Eurostat: il Vecchio continente si svena per importare prodotti energetici verdi (quasi 24 miliardi, +10 in due anni). Non abbiamo nostra tecnologia e siamo costretti a comprare elettricità. Non ci resta che il nucleare.
Eurostat: il Vecchio continente si svena per importare prodotti energetici verdi (quasi 24 miliardi, +10 in due anni). Non abbiamo nostra tecnologia e siamo costretti a comprare elettricità. Non ci resta che il nucleare.Una manciata di numeri è sufficiente per avere la conferma di quanto fosse giusto denunciare da subito gli errori alla base del modello di transizione imposto dai socialisti europei. Un grande favore all’economia cinese e soprattutto una mazzata alla nostra sovranità tecnologica. Riportiamo i dati Eurostat. Nel 2023 il Vecchio continente ha importato pannelli solari per una valore di 19,7 miliardi, biocarburante per quasi 4 e turbine eoliche per 300 milioni di euro. Al contrario è riuscita a esportare turbine per un importo di circa 2 miliardi. Sul resto dell’energia verde siamo stati stracciati. Da chi? Beh, da Pechino, visto che il 98% di questi pannelli solari viene dalla Cina. L’anno prima, il 2022, non è andata meglio. L’Ufficio di statistica dell’Ue ha spiegato che il valore dei pannelli solari importati è diminuito del 12% rispetto al 2022, ma solo causa di un calo dei prezzi. La quantità è infatti aumentata del 5%. Le importazioni di biocarburanti liquidi hanno registrato un calo del 22% in valore, con un modesto calo del 2% in quantità. La sostanza non cambia. Tanto più che se andiamo a spulciare gli archivi e cercare i dati del 2021 vediamo che il Vecchio continente aveva speso per importare tecnologia verde 13,8 miliardi di euro complessivi. Compresi, cioè, pannelli, biocarburante e turbine. Mentre l’export era arrivato a 5,7 miliardi. Insomma, in un solo biennio, l’importazione è balzata di circa 10 miliardi e l’esportazione è persino calata di 600 milioni. Non è tanto per mettersi qui con il pallottoliere e fare i calcoli sul valore complessivo, ma tutta la politica dovrebbe sbandierare i dati per chiedere un enorme cambio di passo. Esattamente come sta avvenendo per l’automotive. Anzi con maggiore veemenza. Il modello basato sulle rinnovabili ci rende totalmente dipendenti dalla tecnologia altrui e, per di più, non garantisce nemmeno l’equilibrio energetico per la manifattura. Basta andare a vedere i dati che regolarmente diffonde Terna. Meno elettricità da fonti tradizionali, più rinnovabili. Ma molto più fabbisogno dipendente dall’estero. Nel 2023 il Paese ha richiesto poco più di 306 Terawattora: 142 da fonti non rinnovabili, 112,7 da energia rinnovabile e il rimanente, 51,3, importati dall’estero. Tradotto in percentuali significa nell’ordine: 46,5%, 36,8% e 16,7%. Nel 2022 l’esposizione ai produttori stranieri era del 13,6% e l’anno prima nel 2021, ancor meno. Cioè del 13,4%. Prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, insomma, eravamo più indipendenti. O, se si vuol dire in altre parol,e eravamo più autonomi dalla geopolitica. Purtroppo le scenario non si limita a questi pochi numeri. Più ci si addentra e più ci si rende conto che lo scacchiere è complesso e pieno di insidie. Per capirlo vale la pena spulciare un altro report sempre firmato Terna e pubblicato qualche mese fa. È il rapporto di adeguatezza relativo al 2023. A pagina 22 si spiega in termini semplici che cosa sia il margine di adeguatezza. Si tratta del valore matematico tra la somma della capacità di generazione elettrica disponibile, il livello di importazione dalle aree contigue e il fabbisogno aumentato della necessaria riserva terziaria. Il picco storico negativo è stato toccato a luglio del 2022, quando il valore ha raggiunto lo zero. O meglio gli zero Gigawatt. Nel 2023 si è risaliti a 2,3 Gigawatt. Comunque pochissimo. Il miglioramento in ogni caso è stato possibile non per un merito complessivo, ma per un demerito. Il Paese ha infatti visto scendere sensibilmente i consumi. La richiesta di energia sulla rete è diminuita del 2,8% rispetto al 2022 e addirittura del 4,3% rispetto al 2021. Non un dettaglio. Per fortuna, nel frattempo è cambiato il governo e l’attuale sembra aver compreso che all’Italia e in generale all’Europa serve il nucleare. La sola energia che ci permette di inquinare meno, garantire un ritorno tecnologico sovrano e bilanciare il peso delle rinnovabile. Non siamo certo a chiedere di eliminarle, ma di creare un mix utile alle aziende e alle tasche dei cittadini. Confindustria, dopo l’arrivo di Emanuele Orsini, si è schierata in modo chiaro non solo nei confronti della transizione e dell’auto elettriche ma sta ponendo obiettivi chiari sull’energia. Tradotto, anche gli industriali chiedono il nucleare. A breve dovrebbe essere annunciata una newco sotto il controllo del Mef alla quale saranno chiamate a contribuire tre aziende partecipate. Già in precedenza abbiamo raccontato dei progetti di Leonardo relativi allo sviluppo di Smr, small modular reactor, utili per i distretti produttivi o singoli siti da destinare ai data center. Un po’ come sta progettando Google negli Usa. A ciò dovrebbe aggiungersi la valutazione del nucleare di terza generazione che garantirebbe tempi più stretti rispetto agli Smr. Personalmente ci auguriamo che i dati di Eurostat siano un’ulteriore sveglia. Le auto elettriche sono soltanto uno dei temi da rimettere in discussione. Quello della tecnologia green in ambito energetico è un tema ben più ampio e più sensibile per la stabilità di uno Stato e del nostro Continente.
Vladimir Putin (Ansa)
Il piano Usa: cessione di territori da parte di Kiev, in cambio di garanzie di sicurezza. Ma l’ex attore non ci sta e snobba Steve Witkoff.
Donald Trump ci sta riprovando. Nonostante la situazione complessiva resti parecchio ingarbugliata, il presidente americano, secondo la Cnn, starebbe avviando un nuovo sforzo diplomatico con la Russia per chiudere il conflitto in Ucraina. In particolare, l’iniziativa starebbe avvenendo su input dell’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che risulterebbe in costante contatto con il capo del fondo sovrano russo, Kirill Dmitriev. «I negoziati hanno subito un’accelerazione questa settimana, poiché l’amministrazione Trump ritiene che il Cremlino abbia segnalato una rinnovata apertura a un accordo», ha riferito ieri la testata. Non solo. Sempre ieri, in mattinata, una delegazione di alto livello del Pentagono è arrivata in Ucraina «per una missione conoscitiva volta a incontrare i funzionari ucraini e a discutere gli sforzi per porre fine alla guerra». Stando alla Cnn, la missione rientrerebbe nel quadro della nuova iniziativa diplomatica, portata avanti dalla Casa Bianca.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.





