2018-11-03
Tanta caciara sulle nostre banche ma stanno meglio di Deutsche bank
Tutti gli istituti europei passano gli stress test di Eba e Bce. Per Intesa, Unicredit, Ubi e Banco Bpm risultati migliori del colosso tedesco. In fondo alla classifica le inglesi. Piazza Affari fa +1,07%, lo spread scende a 287. A Parigi sale il deficit ma l'Europa pensa solo a punire l'Italia. Dieci nazioni del Nord chiedono di rivedere il fondo salvastati: «Avvertimento per Roma». Silenzio invece sui conti francesi. Lo speciale contiene due articoli. Alla fine i risultati degli stress test realizzati dall'autorità bancaria europea, l'Eba, e dalla Bce su 48 banche hanno definitivamente scongiurato il peggio. Anche in uno scenario avverso molto simile a quello attuale dove in Italia il differenziale tra Btp e Bund viaggia intorno ai 280-300 punti, gli istituti del Belpaese hanno mostrato di avere le spalle larghe. Lo stesso, purtroppo non si può dire di altri colossi del mondo bancario che hanno passato i test per il «rotto della cuffia». Per mettere alla prova i maggiori gruppi bancari del Vecchio Continente l'Eba ha passato al microscopio i bilanci proiettando i dati del dicembre scorso sul triennio 2018-2020 secondo due scenari: di base e avverso, quello peggiore, che simula crollo del Pil, aumento dei rischi sovrani con calo della liquidità e caduta dei prezzi immobiliari. Per l'Italia la diminuzione aggregata del Pil triennale è prevista introno al 2,7%, con deviazione del 2,2% del tasso di disoccupazione e «picchiata» dell'indice di Borsa di circa un terzo per ogni anno. Nonostante questo scenario «apocalittico», Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banco Bpm e Ubi Banca ce l'hanno fatta. In uno scenario economico avverso nel 2020 il cet1 del gruppo guidato da Jean Pierre Mustier si ridurrebbe di 346 punti base nel 2020 arrivando a quota 9,34% dal 12,80% di fine 2017. Buono considerando anche il fatto che gli attuali test rispetto a quelli del 2017 sono persino cambiati. Questi dati non tengono in considerazione la piena attuazione delle norme europee sui requisiti di capitale e su tale base la Bce prenderà le proprie decisioni sul livello di patrimonio che la banca dovrà assicurare. Tenendo conto della piena attuazione di quelle norme (e di tutte le nuove disposizioni contabili ifrs 9) il cet1 a fine 2020 sarebbe sceso di 334 punti base a quota 9,34 da 12,68% di fine 2017. Come sottolinea l'istituto, «lo stress test europeo 2018 non contiene una soglia di pass-fail (promosso bocciato, ndr), è stato invece pensato per essere utilizzato come un'importante fonte di informazioni» per capire la solidità di una banca. Tra gli istituti più forti c'è sicuramente Intesa. Stando allo scenario peggiore, l'istituto guidato da Carlo Messina vedrebbe scendere il cet1 nel 2020 di 284 punti base a 10,40% dai 13,24% di fine 2017. Ciononostante, l'esito dello stress test condotto su Intesa, fa sapere una nota, «non considera gli effetti dell'aumento di capitale del luglio 2018 e della conversione delle azioni di risparmio in azioni ordinarie dell'agosto 2018, fattori che avrebbero influito positivamente». Pertanto Ca' de Sass dovrebbe avere le spalle ancora più solide rispetto a quanto rilevato dall'Eba. Anche Banco Bpm e Ubi hanno passato gli esami. Secondo lo scenario peggiore, Banco Bpm vedrebbe ridursi il cet1 di 547 punti base a quota 8,47% dai 13,94% di fine 2017. Tenendo conto della piena attuazione delle regole Ue sui requisiti di capitale per le banche, la perdita sarebbe di 453 punti base, con un cet1 a quota 6,67% rispetto all'11,20% di fine 2017. «Tali risultati sono ancora più soddisfacenti se si tiene conto che l'esercizio di stress test è stato svolto in un momento peculiare per il gruppo», si legge in una nota, «e che le regole dell'esercizio stesso non hanno consentito di tenere conto di azioni specifiche già completate in relazione al piano di fusione; si fa particolare riferimento a costi non ripetibili e al derisking dei crediti in sofferenza già ceduti nel corso del primo semestre del 2018». In effetti, Banco Bpm è l'unico gruppo a essere passato attraverso una fusione e ad avere investito nel 2018 non poche risorse nella pulizia dei bilanci, fattori che non sono stati conteggiati nelle valutazioni dell'Eba. Più risicato il risultato di Ubi Banca, con l'indicatore cet1 che, nella peggiore delle ipotesi, verrebbe ridotto di 338 punti base a quota 8,32% nel 2020 rispetto all'11,70% di fine 2017. La situazione è meno confortante al di fuori dei confini. Societe Gènerale del 7,61%, La Banque Postale dell'8,22% e Barclays del 7,28%. Il gruppo inglese è quello con l'indicatore di capitale nelle peggiori condizioni con un valore che si avvicina pericolosamente a quello che gli investitori considerano il minimo indispensabile per sopportare un ipotetico crollo dell'economia. Mentre per quanto riguarda la Germania, il Cet 1 di Deutsche Bank scenderebbe dal 14,65% di fine 2017 all'8,14% nel 2020. Un grande balzo indietro che segnala le costanti difficoltà del comparto bancario tedesco. Senza contare che l'istituto da ieri ha anche un nuovo socio. Il fondo hedge Hudson executive capital ha preso il 3% dell'istituto. Paradosso vuole che il fondo sia americano e la banca sia uscita pesantemente azzoppata dalla propria campagna Usa. In parallelo all'esercizio Eba, la Bce ha condotto degli stress test anche sulle banche sottoposte alla sua diretta supervisione, ma che non rientrano nel campione Eba. In Italia gli istituti interessati da questi sono stati Carige, Bper, Mediobanca, Popolare di Sondrio, Iccrea e Credem. Non sono previste bocciature nemmeno in questo caso e le indiscrezioni non lasciano intendere alcun voto particolarmente negativo. Stando a questi numeri le banche italiane sembrano godere di una salute migliore di tanto omologhe europee, un risultato che, ancora una volta, dovrebbe far pensare chi continua a fare il tifo per lo spread. Tanto che ieri il differenziale ha segnato 287 punti e Piazza Affari è salita di oltre l'uno percento. Gianluca Baldini<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/tanta-caciara-sulle-nostre-banche-ma-stanno-meglio-di-deutsche-bank-2617501526.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="a-parigi-sale-il-deficit-ma-leuropa-pensa-solo-a-punire-litalia" data-post-id="2617501526" data-published-at="1758066034" data-use-pagination="False"> A Parigi sale il deficit ma l’Europa pensa solo a punire l’Italia c1.staticflickr.com Non ci voleva la sfera di cristallo per capire che nelle prossime settimane il contesto europeo sarebbe stato caratterizzato da un clima sfavorevole per il nostro Paese. Come se non bastassero i toni incendiari che perdurano ormai da più di un mese tra Roma e Bruxelles, a peggiorare le cose si è aggiunto un minaccioso documento firmato da dieci Paesi membri dell'Unione, quasi tutti situati a settentrione del continente. Un sodalizio già ribattezzato la «nuova Lega anseatica», in ricordo dell'alleanza che unì per alcuni secoli, in età medievale, le città più importanti che si affacciavano sul mar Baltico. Oggi, a riunirsi sotto le insegne dell'austerità e del rigore dei conti sono Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lituania, Lettonia, Svezia, Olanda, Slovacchia e Repubblica Ceca. Tutti Paesi relativamente piccoli, ma dietro ai quali si nasconde la pesante influenza della Germania. Dimenticatevi della tanto sbandierata solidarietà europea: il paper redatto dai dieci Stati nordici in vista dell'Ecofin che si terrà lunedì e martedì prossimi a Bruxelles si basa semmai sul principio del «chi fa da sé fa per tre». Sullo sfondo, la possibilità che si verifichi a livello europeo una nuova crisi del debito sovrano, analoga a quella che colpì la Grecia nel 2010. Per come stanno adesso le cose, se un membro dell'Eurozona dovesse trovarsi di fronte a un'eventualità del genere, a intervenire sarebbe il Meccanismo di stabilità europeo (Esm), altrimenti noto come fondo salvastati. Quest'ultimo rappresenta, a tutti gli effetti, un'organizzazione intergovernativa che agisce come prestatore di ultima istanza nel caso un Paese non riesca a piazzare sul mercato i titoli del proprio debito pubblico. Ciò si può verificare magari a causa di una crisi dello spread talmente forte da mettere in dubbio la sostenibilità dei conti pubblici di uno Stato membro, oppure a seguito di un declassamento a livello «spazzatura» dei titoli sovrani da parte di un'agenzia di rating. Casistiche che fanno immediatamente pensare al nostro Paese, sul quale si è posato ormai da diverse settimane l'occhio minaccioso dei mercati. Giova ricordare che le situazioni appena menzionate non sono necessariamente correlate allo stato di salute dei conti pubblici. Come si ostina a ripetere ormai da molti mesi il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, «i livelli dei rendimenti sui titoli di Stato non riflettono i dati fondamentali del Paese». Ciò nonostante, il perdurare di elevati livelli di spread per un tempo prolungato può incidere sulla capacità delle banche di erogare nuovo credito, dal momento che il loro capitale finisce per essere indirizzato altrove. La ricetta dei neo anseatici si basa su un concetto piuttosto semplice. Qualora un Paese fosse interessato a fare ricorso al fondo salvastati, ma presentasse allo stesso tempo un elevato livello di debito pubblico, ad assorbire le perdite ancora prima dell'Esm dovrebbero essere gli investitori. Tradotto, le banche e i privati cittadini. «Ciò impedirà», argomentano i sottoscrittori, «ai Paesi di continuare ad avere un debito pubblico insostenibile e limiterà il loro accesso alle risorse pubbliche del fondo di emergenza». Sulla carta, il documento redatto dai falchi nordici si rivolge a tutta l'eurozona. Di fatto, però, l'identikit tracciato fa dell'Italia il principale destinatario. Un «duro avvertimento» al nostro Paese, l'ha definito il quotidiano olandese De Volksrante, ma contemporaneamente anche un'azione tesa alla difesa dei risparmi dei cittadini degli Stati considerati più «virtuosi». Non è la prima volta che i neo anseatici fanno appello alla prudenza in materia di politiche fiscali europee. Già lo scorso marzo, otto di loro inviarono una lettera congiunta nella quale illustravano in sei punti le riforme considerate essenziali per la sopravvivenza dell'Eurozona. Anche in quel caso, tra le righe si leggeva l'urgenza del ritorno alla difesa degli interessi nazionali. Una posizione sacrosanta, per carità, che rivela però tutti i limiti del progetto europeo com'è strutturato attualmente. Rinnegare la funzione dell'Esm, che pure ha tutti i suoi limiti, significa annientare l'ultima difesa di quel principio di solidarietà che dovrebbe caratterizzare ogni unione (incluse quelle monetaria). Senza contare che il nostro Paese contribuisce in larga misura alla dotazione finanziaria di quest'organo. Come indicato nella nota di aggiornamento al Def, infatti, le quote di pertinenza dell'Italia per i prestiti a Stati membri dell'Unione economica e monetaria fino a oggi sono state pari a ben 58,2 miliardi di euro. Nel frattempo, nubi nere si addensano anche sui conti francesi. È notizia di ieri, infatti, che a fine settembre il deficit del governo di Parigi ha toccato quota 87,1 miliardi, in aumento di 10,8 miliardi di euro rispetto allo stesso periodo un anno fa. Un incremento sensibile, legato sia a maggiori spese di bilancio, sia a minori entrate fiscali. Non è l'unica notizia negativa per Emmanuel Macron. Nell'ultimo trimestre il Pil è cresciuto solamente dello 0,4%, un risultato che allontana l'1,7% di crescita preventivato per il 2018. Di questo passo, verosimilmente, la Francia rischia l'anno prossimo di sforare (per l'ennesima volta) il rapporto deficit/Pil del 3% previsto dal patto di stabilità e crescita. Visti i presupposti, per l'Europa sarà decisamente un inverno molto caldo. Antonio Grizzuti