Il «ministro degli Esteri» Ue Josep Borrell: «La Bce dovrà inseguire i rialzi dei tassi della Fed o l’euro scenderà. Ma sarà recessione».
Il «ministro degli Esteri» Ue Josep Borrell: «La Bce dovrà inseguire i rialzi dei tassi della Fed o l’euro scenderà. Ma sarà recessione».Il discusso Nobel assegnato a Ben Bernanke, a suo modo, ha rimesso il faro sulla testa dei banchieri centrali, contribuendo - casomai ce ne fosse bisogno - a enfatizzare l’attesa messianica con cui le prossime mosse di Fed e Bce (ma non solo) sono osservate da governi, famiglie e imprese. Il whatever it takes di oltre dieci anni fa ha fatto comprendere plasticamente quanto di profondamente «politico» ci possa essere nelle decisioni delle istituzioni «indipendenti», fino a condizionare in modo profondo e diretto i destini dei governi e dei Paesi. Nulla di nuovo, ma il tornante di queste settimane è particolarmente carico di dubbi. Fin da oggi: Christine Lagarde è attesa negli Usa nelle ore in cui dalla pubblicazione delle «minute» del direttivo della Federal reserve dovrebbero giungere indizi sul futuro, probabile nuovo rialzo dei tassi a stelle e strisce nel mese di novembre. La misura risponderebbe a una inoppugnabile logica economica: alzare il costo del denaro normalmente stempera l’inflazione. Tuttavia, implica forti rischi recessivi (mutui, fidi, crediti alle imprese, debito pubblico diventano più cari con conseguenze facili da intuire). Molti osservatori si chiedono da tempo se l’escalation della Fed non porti il contesto finanziario (e politico) occidentale a circa 40 anni fa, quando il gigantesco governatore democratico Paul Volcker diede l’assalto all’inflazione da choc petrolifero con micidiali aumenti di tassi (noti appunto come «Volcker choc») all’inizio degli anni Ottanta. Secondo diversi esperti, quel brusco rialzo fu decisivo nel far lievitare in pochi anni il costo del servizio del nostro debito pubblico, esploso negli anni successivi dal 60% a oltre il 100% del Pil.Il dilemma - in cui potremmo sprofondare presto - è che quando gli Usa spingono sull’acceleratore, è molto complicato evitare di seguirli. E il fatto di avere, nel frattempo, costruito la moneta unica non ha risolto questo tipo di problemi. Il Financial Times ha riportato lunedì sera le parole pronunciate da Josep Borrell (socialista spagnolo, ex presidente del Parlamento europeo e successore di Federica Mogherini nella carica di «ministro degli Esteri» della Ue) davanti a un consesso di diplomatici: «Tutti dovranno seguire (la Fed, ndr), altrimenti la loro moneta sarà svalutata. Tutti correranno a rialzare i tassi e questo porterà una recessione mondiale». Atteso che in effetti l’euro si è già pesantemente svalutato sul dollaro in questi mesi, sono parole insieme realistiche e disarmanti: quasi come se, per salvare la tenuta di una moneta, fosse - se non giusto - per lo meno inevitabile «sacrificare» chi di quella moneta dovrebbe servirsi per garantirsi un livello decoroso di benessere grazie a un’economia in salute. Ci avviciniamo al paradosso di un’Unione europea che per reggersi deve colpire gli europei abbassando l’inflazione tramite distruzione di domanda? In una narrativa dominata dagli stilemi della «sostenibilità», una situazione del genere può reggere nel medio-lungo periodo?Secondo i virgolettati carpiti dai giornalisti della testata finanziaria, Borrell paragona poi il dominio valutario americano a quello del marco sulle divise europee «prima della creazione dell’euro». Una frase che, visto il contesto in cui sarebbe stata pronunciata, tradisce tutta la trincea scavata tra «atlantismo» ed «europeismo» in questa drammatica fase storica.Nelle stesse ore, infatti, il ministro «dell’Economia, delle Finanze e della sovranità industriale» francese, il potente Bruno Le Maire, scandiva queste parole: «Il conflitto in Ucraina non deve sfociare nella dominazione economica americana e nell’indebolimento dell’Ue. Non possiamo accettare che il nostro partner americano venda il suo Gnl a un prezzo quattro volte superiore a quello a cui lo vende ai suoi produttori».Anche qui, chi pensava che la moneta unica potesse tenere il Vecchio continente al riparo da choc economico-finanziari va incontro a grosse delusioni. In questa fase, in effetti, sembrano affiancarsi - sotto i colpi della crisi energetici avviata dalla transizione ecologica e fatti esplodere dal conflitto - i problemi strutturali di strumenti «centralizzati» (uno su tutti ovviamente la Bce stessa) e quelli derivanti dalle progressive asimmetrie all’interno dell’eurozona.Sempre il Financial Times, analizzando le conseguenze del mega piano di contrasto all’inflazione «da bolletta» annunciato dal governo Scholz, compulsava diversi analisti che portavano al cuore di un pasticcio apparentemente inestricabile: mentre l’industria tedesca beneficerebbe di minori prezzi dell’energia, l’aumento della domanda da essi derivante avrebbe il paradossale effetto di aumentare l’inflazione... per tutti gli altri. Alla concorrenza sleale denunciata (con altre parole) anche da Mario Draghi si sommerebbe l’effetto disgregante successivo: ai Paesi privati di stimoli «alla tedesca» resterebbero non solo i cocci di una possibile desertificazione ma anche l’onere di finanziare sussidi di disoccupazione indebitandosi a costi molto problematici. Ora non va più di moda parlare di spread, ma sotto Draghi il costo del servizio del nostro debito è aumentato sensibilmente e non è detto che, al dunque, le nuove condizioni per lo «scudo» della Bce vedano l’Italia al riparo, come ha spiegato su queste colonne l’economista Domenico Lombardi. Spiegava un analista interpellato dal quotidiano economico: «Una politica monetaria one-size-fits-all (uguale per tutti, ndr) diventerebbe più difficile da concepire e molto meno efficace nell’esecuzione, aggiungendosi alle forze di frammentazione già all’opera nell’eurozona». Non saranno mesi noiosi.
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