2025-02-14
La Toscana ridotta a santuario della morte
Comunque la si pensi, il fine vita è un tema scivoloso. E il provvedimento di Giani, infatti, apre diversi fronti: dal «turismo sanitario», dagli altri territori alla legittimità dell’uccisione per mano dello Stato, fino alle possibili obiezioni di coscienza. Nodi ignorati dai dem. La Toscana, prima e al momento unica Regione in Italia, ha approvato una legge che autorizza il suicidio assistito. In pratica, un malato terminale sottoposto a un trattamento vitale, cioè tenuto in vita artificialmente e con sofferenza fisica, che sia in grado di intendere e volere, potrà chiedere di essere aiutato nella somministrazione di un farmaco letale. In altre parole, il paziente, a casa o in una struttura pubblica, con l’ausilio di un medico, avrà la facoltà di ottenere che gli sia tolta la vita, ma prima che ciò accada una commissione dovrà valutare la richiesta e confermare che ricorrano i requisiti previsti dalla legge. Secondo alcuni si tratta di una conquista civile, secondo altri si sta aprendo la porta all’eutanasia, delegando allo Stato le decisioni che riguardano la vita e la morte delle persone. L’argomento, comunque la si pensi, è scivoloso, perché da un lato ci sono persone che soffrono, che vorrebbero poter porre fine alla propria esistenza e anche alle sofferenze, e chiedono che sia il Servizio sanitario a farlo. Dall’altro c’è il tema enorme della tutela della persona, riconosciuto implicitamente dalla Costituzione. Se esiste un diritto alla vita che, secondo la Carta su cui si fonda la nostra Repubblica, deve essere dignitosa e non può essere tolta nemmeno di fronte al più aberrante dei delitti, può esistere il diritto alla morte? I giudici della legge, a cui era stato chiesto di rispondere a tale quesito, tempo fa avevano socchiuso la porta, chiedendo al Parlamento di regolare il cosiddetto fine vita, cioè di fare una legge che stabilisse i limiti del suicidio medicalmente assistito, ma molti anni sono passati e le Camere, che fossero a maggioranza di centrosinistra o di centrodestra, non hanno mai affrontato la questione. E così si arriva alla legge della Regione Toscana che, con un voto di misura che ha diviso la stessa maggioranza, ha introdotto una norma con cui si stabilisce chi ha diritto al trattamento per l’interruzione della propria vita. La decisione rompe diversi tabù. I più importanti sono etici: si può accettare che il Servizio sanitario, costruito sul concetto che le persone devono essere curate e salvate, possa anche interrompere le cure e aiutare le persone non a guarire ma a morire? Cioè, è ammissibile che insieme alle aspirine e agli antibiotici i medici distribuiscano anche la pillola della buona morte? E se negli ospedali ci sono sanitari che praticano l’obiezione di coscienza, perché non intendono contribuire a interrompere una gravidanza, di fronte alla richiesta di un suicidio medicalmente assistito un dottore potrà astenersi per motivi di coscienza? E nel caso in un reparto non si trovassero persone disposte a somministrare il farmaco letale, che cosa accadrà? Si dovrà assumere un medico specialista oppure il paziente sarà costretto a cercare nella Regione l’ospedale che pratica la buona morte? E come la mettiamo con il turismo sanitario, ovvero con il fatto che ci sono malati che si fanno curare in Regioni diverse da quella in cui risiedono: visto che la Toscana è l’unica ad aver introdotto questa possibilità, ci saranno malati di altre Regioni che vorranno accedere alla pratica? Inoltre la legge non rompe soltanto tabù etici e pratici, ma anche politici. Fino a ieri le Regioni rosse contrastavano l’autonomia, sostenendo che la riforma del ministro Calderoli rompeva l’unità d’Italia. Ma se una Regione sceglie di farsi da sola delle norme su un tema così delicato come il fine vita, che cosa rompe? Si può accettare che Firenze diventi un porto franco per chi vuole porre fine alla propria vita, mentre nel resto d’Italia tutto ciò resta vietato? Chi si indignava all’idea che in una scuola del Veneto si insegnassero alcune materie e in Sicilia altre, di fronte a una legge che in Toscana consente di morire a spese dello Stato non trova che questa sia una rottura dello Stato unitario? Lo so, probabilmente le mie appaiono provocazioni, ma un tema così complesso mi spinge a valutare tutti gli aspetti, anche quelli che appaiono forse più facili da risolvere. Detto ciò, mi ha colpito che la legge sia stata approvata proprio mentre in Veneto moriva Luigina Brustolin, una donna condannata per 33 anni a uno stato vegetativo. Nel 1992, quando aveva 27 anni, rimase vittima di un incidente stradale e da allora i suoi famigliari, prima la mamma e poi i fratelli, l’hanno sempre assistita e le hanno sempre parlato, guardando quegli occhi che si aprivano senza che dalla sua bocca uscisse una parola e senza che il suo corpo reagisse. In un’intervista, la sorella e il fratello hanno detto che quando si è saputo della sua scomparsa hanno ricevuto tanti messaggi, molti di critica. «C’è chi dice che è stato criminale tenerla lì per 33 anni a soffrire, altri dicono che sarebbe stato meglio se fosse morta. Si rende conto?», hanno detto all’intervistatrice. Già. Forse tutti questi leoni da tastiera pronti a criticare non si rendono conto che prima di sparare giudizi certe cose bisognerebbe provarle sulla propria pelle. «Se la vita ti mette davanti a una prova del genere», spiega Loris, «non puoi fare altro che gestirla, con le tue forze e con quello che ti offre questo Paese. A chi dice che sarebbe stato meglio se lei fosse morta subito rispondo: sì, e quindi? Cosa fai? Chi vuole rispondere a questa domanda?». Già, chi vuole rispondere?