazione Trump, però, la questione è soprattutto di principio: «Per troppo tempo, gli ideologi in Europa hanno guidato iniziative organizzate per costringere le piattaforme Usa a punire i punti di vista americani a cui si oppongono.
L’amministrazione Trump non tollererà più questi vergognosi atti di censura extraterritoriale», ha scritto senza mezzi termini Rubio. Christopher Landau, vice segretario di Stato, ha ricordato la missiva di Breton come «una delle lettere più agghiaccianti che abbia mai letto», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder, ha ricordato che «ironia della sorte, le aziende statunitensi che stanno soffrendo delle politiche oppressive di Bruxelles, delle multe e dell’eccedenza normativa sono proprio le aziende che possono portare l’Ue nell’economia dell’Ia (…) investendo e creando posti di lavoro, ma non a rischio di multe paralizzanti (…) che censurano la libertà di parola e ostacolano la crescita economica».
La revoca del visto impedirà a Breton di partecipare agli eventi pianificati negli Stati Uniti, comprese le conferenze tecnologiche. Chi di censura ferisce, di censura perisce.
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A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
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