2020-03-24
Tamponi, cure a casa, meno ospedale. Funziona il modello veneto anti Covid
Tassi di mortalità tra i più bassi d'Italia nella regione dove il governatore Luca Zaia impone controlli a tappeto e i virologi sconsigliano i ricoveri. Al via i test per tutte le persone a rischio: si parte dagli istituti per anziani.Partiamo dalle cifre. Il Veneto è la terza regione per numero di persone contagiate dal coronavirus ma la sesta per numero di morti, 169, soltanto il 3,3% dei casi totali contro il 12,7% della Lombardia, il 10,8 dell'Emilia Romagna e il 10,3 della Liguria. e il 10,3 della Liguria. È una delle regioni con le quote più basse di pazienti ricoverati, sia con sintomi leggeri sia in terapia intensiva, mentre presenta valori molto alti (70,6%) di persone in isolamento domiciliare. In realtà, il numero vero di reclusi è molto più elevato di quanto riportano le statistiche ufficiali: per il ministero della Salute la quarantena stretta riguarda 3.276 infetti, ma il Veneto considera sia i positivi al tampone sia le persone con cui i contagiati sono venuti a contatto. In questo modo il totale (alle 20 del 21 marzo) balza a 14.268 isolati. Il triplo. Quanto ai tamponi effettuati, in proporzione al numero di abitanti il Veneto ha il record italiano.Negli anni Novanta si parlava di «modello Veneto» in economia fatto di voglia di fare, flessibilità, apertura al mondo e attaccamento al territorio. Ora si afferma un altro modello nell'affronto dell'epidemia: poco ospedale, molta clausura domestica, tamponi a tappeto, misure di ordine pubblico molto severe, collaborazione con il territorio. Il risultato è un tasso di mortalità sovrapponibile a quello cinese. La strada imboccata dalla sanità veneta è riuscita a contenere la diffusione del coronavirus in modo più efficace che altrove.Appena è scoppiato il focolaio di Vo' Euganeo, il governatore Luca Zaia ha immediatamente imposto la zona rossa nel Padovano e ha fatto chiudere l'ospedale di Schiavonia, dove per 15 giorni erano stati ricoverati due anziani con diagnosi di influenza mentre avevano il virus cinese. L'ospedale ha riaperto dopo una quarantena di 15 giorni. Non è successo così, per esempio, ad Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, uno dei due centri epidemici della Lombardia, dove il solo pronto soccorso ha chiuso per meno di 24 ore. Il paese di Vo' è stato blindato e tutti gli abitanti sottoposti al tampone, ripetuto dopo 15 giorni. Le analisi sull'evoluzione della malattia nell'enclave euganea hanno dimostrato che soltanto il 3% dei contagiati manifestava sintomi, mentre il 70% circa era asintomatico, cioè malato ma all'apparenza sano. Senza l'isolamento totale obbligatorio, queste persone sarebbero potute andare in giro e contagiare altri, come è successo nel resto d'Italia. È stato il virologo Andrea Crisanti, docente all'università di Padova e direttore dell'unità operativa di microbiologia del policlinico, a suggerire a Zaia questa linea. Ed è lui, oggi, come membro del comitato tecnico scientifico insediato dalla Regione, a guidare l'operazione «tamponi a tappeto». «Un virus si sconfigge con tre misure da attuare assieme», spiega Crisanti: «Quarantena rigida, distanziamento sociale e sorveglianza attiva». Cioè test a raffica.In Veneto il tampone viene fatto a chi segnala di essere malato, ai suoi familiari, alla cerchia di amici e ai vicini di casa. Nei prossimi giorni scatterà una vasta campagna di controlli, a partire dalle case di riposo per poi estendersi a tutte le categorie di persone più a rischio: medici, infermieri, tecnici ospedalieri, forze dell'ordine, farmacisti, personale dei supermercati, conducenti di mezzi pubblici, e così via. Tra una ventina di giorni il sistema messo in piedi assieme alla Croce rossa e alle università venete dovrebbe garantire 20.000 tamponi al giorno. «Il numero dei positivi è destinato a salire», dice il virologo, «perché porteremo alla luce casi ora sconosciuti, ma eviteremo nuovi contagi. Il segnale dell'inversione di tendenza sarà quando al crescere dei positivi resterà stabile il numero di ricoverati». È paradossale augurarsi di annoverare più positivi: «Noi stimiamo che in Italia oggi ci siano 250.000 malati sintomatici non censiti e altrettanti asintomatici», valuta Crisanti. «È per questo che i tassi di mortalità appaiono così alti».Numeri realistici, controlli massicci, collaborazione con le strutture territoriali, interventi severi: la Regione è sempre stata un passo avanti al governo Conte nel disporre misure di contenimento. Ma l'antivirus veneto non si spiega soltanto così. «Qui la sanità pubblica ha una tradizione storica priva di un approccio competitivo», spiega il professor Giorgio Palù, che fino all'anno scorso occupava all'università di Padova il posto oggi di Crisanti ed è stato presidente della Società europea di virologia. «Gli ospedali non devono esibire numeri eclatanti per dimostrare che lavorano, e così evitano il più possibile il ricovero dei contagiati. I numeri dicono che a casa si muore meno. Si ha meno stress, si è meno debilitati, si può restare con i familiari e il rischio di contagio è molto più basso. Questa è un'epidemia nosocomiale», aggiunge Palù. «Una buona parte del contagio avviene nelle strutture sanitarie e il modo migliore per affrontare l'emergenza è chiudere la gente a casa, non isolarla in corsia. In ospedale dovrebbe essere ricoverato soltanto chi ha gravi problemi respiratori, senza contare che l'ossigeno può essere erogato anche da apparecchi domestici. Pressione, temperatura corporea e saturazione del sangue possono essere monitorati a distanza. Se in Lombardia si muore più che in Veneto, non è certo perché il virus è mutato».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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