
Nel discorso sullo stato dell'Unione, il presidente detta una propria linea smarcata dai due schieramenti: lavoro per gli americani, altri muri in difesa dei confini, commercio più equo. Mano tesa ai democratici, ma solo per non paralizzare la sua attività di governo.Linguaggio presidenziale ma con venature antipolitiche. Il discorso sullo stato dell'Unione, tenutosi questa notte a Washington, ha mostrato un Donald Trump particolare, che sembra di fatto già guardare alle presidenziali del 2020. Un presidente che è più volte ricorso al principio dell'unità nazionale (ricordando anniversari storici che vanno dalla «grande crociata» di Eisenhower allo sbarco sulla luna), non rinunciando però alla sua classica linea di figura antisistema e avversa ai crismi del professionismo politico.Nei suoi 82 minuti di discorso, il magnate newyorchese ha innanzitutto rivendicato quelli che considera i principali successi della propria amministrazione: dalla ripresa economica alla creazione di nuovi posti di lavoro, dalla riforma del sistema giudiziario al taglio delle tasse, passando per lo scontro commerciale con la Cina. Il tutto condito da un accorato appello all'unità, in un momento molto delicato in cui un mancato accordo sull'immigrazione potrebbe far scattare nuovamente lo shutdown tra pochi giorni. Elemento che ha portato il magnate a tendere una mano ai democratici. «Insieme», ha detto Trump, «possiamo rompere decenni di stallo politico. Possiamo superare tutte le divisioni, possiamo superare vecchie divisioni, guarire vecchie ferite, costruire nuove coalizioni, forgiare nuove soluzioni e sbloccare la straordinaria promessa del futuro dell'America. La decisione sta a noi». Non a caso, il presidente ha toccato alcuni tasti particolarmente cari a buona parte della sinistra dem. Non solo ha citato la necessità di una riforma infrastrutturale, ma sulla sanità ha sostenuto di volersi battere per abbassare i costi dei medicinali e tutelare i pazienti con condizioni preesistenti. Insomma, una mano tesa che ha il chiaro obiettivo di riportare compattezza all'interno di un Congresso spaccato: un Congresso che, in queste condizioni, rischia evidentemente di paralizzare la sua attività di governo. Ciononostante il presidente non ha rinunciato ad alcuni suoi vecchi cavalli di battaglia. Innanzitutto - pur celandola sotto la velatura di uno spirito bipartisan - il magnate ha ribadito la propria linea antipolitica. «L'agenda che presenterò questa sera», ha dichiarato, «non è un'agenda repubblicana o un'agenda democratica, è l'agenda del popolo americano. Molti di noi hanno condotto una campagna con le stesse promesse di base, per difendere i posti di lavoro americani e chiedere un commercio equo per i lavoratori americani». In secondo luogo, il presidente ha tenuto il punto sulla questione dell'immigrazione, ribadendo la necessità di rafforzare e difendere il confine meridionale. «È una questione morale. La situazione senza legge del nostro confine meridionale è una minaccia per l'integrità, la sicurezza e il benessere economico di tutta l'America. Abbiamo il dovere morale di creare un sistema di immigrazione che protegga la vita e l'occupazione dei nostri cittadini. Ciò include il nostro obbligo nei confronti dei milioni di immigrati che vivono qui oggi, che hanno seguito le regole e rispettato le nostre leggi». Perché «la tolleranza verso l'immigrazione illegale non è compassionevole: è in realtà molto crudele», ha affermato, citando i benefici che i trafficanti di esseri umani traggono dal caos che si verifica al confine con il Messico. Da qui, l'esigenza di un muro. Infine, sulla politica estera il presidente ha mescolato due linee contrapposte: se da una parte è venuto incontro alle correnti interventiste dell'establishment di Washington (sottolineando il ritiro dal trattato Inf con la Russia), dall'altra ha ricordato con orgoglio il processo di distensione avviato con la Corea del Nord, annunciando un nuovo incontro con Kim Jong Un il 27 e il 28 febbraio in Vietnam. Ha inoltre evidenziato la sua prospettiva tendenzialmente isolazionista, dichiarando: «Le grandi nazioni non combattono guerre senza fine». Elementi che mettono in luce come il presidente stia faticando non poco a superare quelle logiche da Guerra fredda che aveva promesso di abbandonare. Logiche che i falchi di Washington cercano di mantenere vive e vegete ma che il magnate, pur tra alterni successi, sta pian piano riuscendo a picconare.Con questo discorso, Trump ha tracciato il perimetro delle relazioni con il Congresso dei prossimi due anni. Il presidente sa di trovarsi infatti davanti a un bivio, dovendo scegliere se aprire all'Asinello o prediligere al contrario la strada dello scontro totale. Bisognerà adesso vedere se i punti di convergenza tra i due fronti (a partire della riforma infrastrutturale) serviranno realmente a gettare un ponte, inaugurando una collaborazione in grado di portare avanti un'agenda bipartisan. Certo è che la questione dell'immigrazione continua a rivelarsi una spada di Damocle sospesa sulla Casa Bianca: un elemento su cui nessuno sembra veramente disposto a fare un passo indietro. Né Trump (che sulla proposta del muro ha costruito la propria campagna elettorale nel 2016), né i democratici (che vogliono colpire la credibilità del presidente nell'aspetto saliente del suo storico programma politico). In tutto questo, le presidenziali del 2020 si fanno sempre più vicine. E, anche in tal senso, il discorso di stanotte segna uno spartiacque. Perché, nonostante i toni presidenziali e concilianti, le parole di Trump possono paradossalmente suonare anche come una dichiarazione di guerra. La dichiarazione di un presidente pronto nuovamente a scendere in campo contro tutto e tutti. Perché il magnate sa bene che, in fin dei conti, l'ostruzionismo dei democratici potrebbe riportarlo alla Casa bianca. E tutto si potrà dire di Trump. Tranne che non sappia fare campagna elettorale.
Vladimir Putin (Ansa)
Il piano Usa: cessione di territori da parte di Kiev, in cambio di garanzie di sicurezza. Ma l’ex attore non ci sta e snobba Steve Witkoff.
Donald Trump ci sta riprovando. Nonostante la situazione complessiva resti parecchio ingarbugliata, il presidente americano, secondo la Cnn, starebbe avviando un nuovo sforzo diplomatico con la Russia per chiudere il conflitto in Ucraina. In particolare, l’iniziativa starebbe avvenendo su input dell’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che risulterebbe in costante contatto con il capo del fondo sovrano russo, Kirill Dmitriev. «I negoziati hanno subito un’accelerazione questa settimana, poiché l’amministrazione Trump ritiene che il Cremlino abbia segnalato una rinnovata apertura a un accordo», ha riferito ieri la testata. Non solo. Sempre ieri, in mattinata, una delegazione di alto livello del Pentagono è arrivata in Ucraina «per una missione conoscitiva volta a incontrare i funzionari ucraini e a discutere gli sforzi per porre fine alla guerra». Stando alla Cnn, la missione rientrerebbe nel quadro della nuova iniziativa diplomatica, portata avanti dalla Casa Bianca.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.





