I predicatori entrano al Beccaria. Ma nessuno si chiede come mai in un istituto minorile due terzi dei detenuti siano musulmani: è una vera e propria bomba sociale.
I predicatori entrano al Beccaria. Ma nessuno si chiede come mai in un istituto minorile due terzi dei detenuti siano musulmani: è una vera e propria bomba sociale.La notizia che nel carcere minorile milanese presterà servizio un imam, con funzioni di guida spirituale per i ragazzi detenuti di fede musulmana, ha fatto storcere il naso a molti. Innanzitutto, per il sospetto che il predicatore possa contribuire a indottrinare i giovani detenuti e incanalarli verso l’integralismo religioso. E poi perché in materia di servizi, prediche e sermoni non sembrano i bisogni più urgenti da garantire a chi ha violato la legge spacciando, rubando, stuprando e commettendo ogni altro genere di reato. Tuttavia, io non sono né stupito né scandalizzato dalla decisione di far entrare in carcere un imam, allo scopo di avviare un dialogo con i detenuti musulmani. Semmai la mia sorpresa è dovuta al fatto che l’iniziativa, con cui si apriranno le porte del Beccaria a un predicatore del Corano, è rivolta a una maggioranza di reclusi che non è italiana e nemmeno di religione cattolica. I dati sono sorprendenti. Secondo l’indagine condotta in collaborazione con il tribunale dei minori e con l’arcivescovado milanese, nell’istituto di correzione lombardo nel 2024 sono stati rinchiusi poco meno di 300 ragazzi, 227 dei quali stranieri. Già questa informazione dovrebbe far riflettere, perché se una minoranza di immigrati stimata in circa l’8 per cento della popolazione italiana «produce» una popolazione di detenuti che è pari a più dei due terzi del totale, c’è qualche cosa che non va. Ma a questo si deve aggiungere che sul totale dei detenuti stranieri, l’87 per cento è di religione islamica. In altre parole, su 297 giovani agli arresti, circa 200 sono musulmani. Due su tre: la maggioranza.È questo il dato che ci dovrebbe far riflettere, al di là dell’ingresso di un imam nel carcere per intrattenersi con i detenuti. Siccome l’idea di consentire l’accesso alle celle di un religioso islamico è stata tenuta a battesimo da Viminale, ministero della Giustizia e arcivescovo, sono convinto che il predicatore coranico sarà stato scelto con accuratezza e non fra chi invoca la sharia e propugna di sterminare tutti gli infedeli per diffondere il verbo di Allah. Ma a prescindere dal fatto che l’imam rispetti le nostre leggi e non faccia proselitismo a favore degli integralisti, a colpirmi e preoccuparmi sono i numeri dei detenuti di fede islamica. Com’è possibile che, nonostante in Italia i musulmani siano appena un milione e mezzo, i detenuti del carcere minorile milanese che pregano rivolgendosi alla Mecca siano pari a due terzi del totale? È evidente che c’è qualche cosa che non va e quel numero, per quanto piccolo sia, perché riguarda un solo penitenziario e non tutti quelli disseminati lungo la Penisola, ci dice che stiamo allevando potenziali criminali. Non dico terroristi, pronti a farsi saltare in aria in mezzo alla folla o a sgozzare il vicino. Però se le celle traboccano di minorenni fedeli al Corano, superando per numero quelle dei detenuti di altre religioni, forse dovremmo riflettere, perché siamo davanti a un fenomeno che non ha precedenti e un domani potrebbe esploderci tra le mani. Non voglio dire che tutti i giovani rinchiusi nel Beccaria siano potenzialmente combattenti dell’Isis. Però evidentemente quei ragazzi rappresentano un problema. Non so se di mancata integrazione, di disagio o altro: tuttavia, rischiano di essere una bomba sociale e non credo che a disinnescarla basti un imam.C’è qualcosa che dovremmo capire e analizzare a fondo, prima di trovarci nella situazione con cui devono fare i conti altri Paesi con immigrazione di più lunga data come Francia, Belgio, Gran Bretagna o Germania. Durante il periodo degli attentati islamici abbiamo scoperto che esistono enclave di cui lo Stato nazionale non ha il controllo. Banlieue e sobborghi dove vige la sharia e non le leggi della Republique o della monarchia dei Windsor. Dove il faro nella vita della comunità non è la Costituzione, ma il Corano. Altro che mandare gli imam in cella e consentire la preghiera verso la Mecca o il Ramadan. Qui dobbiamo chiederci perché due terzi dei detenuti sono islamici e subito dopo correre ai ripari.
Lirio Abbata (Ansa)
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(Stellantis)
Nel 2026 il marchio tornerà a competere nella massima categoria rally, dopo oltre 30 anni di assenza, con la Ypsilon Rally2 HF. La storia dei trionfi del passato dalla Fulvia Coupé alla Stratos alla Delta.
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Lo ha annunciato uno dei protagonisti degli anni d'oro della casa di Chivasso, Miki Biasion, assieme al ceo Luca Napolitano e al direttore sportivo Eugenio Franzetti: la Lancia, assente dal 1992 dalla massima categoria rallystica, tornerà protagonista nel campionato Wrc con la Ypsilon Rally2 HF. La gara d'esordio sarà il mitico rally di Monte Carlo, in programma dal 22 al 26 gennaio 2026.
Lancia è stata per oltre quarant’anni sinonimo di vittoria nei mondiali di Rally. Un dominio quasi senza rivali, partito all’inizio degli anni Cinquanta e terminato con il ritiro dalle competizioni all’inizio degli anni Novanta.
Nel primo dopoguerra, la casa di Chivasso era presente praticamente in tutte le competizioni nelle diverse specialità: Formula 1, Targa Florio, Mille Miglia e Carrera. All’inizio degli anni ’50 la Lancia cominciò l’avventura nel circo dei Rally con l’Aurelia B20, che nel 1954 vinse il rally dell’Acropoli con il pilota francese Louis Chiron, successo replicato quattro anni più tardi a Monte Carlo, dove al volante dell’Aurelia trionfò l’ex pilota di formula 1 Gigi Villoresi.
I successi portarono alla costituzione della squadra corse dedicata ai rally, fondata da Cesare Fiorio nel 1960 e caratterizzata dalla sigla HF (High Fidelity, dove «Fidelity» stava alla fedeltà al marchio), il cui logo era un elefantino stilizzato. Alla fine degli anni ’60 iniziarono i grandi successi con la Fulvia Coupè HF guidata da Sandro Munari, che nel 1967 ottenne la prima vittoria al Tour de Corse. Nato ufficialmente nel 1970, il Mondiale rally vide da subito la Lancia come una delle marche protagoniste. Il trionfo arrivò sempre con la Fulvia 1.6 Coupé HF grazie al trio Munari-Lampinen-Ballestrieri nel Mondiale 1972.
L’anno successivo fu presentata la Lancia Stratos, pensata specificamente per i rallye, la prima non derivata da vetture di serie con la Lancia entrata nel gruppo Fiat, sotto il cui cofano posteriore ruggiva un motore 6 cilindri derivato da quello della Ferrari Dino. Dopo un esordio difficile, la nuova Lancia esplose, tanto da essere definita la «bestia da battere» dagli avversari. Vinse tre mondiali di fila nel 1974, 1975 e 1976 con Munari ancora protagonista assieme ai navigatori Mannucci e Maiga.
A cavallo tra i due decenni ’70 e ’80 la dirigenza sportiva Fiat decise per un momentaneo disimpegno di Lancia nei Rally, la cui vettura di punta del gruppo era all’epoca la 131 Abarth Rally.
Nel 1982 fu la volta di una vettura nuova con il marchio dell’elefantino, la 037, con la quale Lancia tornò a trionfare dopo il ritiro della casa madre Fiat dalle corse. Con Walter Röhrl e Markku Alèn la 037 vinse il Mondiale marche del 1983 contro le più potenti Audi Quattro a trazione integrale.
Ma la Lancia che in assoluto vinse di più fu la Delta, che esordì nel 1985 nella versione speciale S4 sovralimentata (S) a trazione integrale (4) pilotata dalle coppie Toivonen-Wilson e Alen-Kivimaki. Proprio durante quella stagione, la S4 fu protagonista di un drammatico incidente dove morì Henri Toivonen assieme al navigatore Sergio Cresto durante il Tour de Corse. Per una questione di giustizia sportiva il titolo piloti fu tolto alla Lancia alla fine della stagione a favore di Peugeot, che era stata accusata di aver modificato irregolarmente le sue 205 Gti.
L’anno successivo esordì la Delta HF 4WD, che non ebbe rivali con le nuove regole del gruppo A: fu un dominio assoluto anche per gli anni successivi, dove la Delta, poi diventata HF Integrale, conquistò 6 mondiali di fila dal 1987 al 1992 con Juha Kankkunen e Miki Biasion. Lancia si ritirò ufficialmente dal mondo dei rally nel 1991 L’ultimo mondiale fu vinto l’anno successivo dal Jolly Club, una scuderia privata appoggiata dalla casa di Chivasso.
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