Una lettera aperta provocatoria e inaspettata ha scosso la cultura italiana nei giorni scorsi: l'ha scritta il regista Pupi Avati chiedendo ai vertici della Rai di modificare i palinsesti. «Cambiamo la tv, è ora di fare crescere culturalmente il Paese», ha scritto aggiungendo: «Solo con la cultura e la bellezza potremo trovarci migliori. Perché non approfittiamo di questa così speciale opportunità per stravolgere i vecchi parametri contando sull'effetto terapeutico della bellezza?».
Lei ha scritto: «È il primo periodo della mia vita in cui anziché abbracciare preferirei essere abbracciato». Perché?
«È una frase che riflette questa stagione della mia vita. Appartengo a quella categoria di persone che le statistiche definiscono le più fragili, le più esposte. Quelle che numericamente sono più presenti nell'elenco dei deceduti stilato ogni giorno. Persone che muoiono nella distanza siderale dei propri congiunti, perché purtroppo, ma giustamente, non è possibile che i congiunti siano vicini nel momento dell'ultimo saluto. E tutto questo circondati da un insieme di macchine e di persone disumanizzate da quelle tute che li proteggono, da quei caschi, da quei guanti, anch'esse a loro volta prive di un contatto».
È inevitabile, in queste condizioni.
«Questo destino mi fa desiderare di essere abbracciato più che di abbracciare. Mi pare una cosa comprensibile e condivisibile. Ho paragonato questa età, questo stato d'animo, a quello dei bambini, che piangono e ridono con molta facilità. Aggiungiamo a tutto ciò la preoccupazione dei propri cari. Io ho due figli a Londra che non stanno bene, hanno la febbre e la tosse. Sono giovani e mi auguro che siano in grado di affrontare il virus».
Un padre quando sente queste notizie se la prende con qualcuno? Con il destino piuttosto che con Boris Johnson?
«Ma come faccio a prendermela con qualcuno... È qualcosa che va al di là delle responsabilità. A Londra è evidente che, almeno all'inizio, il primo ministro ha avuto un atteggiamento di sottovalutazione. Ma c'è stato anche da noi: si sarebbe dovuto anticipare, intuire che quanto succedeva in Cina poteva essere trasmesso anche qua, e organizzarsi. Ma adesso queste polemiche sono fuori luogo. Vedo questo povero governatore della Lombardia stremato, in una condizione psicologica difficile. Mi auguro che non si arrenda. Mi immagino quale possa essere lo sforzo per una persona che ha la responsabilità di un territorio preso così di punta. E faccio una riflessione che penso abbiano fatto tutti».
Ovvero?
«Che se l'epidemia fosse scoppiata al Sud sarebbe stata una carneficina. Già la Lombardia ha dimostrato di non essere all'altezza di uno sforzo di questo genere. Siamo in una situazione diabolica. Ma non devo dirlo io».
Ha paragonato questo momento a quando, una volta, al cinema le pellicole si spezzavano e si attendeva che il proiezionista le aggiustasse.
«Da bambino tenevo gli occhi chiusi in queste pause per non essere costretto a vedere quello che mi accadeva attorno e che non mi piaceva. E per essere restituito il prima possibile a quel film interrotto che mi portava finalmente in un altrove».
Vuol dire che vive con gli occhi chiusi?
«Certamente no. È un periodo che ognuno di noi vive con uno stato d'animo, una sensibilità e una percettività speciali. Ecco perché ho pensato che anche la bellezza potrebbe essere un conforto».
Che accoglienza ha avuto la sua lettera aperta?
«Il presidente della Rai mi ha risposto ed è andato anche a Porta a porta da Bruno Vespa dicendo che i palinsesti terranno conto di quanto ho segnalato. Ma è evidente che la mia richiesta è di una rivoluzione copernicana, totale».
Che intende?
«Vedo che ancora oggi l'unico criterio per giudicare il successo o l'insuccesso di un programma sono gli ascolti. La serata si vince o si perde in base ai parametri attraverso i quali la qualità è così tanto scaduta. Se abbiamo proposte televisive che non ci paiono all'altezza di quelle che dovrebbero essere, è perché purtroppo i palinsesti li fanno gli inserzionisti pubblicitari».
Ce l'ha con l'auditel?
«Non so quale altra calamità peggiore avrebbe potuto subire l'ambito cinetelevisivo. L'auditel è diventato l'unico parametro attraverso il quale gli stessi critici analizzano e valutano i programmi».
Lei ha scritto che la bellezza ha un effetto terapeutico.
«Non l'ho scritto io ma Dostoevskij. Credo che sia vero».
Come si dispiega questo effetto?
«Nel fatto che ti commuovi, ti rassereni, vedi che c'è una cosa bella che ti allontana dalle angustie. È una commozione sana e positiva, ti riconosci in una scoperta. Un'opera d'arte di qualunque genere ti porta in un altrove, stimola la parte migliore di te stesso. Può essere una poesia, un brano musicale, un'opera figurativa».
Qual è il suo palinsesto ideale di un giorno sulla Rai?
«Attingerei esclusivamente dalle teche Rai, a costo zero per l'azienda. Toscanini, Nureyev, Bergman, Billy Wilder, Alda Merini, Troisi, Paolo Conte, Totò. Proporrei una guida alla Camera degli sposi del Mantegna, al Cristo velato di Napoli, alla Battaglia di Anghiari dipinta da Leonardo. Sono opere fantastiche e molta gente non sa nemmeno che esistono. E senza pubblicità, naturalmente. Un insieme di cose belle, senza disarmonicità, andando a pescare in quello che c'è».
Nemmeno noi abbiamo il senso della bellezza che abbiamo prodotto?
«Quello che c'è, è sterminato. Il problema è che giace sotto la polvere. Così la gente riscoprirebbe che esiste dell'altro. Io rivedrei cose che vorrei riguardare, e una marea di persone vedrebbe cose mai viste e che fanno la storia e la cultura di questo Paese, e non solo di questo Paese».
Che film trasmetterebbe?
«Il primo sarebbe Il posto delle fragole, un film sulla vecchiaia che fa capire chi sono queste migliaia di persone anziane morte. Il film sulla vita e sulla vecchiaia più straordinario che sia mai stato fatto. Penso che la maggior parte degli italiani non l'abbiano mai visto: non è grave?».
Che tipo di film aiuta a capire meglio questo periodo? Un film sul dolore?
«No. Non aggiungiamo dolore al dolore, non dev'essere un palinsesto punitivo o penitenziale, ma che apra alla bellezza di una gioia misteriosa».
È soddisfatto della risposta che le ha dato la Rai?
«A parole, sì. Vedremo i fatti».
Lei ha anche proposto una «vita di Dante» attraverso Boccaccio.
«Bè, l'ho proposta nel 2002 e sono ancora in attesa di poter finalmente avere un via. Boccaccio è stato il primo biografo di Dante, dobbiamo a lui tutto quello che sappiamo sull'Alighieri. Ho un buon rapporto con Rai Cinema ma il progetto non si è ancora concretizzato. Adesso abbiamo tradotto il testo in inglese e l'abbiamo mandato ad Al Pacino per proporgli di fare Boccaccio».
Come mai la Rai è così poco sensibile al suo stesso patrimonio culturale?
«È l'intero Paese. Chi ci comanda è dell'idea che qualunque cosa di tipo culturale metta a repentaglio le poltrone. È evidente che fa più ascolto la Ferragni che Dante, non ho dubbi, ma bisognerebbe invertire la tendenza».
E come si inverte?
«Approfittando di un periodo come questo per fare capire che c'è dell'altro. È una finestra che si apre, tanto più che fare le rilevazioni auditel oggi non ha senso: non c'è mercato per la pubblicità, si compra soltanto da mangiare. In questo periodo sabbatico si potrebbe proporre cose che in altri momenti nessuno avrebbe il coraggio di mandare in onda perché sarebbero destinate ad avere ascolti molto modesti, almeno all'inizio».
Ha definito questo «sterminato silenzio» come «sacro e misterioso».
«Non ci siamo più abituati. Da 50 anni abito in questa casa nel centro di Roma e questo silenzio profondissimo non c'è mai stato. Mai. Ogni tanto passa una sirena».
Come vive questa sospensione?
«Mi nascondo nelle cose che faccio. Scrivo. È un modo per scappare via, ti nascondi nella storia che scrivi e tutte le ore che trascorro seduto nel mio studio davanti alla mia tastiera non sono qui. È per questo che suggerisco alle persone di fare cose che non hanno mai fatto. O almeno di provarci».
Per esempio?
«Ho ritirato fuori il clarinetto e ricominciato a esercitarmi. A 81 anni. Sembra una pazzia, e invece ha un effetto terapeutico meraviglioso. Quando comincio gli esercizi un po' più difficili e non riesco, mi arrabbio e poi m'impegno, ma sento che mi fa bene. Anche fisicamente».
Che senso dà a questo periodo?
«Il senso del limite, che abbiamo completamente perduto. L'essere umano ha limiti pazzeschi, siamo di una vulnerabilità che supera ogni immaginazione. Ci serve per riconsiderare le cose che veramente contano, cambiarne la gerarchia. Di fronte alla verità di quei camion militari in fila che portano le bare al crematorio, forse si spegnerà tutto questo cazzeggio superficiale di cui ci siamo nutriti e che continuiamo a proporre come se nulla fosse. Non è vero che la gente si vuole soltanto distrarre».
Partiamo dalle cifre. Il Veneto è la terza regione per numero di persone contagiate dal coronavirus ma la sesta per numero di morti, 169, soltanto il 3,3% dei casi totali contro il 12,7% della Lombardia, il 10,8 dell'Emilia Romagna e il 10,3 della Liguria. e il 10,3 della Liguria. È una delle regioni con le quote più basse di pazienti ricoverati, sia con sintomi leggeri sia in terapia intensiva, mentre presenta valori molto alti (70,6%) di persone in isolamento domiciliare. In realtà, il numero vero di reclusi è molto più elevato di quanto riportano le statistiche ufficiali: per il ministero della Salute la quarantena stretta riguarda 3.276 infetti, ma il Veneto considera sia i positivi al tampone sia le persone con cui i contagiati sono venuti a contatto. In questo modo il totale (alle 20 del 21 marzo) balza a 14.268 isolati. Il triplo. Quanto ai tamponi effettuati, in proporzione al numero di abitanti il Veneto ha il record italiano.
Negli anni Novanta si parlava di «modello Veneto» in economia fatto di voglia di fare, flessibilità, apertura al mondo e attaccamento al territorio. Ora si afferma un altro modello nell'affronto dell'epidemia: poco ospedale, molta clausura domestica, tamponi a tappeto, misure di ordine pubblico molto severe, collaborazione con il territorio. Il risultato è un tasso di mortalità sovrapponibile a quello cinese. La strada imboccata dalla sanità veneta è riuscita a contenere la diffusione del coronavirus in modo più efficace che altrove.
Appena è scoppiato il focolaio di Vo' Euganeo, il governatore Luca Zaia ha immediatamente imposto la zona rossa nel Padovano e ha fatto chiudere l'ospedale di Schiavonia, dove per 15 giorni erano stati ricoverati due anziani con diagnosi di influenza mentre avevano il virus cinese. L'ospedale ha riaperto dopo una quarantena di 15 giorni. Non è successo così, per esempio, ad Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo, uno dei due centri epidemici della Lombardia, dove il solo pronto soccorso ha chiuso per meno di 24 ore. Il paese di Vo' è stato blindato e tutti gli abitanti sottoposti al tampone, ripetuto dopo 15 giorni.
Le analisi sull'evoluzione della malattia nell'enclave euganea hanno dimostrato che soltanto il 3% dei contagiati manifestava sintomi, mentre il 70% circa era asintomatico, cioè malato ma all'apparenza sano. Senza l'isolamento totale obbligatorio, queste persone sarebbero potute andare in giro e contagiare altri, come è successo nel resto d'Italia. È stato il virologo Andrea Crisanti, docente all'università di Padova e direttore dell'unità operativa di microbiologia del policlinico, a suggerire a Zaia questa linea. Ed è lui, oggi, come membro del comitato tecnico scientifico insediato dalla Regione, a guidare l'operazione «tamponi a tappeto». «Un virus si sconfigge con tre misure da attuare assieme», spiega Crisanti: «Quarantena rigida, distanziamento sociale e sorveglianza attiva». Cioè test a raffica.
In Veneto il tampone viene fatto a chi segnala di essere malato, ai suoi familiari, alla cerchia di amici e ai vicini di casa. Nei prossimi giorni scatterà una vasta campagna di controlli, a partire dalle case di riposo per poi estendersi a tutte le categorie di persone più a rischio: medici, infermieri, tecnici ospedalieri, forze dell'ordine, farmacisti, personale dei supermercati, conducenti di mezzi pubblici, e così via. Tra una ventina di giorni il sistema messo in piedi assieme alla Croce rossa e alle università venete dovrebbe garantire 20.000 tamponi al giorno.
«Il numero dei positivi è destinato a salire», dice il virologo, «perché porteremo alla luce casi ora sconosciuti, ma eviteremo nuovi contagi. Il segnale dell'inversione di tendenza sarà quando al crescere dei positivi resterà stabile il numero di ricoverati». È paradossale augurarsi di annoverare più positivi: «Noi stimiamo che in Italia oggi ci siano 250.000 malati sintomatici non censiti e altrettanti asintomatici», valuta Crisanti. «È per questo che i tassi di mortalità appaiono così alti».
Numeri realistici, controlli massicci, collaborazione con le strutture territoriali, interventi severi: la Regione è sempre stata un passo avanti al governo Conte nel disporre misure di contenimento. Ma l'antivirus veneto non si spiega soltanto così. «Qui la sanità pubblica ha una tradizione storica priva di un approccio competitivo», spiega il professor Giorgio Palù, che fino all'anno scorso occupava all'università di Padova il posto oggi di Crisanti ed è stato presidente della Società europea di virologia. «Gli ospedali non devono esibire numeri eclatanti per dimostrare che lavorano, e così evitano il più possibile il ricovero dei contagiati. I numeri dicono che a casa si muore meno. Si ha meno stress, si è meno debilitati, si può restare con i familiari e il rischio di contagio è molto più basso. Questa è un'epidemia nosocomiale», aggiunge Palù. «Una buona parte del contagio avviene nelle strutture sanitarie e il modo migliore per affrontare l'emergenza è chiudere la gente a casa, non isolarla in corsia. In ospedale dovrebbe essere ricoverato soltanto chi ha gravi problemi respiratori, senza contare che l'ossigeno può essere erogato anche da apparecchi domestici. Pressione, temperatura corporea e saturazione del sangue possono essere monitorati a distanza. Se in Lombardia si muore più che in Veneto, non è certo perché il virus è mutato».
Il professor Francesco Cavalla, 80 anni, è uno dei maggiori filosofi del diritto italiani, docente emerito dell'università di Padova. Giurista liberale, Cavalla analizza dal punto di vista giuridico il comportamento dell'esecutivo di Giuseppe Conte in questa emergenza. E condivide ben poco.
Il governo ha fatto un giusto utilizzo delle sue prerogative dal punto di vista giuridico?
«Complessivamente l'ho visto agire a tentoni, senza una chiara visione complessiva».
Il governo ha tolto libertà, la Chiesa ha sospeso riti: in emergenza le istituzioni vengono meno?
«Non le istituzioni, ma la loro articolazione. Il potere si concentra. Il primo esempio di ciò lo troviamo nella culla del diritto occidentale, cioè in Roma Antica. Là era prevista la figura del dittatore. Egli veniva nominato come tale dal Senato, cioè con un provvedimento specifico di delega; in secondo luogo, il dittatore poteva gestire questi suoi poteri straordinari per una durata massima di sei mesi».
Dopodiché?
«Tornava a zappare i campi, se era un agricoltore, come accade per il ben noto esempio di Cincinnato. Se anche da noi ci fosse un provvedimento che desse per sei mesi i pieni poteri a Conte con la garanzia che poi andasse a zappare i campi, personalmente ci farei un pensierino...».
Quindi ci vuole una legittimazione del popolo, o di un organismo rappresentativo del popolo, e una durata prefissata.
«Esattamente».
Nel nostro caso, Giuseppe Conte è capo del governo ma non è stato eletto dal popolo.
«Questo si sa. Conte ha una legittimazione formale ma non sostanziale. Comunque, anche sotto il profilo formale, non si può non rilevare che il suo governo non risponde affatto ai requisiti di compattezza ed efficacia richiesti da Mattarella all'atto del conferimento dell'incarico. Di fronte a una situazione di emergenza come è la nostra, il ricorso al controllo del Parlamento sarebbe più che mai necessario prima di emettere provvedimenti che limitano così pesantemente diritti e libertà personali».
A che cosa si possono paragonare i provvedimenti adottati dal presidente del Consiglio?
«A una legge di guerra. In casi come questo le restrizioni sono inevitabili».
Fa bene l'opposizione parlamentare a disapprovare certe scelte del governo o dovrebbe mostrare più concordia?
«Il richiamo alla concordia non può essere un mezzo ricattatorio per chiudere la bocca alle critiche. È giusto l'invito alla prudenza nel criticare, cioè a non fare polemiche inutili; ma se ci sono le ragioni per criticare bisogna farlo».
Si sente dire: state zitti perché questo è un momento particolare.
«Nemmeno per idea. Tacitare le critiche con un ricatto emotivo: questo sì, sarebbe un atteggiamento degno di uno Stato totalitario. Ci sono tanti modi per togliere il diritto di parola alla gente: con la violenza, con la minaccia, ma anche con la subdola persuasione».
Si riferisce anche a Mattarella?
«Finché lo fa il presidente della Repubblica si può capire, lui rappresenta l'unità nazionale e in fondo se invita a restare uniti non fa che il suo mestiere. Ma non possono dirlo i membri del governo».
È più dittatore uno che toglie la parola rispetto a chi toglie la libertà di movimento.
«Assolutamente».
Dopo le rivolte scoppiate nelle carceri il governo svuota i penitenziari con un indulto mascherato.
«Sarebbe un provvedimento pessimo sotto tutti i profili. Vuol dire che lo Stato italiano alza le mani. È come se dicesse: io dovrei punire, ma non posso».
Un bel messaggio per chi delinque.
«Certamente questo non aumenta il rispetto, o il timore, dei delinquenti, posto che l'abbiano mai avuto, verso uno Stato che non sa fare il suo mestiere. E pessimo messaggio ai cittadini, che non possono sentirsi tutelati. Su questo non ci possono essere dubbi».
Il governo dice che nell'emergenza in corso non esistono alternative all'indulto.
«Intanto bisognerebbe verificare se è vero. Ma se così fosse, significherebbe che tutto il sistema è pessimo. Qui si mette in discussione il carcere come sistema punitivo».
Pare che ci sia stata una regìa delle proteste proprio per favorire lo svuotamento.
«Questo non lo so. Ma è evidente che, visto il risultato, se una regìa non c'è stata questa volta, ci sarà la prossima».
Oggi le carceri sono bombe a orologeria.
«Temo che sia vero. Ma il fatto di ricorrere a un indulto significa che l'intero sistema non regge più».
Che cosa intende?
«Il carcere non è di per sé la pena adeguata al delitto secondo ragione. In qualunque manuale di diritto penale si trova questa espressione: la pena è la conseguenza giuridica di un reato. Vuol dire che prima c'è uno Stato il quale stabilisce che cos'è un reato, poi c'è la violazione e quindi la pena. La sequenza logica è chiara: Stato, reato, violazione, pena. Ma non è una sequenza corretta, né nei fatti né nella logica».
No?
«L'atto violento viene prima dello Stato, indipendentemente da esso, e determina subito una reazione. In chi lo subisce individualmente, le reazioni sono due: o la vendetta o l'esigenza di riparazione. A questo punto interviene lo Stato: per impedire che ci sia la reazione cattiva, cioè la vendetta che è la rottura dei rapporti sociali, e fare intervenire la reazione buona».
Cioè la restituzione.
«La pena nella sua essenza dovrebbe essere riparatoria. Lo stesso discorso vale per la collettività, lesa da un comportamento asociale: o espelle l'autore della violenza o lo recupera a un atteggiamento cooperativo, cioè teso a restaurare ciò che ha infranto. Finché pensiamo alla pena soltanto come privazione della libertà e non come riparazione, non ne usciamo».
Ma ciò significa una radicale riforma del sistema penale.
«Me ne rendo conto. E non credo che in questo momento nel governo ci siano persone intenzionate, o semplicemente idonee, a fare una cosa di questo genere. Non mi sembra che il ministro Bonafede abbia una competenza penalistica molto estesa».
Il sistema riparatorio andrebbe allargato a tutti i reati?
«Bisogna distinguere tra i reati di sangue e gli altri. I reati di sangue non sono riparabili e ci vuole il carcere. Una persona deve restare separata dalla società perché non può riparare».
Uno spacciatore di droga come potrebbe scontare la pena?
«Facendo l'inserviente in qualche centro di rieducazione per vedere che razza di guai combina».
E uno che si mette in tasca soldi pubblici?
«Gli si tolgono le ferie per 5 anni e lavora gratis».
Il lavoro nelle carceri è utile?
«È qualcosa, per carità. Il carcere nella mentalità illuministica doveva essere la privazione di un aspetto della libertà, cioè della libertà di movimento, e basta. Oggi chi va in carcere subisce parecchie altre privazioni. Con il lavoro si possono alleviare sofferenze ingiuste».
Oggi siamo tutti in carcere, visto che non possiamo spostarci.
«Sì, ma noi capiamo che è per il nostro bene. Chi è dentro può non capirlo».
Un tema drammatico emerso in questi giorni è se i medici dovessero scegliere chi curare. Questa questione ha un rilievo giuridico o va lasciata alla coscienza degli operatori sanitari?
«Ha rilevanza ma non soluzione giuridica: per questo ci vorrebbe un atto di imperio dello Stato che imponga di curare prima i giovani o i vecchi, che è impossibile perché anticostituzionale, oltre che disumano».
Quindi decidono i medici.
«Siamo in una situazione gravissima. Come l'indulto mette in discussione tutto il sistema penale, così questo dilemma, se mai vi si dovesse arrivare, significa che andrebbe riformato anche il sistema sanitario».
Che dire dei controlli sugli spostamenti delle persone? Non viene violato il diritto alla privacy?
«Tema molto dibattuto oggi tra i giuristi, soprattutto di ispirazione liberale. Anche qui è una questione di tempo: se si riesce a fissare un limite preciso, diciamo sei mesi, lo posso capire. Si tratta di tutelare la salute di tutti, sani e malati».
Anche in questo caso ci vorrebbe un avallo parlamentare?
«Certo. La limitatezza inquadra l'eccezione. Se invece fosse a tempo indeterminato si andrebbe contro la Costituzione».
È sorpreso dal fatto che gli italiani non abbiano resistito troppo alla limitazione delle libertà?
«Niente affatto, perché gli italiani hanno un profondo senso della libertà. Chi ha il senso della libertà sa anche quando decidere di non usarla. Chi non ce l'ha si ribella a caso. C'è una differenza abissale tra l'uomo libero e il ribelle».
Si va verso una forma di Stato più presidenzialista?
«Personalmente non sarei contrario, perché favorirebbe lo snellimento del processo decisionale, ma con una limitazione».
Quale?
«Che se una quota parte dei consigli regionali, diciamo i due terzi o i quattro quinti, decidesse che il governo non va più bene, questo possa valere come voto di sfiducia. Sarebbe un bilanciamento del centralismo».
Oggi qualcuno vorrebbe togliere potere alle regioni che prendono provvedimenti diversi da zona a zona. Lei è di parere opposto?
«Credo sia giusto affidare alle regioni poteri per calibrare le misure da applicare. Sarebbe comunque auspicabile un coordinamento anche attraverso una conferenza dei governatori».
Che pensa dell'intervento dell'esercito?
«Nessun problema. Guai se non ci fosse».
Finita l'emergenza cambierà davvero qualcosa in Italia?
«Purtroppo temo che tutto tornerà come prima. Molta parte della società italiana, anche provvista del senso della libertà, è ottusa dal politicamente corretto e non è in grado di capire le lezioni della storia. Bisogna sperare in quell'altra parte della società...».





