2020-07-02
Tre sentenze diverse alimentano i dubbi sull’evasione fiscale
Inchiodato Silvio Berlusconi, la corte assolse un imputato in un caso analogo. Stesso copione in sede civile. Perché queste disparità?Il giudice che ha rivelato a Silvio Berlusconi di aver subito pressioni affinché lo condannasse per aver frodato il fisco, non si limitò a incontrare il suo imputato dichiarandosi pentito per averlo spedito agli arresti domiciliari e averlo, di fatto, estromesso dal Parlamento. Il pentimento lo manifestò anche per iscritto, redigendo una sentenza uguale e contraria a quella contro il Cavaliere. Nessuno lo ricorda più, ma nel 2015 mi resi protagonista di un piccolo scoop giornalistico, rivelando che Amedeo Franco, il magistrato di Cassazione che scrisse la sentenza capestro contro il fondatore di Forza Italia, dieci mesi dopo aver messo la parola fine a un processo lungo e complesso sui diritti cinematografici di Mediaset, assolse un imprenditore sostenendo esattamente il contrario di quel che aveva sostenuto quando si era trovato a giudicare Berlusconi. Sì, una legge e due sentenze. L'una e l'altra diametralmente opposte. Se l'ex capo di governo non poteva non sapere e dunque era da ritenersi colpevole, nonostante in quegli anni all'interno dell'azienda che aveva fondato non avesse alcun ruolo e non avesse firmato i bilanci ritenuti fraudolenti, nel giudizio contro un manager accusato di frode fiscale che pure non aveva sottoscritto i bilanci falsi, la Cassazione decise per l'assoluzione. Il tutto a dieci mesi di distanza da un pronunciamento all'altro. A me allora sembrò sinceramente un'ammissione: uno dei giudici che aveva condannato il Cavaliere dimostrava il proprio ravvedimento. Una specie di messaggio subliminale, per riconoscere che il fondatore di Forza Italia era stato vittima di una sentenza ingiusta.La suprema corte, con la decisione del 20 maggio 2014, si rimangiava infatti tutto ciò che aveva sostenuto nel caso Mediaset, dicendo che un cittadino non può essere condannato in base a una presunzione di colpevolezza, ma serve che l'accusato abbia attivamente partecipato alla frode, essendo responsabile dell'atto decisivo dell'evasione fiscale, ossia redigendo e sottoscrivendo la dichiarazione dei redditi. Testuale: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale». Non è tutto: il giudice Amedeo Franco, quello che nella registrazione definisce una mascalzonata la condanna di Berlusconi, scrive: i reati di frode non possono essere provati «dalla mera condotta di utilizzazione ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione». In pratica, la sentenza della Cassazione stabilì, dieci mesi dopo ma giudicando un altro, che se anche il Cavaliere fosse stato a conoscenza dei fatti che gli venivano imputati e anche se avesse autorizzato degli illeciti, i suoi comportamenti non avrebbero potuto essere censurati. Per convincersene, basta leggere anche un altro passaggio scritto dallo stesso giudice del processo Mediaset: «I comportamenti di un soggetto quando ancora era amministratore di una società e che si era dimesso prima della dichiarazione dei redditi (è il caso del fondatore di Forza Italia, che dal consiglio di amministrazione dell'azienda era uscito da anni, ndr), non possono essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi». Chiaro il concetto? Altro che non poteva non sapere: se anche avesse saputo non doveva essere condannato. Qualcuno a questo punto potrebbe ritenere che Amedeo Franco abbia deciso in maniera difforme per una particolarità del caso, ma in realtà il giudice si allineò a una giurisprudenza consolidata, che solo nel caso di Berlusconi non fu applicata.Tuttavia, questa non è l'unica stranezza. Nei mesi scorsi, a rendere ancora più incredibile la faccenda è giunta un'altra sentenza, che si contrappone a quella con cui è stato condannato il Cavaliere. Ma prima di addentrarci in questa vicenda serve una premessa. Il processo Mediaset nasce dall'accusa di aver utilizzato un prestanome allo scopo di evadere il fisco nelle operazioni di acquisto dei diritti cinematografici. Secondo la sentenza, Frank Agrama era una testa di legno, perché in realtà le provvigioni pagate finivano in tasca a Berlusconi. Preso atto della condanna, Mediaset si è rivolta al giudice, perché se quei soldi erano stati sottratti all'Erario allo scopo di pagare meno tasse, prima ancora erano stati sottratti all'azienda e dunque dovevano tornare nella disponibilità della società. Quella del gruppo televisivo è stata quasi una decisione dovuta, cioè una logica conseguenza della condanna in capo al suo fondatore. E però il tribunale civile di Milano, in contrasto con le indagini della Procura di Milano, e con la sentenza della Cassazione, ha stabilito che Frank Agrama non era un prestanome, ma un agente con una propria attività e dunque quei soldi gli erano dovuti. Anche in questo caso, una legge e due sentenze in conflitto fra loro. Sappiamo bene che la giustizia penale non dice alla giustizia civile che cosa si deve sentenziare e viceversa, dunque ci possono essere condanne in contrasto. Ma un cittadino crede che la legge sia uguale per tutti e che, pur essendo cieca, la Giustizia non faccia distinzioni. Nel caso Berlusconi, le sentenze sono così diverse che forse è l'ora di interrogarsi su pareri, che a partire da quello di sette anni fa per finire a quello di quest'anno, sembrano smentirsi a vicenda.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)