2024-09-25
Al tramonto la follia dell’auto solo elettrica
Che spegnere il motore termico entro il 2035 fosse un atto di autolesionismo dell’Europa a noi è sempre stato chiaro fin dal primo giorno in cui se ne parlò. E infatti negli ultimi anni abbiamo scritto a ripetizione contro la follia delle auto elettriche imposte per decreto da Bruxelles. Non serve infatti essere ingegneri per capire che nel breve periodo le vetture a batteria non possono sostituire i veicoli a combustione. E non soltanto per i costi, che nel caso delle quattro ruote a pila continuano a essere superiori rispetto a quelli dei mezzi alimentati da benzina o gasolio. Ma anche per una serie di questioni pratiche, che vanno dai tempi di ricarica ai punti in cui è consentito «fare il pieno», per finire alla capacità della rete elettrica di reggere un consumo diffuso, con milioni di macchine agganciate alle colonnine per caricarsi d’energia.Insomma, qualsiasi persona di buon senso, che non si fosse lasciata condizionare dall’ideologia green, avrebbe capito che lo stop alla produzione di motori a scoppio era un atteggiamento da Tafazzi, cioè voleva dire flagellarsi gli zebedei. Però a lungo si è voluto credere che fosse possibile, anche quando un manager come Luca De Meo, amministratore delegato del gruppo Renault, metteva in guardia dall’illusione di un parco macchine elettriche esteso a tutti i cittadini d’Europa, pronosticando che a far uso delle vetture a batteria sarebbe stata un’élite, mentre gli altri, in caso di stop alle auto a benzina o diesel, sarebbero dovuti andare a piedi.Sì, ci hanno creduto per anni, e ancora ci credono a Bruxelles, vedi il discorso di Ursula von der Leyen in vista della sua riconferma ai vertici della Ue. Ma a non crederci più sono i Paesi europei che vogliono salvare la loro industria automobilistica dal disastro e, soprattutto, i lavoratori del settore. Le notizie del giorno sono due. La prima riguarda la Germania, dove il governo tedesco, nella persona del ministro dell’Economia, il verde Robert Habeck, ha annunciato che «è necessario rivedere gli obiettivi di CO2 della Ue alla luce degli sviluppi attuali». Da ex presidente degli ambientalisti, il vicepremier di Olaf Scholz ha misurato le parole, cercando di non farsene scappare qualcuna che facesse apparire le sue dichiarazioni come una retromarcia. Ma il senso è chiaro: si può cominciare a discutere di come spostare la perentoria scadenza del 2035, che per l’industria automobilistica rischia di essere un cappio al collo. Del resto, anche il leader dell’opposizione, Friedrich Merz, probabile candidato cancelliere della Cdu alle prossime elezioni, si è già schierato a favore di un cambio di rotta sullo stop all’auto a motore termico. Quella di Habeck, tuttavia, è una voce che conta, perché la Germania è il maggior produttore europeo di auto, e l’invito al passo indietro sugli obiettivi di CO2 arriva dopo quello dell’Italia, per bocca del ministro Adolfo Urso.Ma non ci sono solo i governi a preoccuparsi per quanto potrebbe accadere nel settore dell’industria automobilistica se davvero si fermassero le catene di montaggio dei motori a combustione. Uno stop alle macchine a benzina e a gasolio avrebbe una ricaduta diretta sull’occupazione. E così, dopo mesi se non anni di silenzio, ecco svegliarsi pure i rappresentanti dei lavoratori. In Germania sono sul piede di guerra per la chiusura, per la prima volta nella storia del gruppo, di una fabbrica della Volkswagen, con relativi licenziamenti di quasi 2.000 persone. In Italia la trimurti sindacale dei metalmeccanici - Fiom, Fim e Uilm - ha indetto uno sciopero di otto ore dell’intero settore, con manifestazione a Roma il 18 di ottobre. L’astensione dal lavoro con scampagnata nella Capitale e rullo di tamburi vale quel che vale, cioè niente. Però è la prima volta che le confederazioni danno a vedere di essere in agitazione per quel che sta succedendo negli stabilimenti ex Fiat. Nonostante gran parte dei dipendenti di Stellantis fosse in cassa integrazione e gli unici modelli della casa non più torinese rischiassero di diventare le utilitarie di importazione cinese, i sindacati preferivano fino a ieri parlare d’altro. Con l’annuncio dell’astensione di metà ottobre, Fiom, Fim e Uilm danno prova di capire ciò che sta accadendo, mettendo nero su bianco che la transizione ambientale non può avvenire contro il lavoro e con costi sociali enormi. Beh, benvenuti nel mondo reale. Non ci voleva molto a capire che a pagare il conto del cambiamento sarebbero stati i lavoratori, ma adesso anche Cgil, Cisl e Uil hanno afferrato il concetto che le rivoluzioni, verdi o rosse non fa differenza, non sono un pranzo di gala.