2020-06-06
Franca Leosini: «Tratto i delitti con passione umana ma con il distacco di un chirurgo»
La conduttrice di Storie Maledette: «Scelgo i casi di cronaca nera che mi colpiscono di più nel profondo. Ogni episodio richiede circa tre mesi, per Avetrana ho dovuto leggere 10.000 pagine di atti processuali».«Come va, come va al giornale?». Le prime parole di Franca Leosini, nella telefonata che precede l'esordio di Storie Maledette, su RaiTre domani sera, non sono per il suo programma, ma per la stasi alla quale si è tutti costretti. «Credo molto nel contatto umano. In questa situazione, rischiamo di diventare tante monadi: è un'esistenza più complicata, questa», dice la Leosini, spiegando come il coronavirus abbia influenzato lo sviluppo del suo show. «Giustamente, sono stati chiusi i cancelli della carceri e io non ho potuto registrare quello che avrei dovuto». Delle quattro puntate di Storie Maledette che avrebbero dovuto andare in onda, due sole sono state registrate. Una, la prima, ripercorre l'omicidio di Dina Dore, che il marito ha fatto uccidere davanti alla figlioletta Elisabetta, otto mesi appena. Sul delitto, andrebbe apposta l'etichetta di «femminicidio», ma Franca Leosini non la ama. «Sono stata molto criticata per questo, ma femminicidio è un termine che non mi piace. Ognuno ha le proprie passioni lessicali e, benché «femminicidio» identifichi bene ciò a cui si riferisce, io mi sono permessa di dire che non mi piace. Mi sembra quasi poco rispettoso. Non si dice maschicidio e io trovo più elegante «omicidio ai danni di una donna». Non elegante, via, l'eleganza lasciamola alle giacche», si corregge, «Più adeguato».I suoi tailleur sono parte di lei, come la messa in piega e certe battute scaltre. Quanto c'è di costruito nel personaggio Leosini?«Io riporto in televisione la mia realtà. Le giacche le possiedo, sono mie. Confesso che le indosso la prima volta in video, siamo donne. Ma poi le uso nella mia quotidianità. Se non fossi reale, sarei un bluff. E i bluff si scoprono. Si scoprono nelle partite a carte, figurarsi in una partita, Storie Maledette, che dura da 26 anni».Eppure, «L'incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s'inforcava le mutande» suona piuttosto forbito. «Contesto il forbito. Una volta, mi è stato detto che ho «un linguaggio ricercato». Ho risposto che io lo possiedo, non lo ricerco. E ci tengo molto. Le parole sono il mio background, le conosco, non le cerco per poterle poi utilizzare in televisione».Ma il femminicidio esiste o non esiste?«C'è un'emergenza culturale, e in questo periodo in cui le coppie hanno dovuto convivere per necessità c'è stata una recrudescenza della violenza sulle donne. A me, però, continua a non piacere la parola».Come è nato Storie Maledette?«Mi è arrivata una telefonata dalla Rai. All'epoca, per la terza pagina de Il Tempo, seguivo il caso di Anna Grimaldi, uccisa, si pensava, dalla moglie giornalista del suo amante, Ciro Paglia. Il mio commento al grande processo era piaciuto e mi volevano come autrice di Telefono Giallo, con Corrado Augias. È stato costruendo la struttura narrativa di quelle prime puntate che mi sono resa conto di come mi interessasse l'intelligenza dell'indagine e non meno mi interessasse l'intelligenza umana e psicologica di chi ne era protagonista».Da ragazza, dunque, non aveva una fascinazione per la nera.«Sono sempre stata una lettrice onnivora, ma Carrère non è mai stato primo tra le mie letture. Ci tengo a dire che è lui che ha copiato da me, non viceversa (ride, ndr)».Come sceglie i suoi protagonisti?«In base all'interesse che ha suscitato in me un dato caso. Non mi importa della risonanza mediatica. Il caso Meredith Kercher non l'avrei trattato se non mi avesse colpito profondamente. Posso farle una domanda?».Prego.«Conosceva il caso Dore?».No.«Ne sono contenta, se ne è parlato poco. La cronaca è capricciosa e bizzarra, sa. Lo guardi. Francesco Rocca, suo marito, si è sempre professato innocente, ma è stato condannato in terzo grado. Altrimenti, non avrei potuto averlo».Cioè?«Storie Maledette è frutto di un procedimento lungo e complesso. È preferibile che la vicenda giudiziaria dei miei interlocutori sia conclusa, perché rischio di influire sull'esito del giudizio. Devo scegliere un caso, ottenere il consenso del protagonista, poi il permesso del direttore dell'istituto penitenziario nel quale questi si trova. Infine, il permesso del Dap».Quanto tempo ci mette a lavorare una puntata?«Non vorrei sembrare presuntuosa, ma direi che una puntata di Storie Maledette ha la stessa laboriosità di un film di Camilleri. Ci vogliono circa tre mesi».E fa tutto lei, autrice unica, conduttrice, addetta al montaggio.«Sì».Perché accentrare tutto?«Realizzare Storie Maledette è come cucinare una bistecca: o la fai meravigliosamente bene, e allora è buona, o è un'emerita schifezza. Solo in apparenza è cosa semplice. Per il caso Avetrana, il professor Coppi mi ha consegnato 10.000 pagine di atti processuali. Li ho letti e studiati. La mia non è maniacalità, ma necessità di sapere come sono andate le cose. Non c'è niente che possa essere lasciato al caso».Le è mai stato imposto nulla da forze esterne?«Mai. Non dalla politica, non dalla magistratura, non dai direttori di rete. Guglielmi, quando gli ho raccontato la prima volta l'idea del format, mi ha detto: «Il nome mi piace, voglio vedere cosa ci metti dentro».Eppure, il Pd ha tentato di ostacolare la messa in onda della puntata con Luca Varani.«Non vedo perché Varani non avrebbe dovuto avere lo stesso diritto di parola che hanno avuto altri. Sono stata molto dura con lui, è responsabile di uno dei reati più atroci: sfregiare una donna è quasi peggio che ucciderla».C'è qualche crimine di cui rifiuta di parlare?«Rifiuto la pedofilia e rifiuto di occuparmene. Non posso neanche definirla reato, è qualcosa di peggio: è una maledizione umana. Io tratto solo vicende private, che non abbiano a che fare con la malavita né con fatti di rivalità economica. Scelgo persone ordinarie, che passino da una normale quotidianità a un gesto che non gli somiglia affatto. Trovo importanti le passioni, che sono i sentimenti umani espressi anche nel rapporto genitori-figli. Storie Maledette è il grande romanzo della vita».Rudy Guede le si è proposto con una lettera. Cosa sperano di trovare nel suo programma i criminali?«Quasi, mi offende. Esiste la credibilità, e Storie Maledette è un unicum. Il noir ormai è usurato. E poi la parola criminali non è adatta».Si spieghi.«Criminale è un boss mafioso, chi vive di crimine. Le persone che intervisto sono creature ordinarie, come me e come lei. Hanno commesso un crimine: a un certo punto della vita, hanno perso la coscienza».E l'hanno più ritrovata?«Ho fatto 98 puntate di Storie Maledette, dal 1994 ad oggi. Credo di aver colto, in ogni ospite, il pentimento».Cosa ottengono i suoi ospiti ripercorrendo l'orrore di cui sono stati protagonisti?«Riescono a mostrare una realtà umana diversa da quella che è stata descritta all'epoca del delitto e del processo. C'è, in Storie Maledette, un fortissimo restauro di immagine: è come se permettesse ai protagonisti di ricucire la propria esistenza con la realtà esterna al carcere».E com'è possibile non restarne coinvolti?«Impegno. Devo mettermi davanti alle storie che tratto con la passione umana che ho e con il distacco di un chirurgo, perché se questi si emozionasse di fronte al tavolo operatorio avremmo più cadaveri che operati. Con Mary Patrizio, sono stata sull'orlo delle lacrime. A fine intervista, ho poggiato la testa sul tavolo e ho pianto un quarto d'ora. È stata lei, quella mamma di 29 anni che ha soffocato il proprio bambino nella vasca da bagno, a consolare me».A Open, ha detto che sta lavorando a un nuovo programma.«Sempre su RaiTre, ho un progetto al vaglio dei dirigenti. È piaciuto, chiaramente. Ma non sempre i progetti si riescono a realizzare. Da napoletana, e scaramantica, non le dirò una parola».Non ha mai provato nessuno a portarla via da RaiTre?«Altre reti, mai tematiche. Ma chi, tra i professionisti che hanno dato una prova decente di sé, non viene sollecitato da altre emittenti? La composizione di La7 è piena di ex volti Rai. Si faccia un'idea».Perché non ha mai accettato?«Guglielmi diceva che «RaiTre non è una rete, è uno stato d'animo». E quello stato d'animo mi appartiene. Io sono RaiTre. Mi sento libera, non mi sento mai sotto padrone. Nella mia scrivania in Rai, comunque, ho un pacchetto di lettere di editori che mi chiedono di scrivere libri. Ma non ho il tempo di farlo. Dovrei lasciare per un anno la televisione».In Italia, c'è un problema con la magistratura?«In Italia, c'è un grande e dovuto rispetto per la magistratura. Non è che una mela marcia faccia marce tutte le mele. Questo è un momento di bufera e tempesta, e il caso Palamara purtroppo è stato doloroso innanzitutto per la magistratura. Non è giusto, ed è anzi un errore da parte di chi giudica, generalizzare».
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