2024-09-30
«Senza una proprietà privata diffusa il mercato non può essere libero»
Una protesta contro la concentrazione della ricchezza in un numero limitato di persone e contro il potere di banche e multinazionali (Getty Images). Nel riquadro John C. Medaille
Parla John C. Medaille, uno dei massimi esperti della teoria distributista: «Ciò che possediamo è ordinato a un fine e legato a un dovere. Non si può trattare il lavoro come capitale. Tra cattolicesimo e liberalismo c’è incompatibilità».John C. Medaille, professore di teologia ed economia presso l’Università di Dallas, è uno dei massimi esperti mondiali di distributismo, il pensiero politico-economico nato dalle riflessioni di intellettuali cattolici come Gilbert Keith Chesterton e Hilaire Belloc. Uno dei suoi più noti lavori in merito è Distributismo. Una politica economica di equità e di equilibrio, edito in Italia da Lindau. Il 21 settembre, il professor Medaille è intervenuto al primo congresso del Movimento distributista italiano, poi ha accettato di rilasciare questa intervista alla Verità.Professore, che cos’è il distributismo?«È la convinzione che il libero mercato non possa funzionare a meno che la proprietà non sia ampiamente distribuita. È molto più una filosofia di libero mercato di quanto lo sia il capitalismo, che tende a concentrare tutta la produzione in grandi conglomerati aziendali, distruggendo la teoria dei prezzi su cui si basano i mercati liberi. Solo se la proprietà e la produzione sono ben distribuite si può avere un mercato libero, con molte persone in concorrenza tra loro. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto culturale - che può essere addirittura più importante -, una cultura in cui le famiglie possono autosostenersi e molte persone possiedono proprietà è diversa da una in cui tutti sono operai di fabbrica o impiegati d’ufficio».Che cosa contesta il distributismo al pensiero economico convenzionale?«I tre fattori di produzione di base sono la terra, il lavoro e il capitale. Nell’economia premoderna, ciascuno di essi aveva le sue regole. Dal XIX secolo in poi, tuttavia, si è cercato di categorizzare tutto come fosse capitale, controllato dalla legge della domanda e dell’offerta. Questo, però, è completamente irrealistico. La terra, per esempio, non è influenzata dal prezzo: se quest’ultimo aumenta, nessuno genera più terra. Il lavoro, invece, è sempre legato alle persone, ma noi non produciamo esseri umani per rispondere a carenze nel mercato del lavoro, né smettiamo di riprodurci a causa di un eccesso. Trattando tutto come fosse capitale, dunque, non si è potuta sviluppare una teoria economica razionale. Il capitalismo, infatti, non ha mai distribuito abbastanza potere d’acquisto per assorbire la propria produzione, dunque fa affidamento sullo Stato come consumatore di ultima istanza. Se si tratta il lavoro come una merce, con un prezzo come tutte le altre, come può una merce acquistare tutte le altre merci? Non ha senso. Tuttavia, questo nonsense è al centro della teoria economica neoclassica, e ciò porta i governi a dover acquistare i beni e servizi in eccesso».Quali sono i pilastri del pensiero distributista e come il distributismo risolve quest’ultima questione?«Il pilastro principale è che la proprietà è un diritto sacro ma limitato. Tutti i diritti veri e propri si riconoscono dalle loro limitazioni, perché essi sono legati a dei doveri. Ad esempio, c’è il dovere di mantenere la propria famiglia e, proprio perché esiste, esiste anche il diritto ai mezzi per poterlo fare. L’attuale concezione della proprietà privata, invece, ritiene che si tratti di un diritto illimitato, e ciò rende possibile che una sola persona possa possedere tutto, o che poche grandi aziende possiedano la maggior parte della proprietà produttiva. Il distributismo, poi, prevede l’unione tra capitale e lavoro. Promuovendo un’ampia diffusione della proprietà, oltre a ridurre le rendite si garantisce che la produzione sia più localizzata e allineata ai bisogni delle comunità, diminuendo la probabilità di sovrapproduzione».È possibile, oggi, tradurre questa idea in realtà?«Un principio senza pratica è solo una banalità e nessuno dovrebbe preoccuparsene. In realtà, il distributismo è ampiamente praticato, penso per esempio all’associazione di cooperative Mondragon in Spagna o alle cooperative in Emilia-Romagna. In Usa, abbiamo esempi come la Springfield Remanufacturing Company e in Brasile c’è Semco. Nella pratica aziendale, invece, sta diventando sempre più riconosciuto che, a meno che non si condivida in una certa misura la proprietà, il controllo, la gestione e i profitti con i lavoratori, è molto difficile costruire un’impresa di successo a lungo termine. Il distributismo, dunque, sta trovando la sua strada nella teoria della gestione d’impresa».Nel suo libro parla di ridurre il ruolo degli Stati centrali diminuendo la spesa pubblica. L’idea non è eliminare i servizi pubblici, bensì localizzarli. In Italia e in Europa, però, abbiamo imparato che tagliare la spesa pubblica può portare al disastro economico, causando deflazione e disoccupazione. Come potrebbe avvenire questa transizione senza essere traumatica?«Prima di tutto, bisogna regionalizzare e localizzare la produzione. Lo Stato dovrebbe essere più grande del più grande proprietario terriero. Oggi negli Usa, lo Stato è spesso al servizio delle grandi imprese. Ci vorranno circa 10-15 anni, perché richiede una transizione. Un modo semplice per farlo è applicare pedaggi alle autostrade in base a peso e distanza. Le autostrade, come gli aeroporti e i porti, costituiscono un’enorme sovvenzione alle imprese. Se le aziende dovessero pagare i costi pieni per il trasporto dei loro beni, l’idea di esternalizzare la produzione in luoghi come Cina o India si rivelerebbe inefficiente. Per esempio, i costi per costruire le strade sono legati al peso: costruire per veicoli da 6.000 libbre è molto meno costoso che costruire per veicoli da 60.000 o 80.000 libbre. Gli utilizzatori di questi veicoli più grandi, però, non pagano completamente i loro costi, il che significa che sono sovvenzionati dal settore pubblico».In Ue abbiamo ceduto la sovranità monetaria alla Bce, ma molte competenze sono rimaste in capo ai singoli Stati. Questi ultimi hanno così perso uno dei principali strumenti di politica economica, e ora faticano ad adempiere ai loro compiti. Non c'è il rischio che questo accada ogni volta che le competenze sono delegate a livello locale, mentre il potere monetario resta nelle mani di un’autorità centrale?«Le dirò il mio pensiero, anche se i distributisti su questo potrebbero avere idee diverse. È assolutamente corretto affermare che perdere il controllo della moneta significhi perdere la sovranità, e questo l’ha dimostrato molto bene la Grecia. L’euro potrebbe essere utile come moneta commerciale, ma ogni nazione dovrebbe avere la propria valuta, poiché essa rappresenta la produzione interna. Se non controlla la propria valuta, uno Stato non può definirsi sovrano. Ecco perché credo bisogni localizzare la moneta insieme alla produzione. Per me è persino possibile che la Sicilia abbia una valuta e Bologna un’altra, con la lira come moneta commerciale tra di loro».Qualcosa di simile a quanto accadeva in passato.«Sì, esatto. Usavano una moneta simile all’euro come valuta commerciale, l’écu de marc, ma essa non veniva stampata: era solo una questione di cambio. La lira valeva un certo numero di écu de marc, la sterlina un altro. In questo modo potevano commerciare tra di loro, poiché erano tutte registrazioni contabili, non valute reali. Così, secondo me, dovrebbero funzionare l’euro e il dollaro».Oggi, se solo un Paese adotta politiche keynesiane al fine di aumentare occupazione, salari e domanda interna, specialmente in un sistema di cambi fissi come di fatto è l’euro, rischia di cadere in una crisi di debito estero che porterà poi a nuova austerità. Crede che sia possibile applicare il distributismo in un Paese solo, oppure occorre farlo di concerto?«È assolutamente possibile applicare il distributismo a livello locale. Le relazioni con qualsiasi specifico ordine regionale o internazionale dipenderanno poi dalle circostanze, ma credo che il potere negoziale migliori quando la produzione è maggiormente localizzata. Qui si ritorna al telos del commercio, al suo fine ultimo, cosa che abbiamo perso. Nessuna persona, città o Stato può essere autosufficiente. I doni di Dio sono distribuiti in modo diseguale su tutto il pianeta: alcune regioni hanno più petrolio, altre coltivano più grano, altre ancora dispongono di metalli utili come il litio. Il fine del commercio è equilibrare queste differenze e garantire la destinazione universale dei beni. Oggi, però, non abbiamo un vero e proprio commercio, ma solo un arbitraggio del mercato del lavoro. Abbiamo chiuso le fabbriche tessili in South Carolina e spostato la produzione in Bangladesh: questo non è vero commercio, perché non stiamo scambiando beni unici. In realtà, cerchiamo solo costi del lavoro più bassi, cosa resa possibile dai significativi sussidi pubblici concessi al sistema dei trasporti, senza i quali esso assorbirebbe tutti i risparmi sul lavoro».Pensa che sia giunto il momento per il pensiero cattolico di distanziarsi dal liberalismo e dal capitalismo?«Assolutamente. Basterebbe leggere le encicliche sociali. Spesso i Papi erano più preoccupati per il socialismo perché sembrava una minaccia più immediata, ma in tutte le encicliche, senza eccezione, vengono messi in discussione i principi del liberalismo. La dottrina sociale cattolica non può razionalmente essere allineata con il capitalismo».C’è consapevolezza negli Usa dell’incompatibilità tra principi cattolici e liberalismo?«Credo che la politica americana si trovi attualmente in uno strano stato, cosa che accade periodicamente. Abbiamo vissuto situazioni simili negli anni Trenta, Settanta e Ottanta. Uno dei candidati è completamente ancorato al liberalismo puro e, ironicamente, è il candidato conservatore. A mio avviso, non ci sono veri conservatori in America. Ci sono solo liberali del XIX secolo travestiti da conservatori».
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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