Ansa/Gianluigi Basilietti
Intervista a Livio Proietti, presidente Ismea, Marco Lupo, capo dipartimento Masaf, Sergio Marchi, direttore generale Ismea.
Intervista a Livio Proietti, presidente Ismea, Marco Lupo, capo dipartimento Masaf, Sergio Marchi, direttore generale Ismea.
Giocando con le parole si può dire che questo Vinitaly - arrivato a 57 edizioni senza che dal punto di vista della logistica cambiasse molto: resta una fiera caotica, irraggiungibile, carissima per l’ospitalità e per gli stessi espositori, con enormi problemi infrastrutturali che Veronafiere non è mai stata in grado di risolvere, compensati solo dalla centralità dell’evento che mette in vetrina la produzione del primo paese al mondo - è dazi driver.
Sì, è guidato dalla paura dei dazi, o meglio dalle molte chiacchiere che si fanno attorno a questa evenienza. I vignaioli sembrano un po’ Travis - il leggendario tassista interpretato da Robert De Niro con una forza drammatica esplosiva - chiusi nella loro coazione a ripetere, un po’ disperati perché incapaci di pensarsi diversamente, impauriti dall’autorità costituita: quella dell’Europa che è il vero primo nemico del vino. E come Travis cercano scorciatoie perniciose, ad esempio i vini dealcolati che sono la negazione del vino medesimo, ma che Veronafiere - desiderosa di raccattare tutto pur di gonfiare i numeri espositivi - non ha esitato ad accogliere tra i padiglioni.
Ha spiegato Lamberto Frescobaldi - uno che produce bottiglie da sogno come Ornellaia e Masseto, uno che rappresenta un pezzo della storia del vino mondiale e della civiltà occidentale sol che si pensi ai mille anni della famiglia fiorentina - da presidente di Unione Italiana Vini che i dealcolati devono restare in mano ai vignaioli per evitare che diventino speculazione delle multinazionali. Angelo Gaja che l’uomo immagine del vino italiano oltreché produttore di immensi Barlo e Barbaresco (ma anche col suo Brunello di Montalcino non scherza) ha detto che va bene così: giusto il dealcolato è comunque frutto della vigna.
Siamo appunto al dazi driver: di fronte al mercato che cambia, ogni occasione per non ripensarsi è buona. Per questa strada - insegna la regia di Martin Scorsese - si finisce per avere gloria postuma dopo aver attraversato momenti terribili. Ma tant’è ci si rifugia dietro l’idea che Donald Trump il cattivissimo - e a dire la verità un po’ a Dru di Cattivissimo me gli somiglia, i nostri vignaioli peraltro non sono distanti da Minions - ce l’abbia col vino italiano che dei quasi due miliardi che esportiamo in Usa - è il nostro primo mercato quello americano - ce ne rimarrà la metà se va bene.
Nessuno in questo Vinitaly che si sia chiesto se il vero nemico sia l’Europa. E lo sia da anni. Restando ai dazi si buon ben obiettare che ad accendere le polveri sugli alcolici è stata la signora Ursula von der Leyen. Tutti si sono dimenticati al Vinitaly - perché è scontato: i giornaloni che pendono ancora dalle labbra di Romano Prodi non fanno altro che suscitare pareri antiamericani - che la presidente della Commissione voleva tagliare i fondi Ocm (sono quelli per la promozione all’estero del vino) e che è stata la prima a muove sui dazi all’alcol. L’hanno malconsigliata: lei è partita lancia in resta contro il bourbon americano. Pur molto cresciute le esportazioni in Europa di distillato americano di malto valgono 630 milioni di euro. Il prezzo medio di una bottiglia è di 34 euro, i più cari arrivano a 60. Gli Usa importano dall’Europa vino per 4,9 miliardi di euro: il prezzo medio dei 150 vini italiani più comprati in America a scaffale è di 148 dollari poco meno di 136 euro.
Domanda chi si fa più male nella guerra dei dazi sugli alcolici? Da Washington hanno risposto come sappiamo. Ma non è finita perché al Vinitaly dazi driver nessuno parla dei monopoli sugli alcolici che ancora resistono in Europa, del fatto che l’Irlanda mette un’accisa di 3,9 euro su ogni bottiglia e che ha avuto il via libera dall’Ue di stampare le etichette allarmistiche da appiccicare sui vini, nessuno si preoccupa dell’accisa che la Germania ha messo sugli spumanti per arginare la crescita del Prosecco. Ma tutti invece a piangere sul CalSecco - una schifezza made in California - che viene etichettata con la dicitura: prodotto secondo il metodo tradizionale veneto. Gli Usa si bevono bollicine italiane per un po’ di mezzo miliardi di euro. Domanda: se fosse una simil Mercedes che farebbe l’Ue? Invece da Bruxelles tutti zitti, ma sotto con il Mercosur perché così si aprono nuovi mercati. Senza sapere che il mercato latino americano è interessante solo per esportare automobili e prodotti finanziari: l’agroalimentare e segnatamente quello italiano e il vino italiano ci rimette.
Sempre da Vinitaly nessuno che si sia chiesto che fine farà il vino se passa come vuole la presidente della Commissione europea il Be.Ca (il documento anti-cancro) che vuole le etichette «non lo bevete uccide» che prevede limitazioni al commercio, divieto di pubblicità, nessun sostegno alla promozione intra-europea e un accise pesante sul vino si dice per finanziare la lotta al cancro in realtà destinata a finanziare il Rearm Europe. Ma tutti i invece a salire a bordo del dazi driver sparando cifre a casaccio. Intanto a Verona sono arrivati 3 mila importatori americani che un po’ ci marciano sui dazi perché hanno fermato gli ordini e ora chiedono abbassamento di prezzi all’origine. Insomma non si vogliono accollare il maggior costo. La posizione delle cantine è di fare metà e metà anche se è opinione diffusa – al di fuori del piagnisteo -che fino al 25% di rincaro dei dazi si riesce a sopportare. Ad ascoltare i vignaioli più avvertiti la botta c’è ma è sopportabile.
Riccardo Cotarella - l’enologo più famoso d’Italia - dice : «È vero siamo in una tempesta perfetta, ma il dato americano non è il più pericoloso, semmai dobbiamo preoccuparci del calo dei consumi e investire ancora di più su marketing e qualità». E sia così si capisce che sparare solo sul dato americano. Non serve. Se n’è accorta la Coldiretti che ha messo insieme il commissario europeo all’agricoltura e quello ala salute ben sapendo che a Bruxelles sul vino spira una brutta aria, peggiore di quella che viene da Ovest, dall’Atlantico. Sotto il naso di Olivér Várhelyi, il commissario alla Salute accolto a Verona da un sit in di giovani viticoltori che protestavano «il vino non nuoce alla salute», hanno sventolato un sondaggio che dice che 8 italiani su 10 sono contrari alle etichette allarmistiche. Ma è poca roba perché Ursula von der Leyen le ha già concesse all’Irlanda e vuole tirare dritto. Lui è stato molto abbottonato e se l’è cavata con una citazione di prammatica: «Un bicchiere di vino rosso fa bene alla salute e si inserisce nelle abitudini alimentari della Dieta Mediterranea». Della serie: ci vivrà berrà. E così ora tocca alla Fipe (ristoranti, bar enoteche e via distribuendo) dare una mano con un accordo sempre con Coldiretti per promuove un consumo responsabile di vino e soprattutto informare sui limiti di alcol ammessi dal codice della strada in rapporto al vino. Per questo fanno debuttare una app con etilometro incluso. Perché la caduta di consumi in Italia c’è, siamo sotto i 22 milioni di ettolitri (meno di 35 litri a testa).Ma a preoccupare soprattutto è la tenuta economica di un settore che per noi vale 14 miliardi di fatturato (8,1 miliardi dall’export) fa lavorare 270 mila imprese (tra agricole e imbottigliatrici) dà lavoro diretto a un milione di persone. Gli impegni che si è preso il commissario europeo all’Agricoltura Cristophe Hansen da Verona sono di tutelare la filiera del vino, di evitare tagli alla Pac. Facile dirlo fin quando c’è l’effetto Trump, sarà più difficile mantenerlo quando a Bruxelles dovranno scegliere tra tutelare gli interessi degli agricoltori italiani o quelli degli industriali tedeschi.
Al di là dei piagnistei ora parlano i numeri. Al Vinitaly è stata presentata la consueta indagine svolta dall’istituto Circana sul vino nella Grande distribuzione. E si scopre che agli italiani comincia a piacere molto il bianco. Questione di clima, di percezione di alcolicità, ma anche di prezzi che per i vini pallidi sono di solito più contenuti.
Gli spumanti hanno ripreso a crescere, ovviamente chi tira di più è il Prosecco, con un +4,2% a volume e un +3,6% a valore sullo stesso periodo dell'anno precedente, erodendo lentamente ma progressivamente quote di mercato, mentre i vini fermi crescono a valore del 3,1%, registrando il segno meno a volume (-0,7%) e i frizzanti perdono terreno sia a valore (-4,4%) che a volume (-5,7%). Il vino rosso fermo continua a calare nei volumi (-1,3%), pur rimanendo il più venduto in assoluto con 271 milioni di litri, seguito dal bianco con 248 milioni di litri acquistati. Spumante a parte, sono infatti i bianchi fermi, seguiti dai rosati, a contribuire maggiormente alle vendite, tanto che, secondo le proiezioni di Circana, in cinque anni il vino bianco sorpasserà il rosso, a conferma che i gusti dei consumatori stanno cambiando. Non a caso, al primo posto nella classifica dei vini "emergenti", ovvero che mostrano una maggiore crescita a volume nel 2024, troviamo il siciliano Inzolia e al terzo il Vermentino, tanto sardo quanto toscano, entrambi bianchi. Anche il rosato cresce, con oltre 37 milioni di litri venduti.
Virgilio Romano, Insight Director di Circana, sottolinea che "tra le altre cose, lo studio ci mostra che a soffrire di più sono i vini con prezzi medio-bassi, dove si concentrano i maggiori acquisti e i maggiori consumi (-4,9%). Quindi, occorre continuare a lavorare sull'incremento di valore della categoria e fare in modo che bere un bicchiere di vino diventi sempre più una esperienza che metta in secondo piano "il numero di bicchieri" e consideri come valore assoluto "la soddisfazione e la qualità". E qui si apre il capitolo dei dealcolati. A Verona se ne parla molto come se fossero l’Eldorado. Per uno dei massimi scienziati deal vite e del vino il professor Attilio Scienza è solo una moda molto passeggera. “Non penso minimamente – sostiene - che i vini dealcolati possano essere un rimedio alla crisi enologica italiana. Questa è solo una digressione per fare un po’ di fumo ed evitare di affrontare i problemi. Davanti a questa crisi i francesi hanno messo in programma l’estirpo di almeno 40mila ettari di terreno. Io credo che la prima cosa da fare sia quella di ridare il significato alla parola vocazione, cioè fare vino non dovunque ma solo dove si ottiene la massima qualità.” Parre condiviso anche da un altro autorevolissimo studioso della vite e del vino il professor Leonardo Valenti. “Abbiamo fatto esperimenti importanti che ci dicono che contro l’innalzamento delle temperature ci sono rimedi che l’Italia fortunatamente può mettere in campo: piantare vigna sull’Apennino in altura, ridurre la fittezza degli impianti. E’ finito il tempo imposto da alcuni critici che peraltro hanno distrutto la viticoltura di Bordeaux imponendo vini iperconcentrati per cui dovevi fare 7 mila ceppi per ettaro. Oggi controllando bene la pianta si possono ridurre i gradi del vino naturalmente senza bisogno di dealcolati. “ Uno dei grandissimi produttori italiani Sandro Boscaini (Masi) confessa: “Io so che in natura c’è già un prodotto dealcolato ottimo: si chiama acqua! E’ ver: è importante che i dealcolati non vadano in mano a chi nulla ha ace fare con ‘agricoltura, ma è altrettanto vero che una cosa è il vino e una cosa sono le bibite ottenute dall’uva.” E’ un dibattito che a Verona si sente sotto traccia, ma che viene nascosto per ragioni di marketing di chi ha intravisto nel dealcolato la possibilità di smaltire le scorte in cantina e di continuare a fare vigna là dove non avrebbe senso farla. Ma per avere una dimensione basti dire che oggi il mercato dei vini nolo (così li chiamano per dire senza o con pochissimo alcol) vale appena 2,6 miliardi di dollari. Chi enfatizza dice che ci sarà una crescita esponenziale. Da qui a cinque ani arriveremo a 7 miliardi. Tutto bello: ma il mercato del vino tradizionale vale 350 miliardi di dollaro! E ancora si citano ricerche che dicono – l’ha fatta Swg – che il 37% dei consumatori italiani sono interessati ai vini dealcolati e che la produzione italiana di questi vini crescerà del 60%. Ma per avere un’esatta dimensione – dati di Nomisma -nel 2024 in Usa sono state vendute 4,6 milioni di bottiglie di vino no alcol e 2,5 sparkling nel canale off-trade, per un giro di affari di 62 milioni di dollari e un prezzo medio a bottiglia che oscilla dai 7,2 dollari dei vini con le bollicine ai 9,6 di quelli fermi. In Germania gli spumanti senza alcol sono a 18 milioni di bottiglie, i 4,5 milioni sono i “pezzi” di vino fermo per un totale di 73 milioni di euro di fatturato e un prezzo medio tra i 3,2 e i 3,5 euro. Se questa è la speranza per il futuro forse è meglio che il vino ripensi se stesso.
Fra mode e modi il vino a Vinitaly non sta ragionando di come cambiare se stesso. Per adesso si limita a pigliare provvedimenti tampone. Eppure quaranta anni fa allo scoccare dello scandalo del metanolo fece uno scatto in avanti. Lo shock dei Ciravegna fu superato puntando sulla qualità, questo secondo pensano di superarlo vendendo il non vino: il dealcolato. E fa un po’ sorridere che il Vinitaly che celebra il turismo del vino, le dominazioni storiche, anche le bottiglie da migliaia di euro debba curvarsi a ragionare di una bevanda che è la negazione del vino.
Invece in questi giorni veronesi si sente solo un mugugno di fondo senza uno scatto di programmazione. Per la verità un accenno a un possibile allargamento del perimetro degli affari, a un cambiamento di protagonismo delle cantine si è avuto nel ragionare di enoturismo. Ad esempio nel nuovo piano vino dell’Ue si è cominciato a ragionare della campagna come luogo attrattivo, ma sullo sfondo resta la minaccia di leggi come quelle sulla rinaturalizzazione - uno dei tanti portati del Green deal targato Frans Timmermans - che prevedono di smettere di coltivare, di lasciare spazio all’incolto. Per questa via l’Italia che è un Paese ad altissima incidenza di coltivazione rischia la morte dell’agricoltura. E non a caso l’abbandono della vigna è uno dei problemi più gravi dal punto di vista della tenuta dei territori e dell’argine allo spopolamento. Come si sa la viticoltura è una delle coltivazioni a più alto valore aggiunto - la media per l’Italia è di 3.300 euro a ettaro di valore aggiunto agricolo, quasi il doppio di quello francese che nel caso del vigneto quasi raddoppia - e dall’enoturismo può venire un’ulteriore spinta.
Dominga Cotarella rileva: «È importante che il nuovo piano Ue sul vino abbia incluso anche l’enoturismo come motore del turismo e dello sviluppo delle aree interne e rurali. Sono luoghi che, grazie alla consapevolezza e al lavoro dei nostri agricoltori, non sono più solo spazi produttivi, ma diventano territori di accoglienza, di formazione, di esperienza, capaci di trasmettere i valori profondi della nostra identità».
È vero che l’enoturismo è in continua crescita: oggi vale 2,9 miliardi di euro, contro i 2,5 del 2023 (+16%). La spesa media del turista del vino arriva fino a 400 euro, di cui 89 euro per l'acquisto del vino e 46 euro per la vendemmia turistica. Ma resta il problema centrale dell’abbandono delle campagne. Coldiretti ha stimato che se i vigneti italiani scomparissero, una superficie grande quasi quanto il Friuli Venezia Giulia rimarrebbe abbandonata al degrado e alla cementificazione, aumentando i rischi di dissesto idrogeologico e facendo venire meno un sostegno fondamentale per l’economia dei territori, anche dal punto di vista occupazionale. Va ricordato infatti che sono oltre 230 mila le aziende che coltivano uva in Italia con circa un milione di addetti. E’ per questo motivo che Confcooperative ha messo sotto monitoraggio – attraverso un’indagine del Censis presentata a Vinitaly – l’andamento del vigneto Italia. Da questa recentissima ricerca emerge che la superficie di uva da vino in Italia è di 693mila ettari, pari all’estensione di una volta e mezzo il Molise. Fra le zone altimetriche, prevale la collina, con il 55,5% sul totale della superficie agricola, mentre, a seguire, il 39,2% della superficie è localizzato in pianura e il restante 5,3 nelle zone di montagna. La regione più vitata è la Sicilia con oltre 118mila ettari, pari al 17,8% sul totale a livello nazionale. La seconda è il Veneto con 95mila ettari e una quota sul totale del 14,2%. Il Mezzogiorno è anche rappresentato dalla Puglia con 93mila ettari (14,0%), mentre il Nord Est porta in dotazione la superficie dell’Emilia-Romagna con circa 50 mila ettari, preceduta nella graduatoria dalla Toscana con 53mila ettari (7,9%). Se si considera l’incidenza della superficie coltivata a uva da vino sul totale della superficie, è la regione Friuli-Venezia Giulia a mostrare il livello più elevato: 10,4 ettari su 100 sono coltivati a uva da vino, contro una media nazionale pari a 4,2 ettari su 100. In Veneto a vino sono 9 ettari su cento. Per quel che riguardala produzione – quest’anno è stata pari a 48 milioni di ettolitri – la regione più produttiva è il Veneto con 10,7 milioni di ettolitri, pari al 22,3% seguita da Puglia ed Emilia-Romagna. In tre fanno oltre la metà del vino italiano. Grazie al prosecco la zona più produttiva è Treviso con 5,2 milioni di ettolitri di vino seguita da verona con 2,6 milioni di ettolitri. Nella produzione di vini di qualità si distingue Castellina in Chianti che presenta una quota di superficie prevalentemente dedicata alla produzione di vini DOP pari al 76,2%, seguita da San Gimignano con il 75,5% e da Manduria con il 74,4. Fra gli altri comuni a vocazione DOP si segnalano Montespertoli (73,6%) Montalcino (70,2%), Montepulciano (69,8%), tutti appartenenti al territorio della Toscana, e quattro comuni siciliani, Marsala, Mazara, Trapani e Menfi, con quote di superficie DOP compresa fra il 55,9% e il 61,1%.
Il bicchiere quello è, dipende da come lo si guarda. Chi ha grandi quantità stoccate in cantina - 46 milioni di ettolitri, una vendemmia abbondante - e vende a prezzi bassi lo vede mezzo vuoto. Chi ha alzato l’asticella della qualità, fa vini inimitabili perciò ad alto valore aggiunto e soprattutto ha abbassato le rese in vigna badando a dare il massimo di notorietà al proprio marchio in rapporto al territorio lo vede mezzo pieno. È un Vinitaly bifronte quello che si apre sotto la direzione di Federico Briccolo e Maurizio Danese, rispettivamente presidente e amministratore delegato di Verona Fiere, stamattina nella città scaligera.
L’inaugurazione prevede l’intervento del ministro per la Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, e del presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, che in quella veste è giunto alla sua ultima tappa a Verona; è uno dei motivi che fanno diventare la Fiera un crocevia non solo economico ed enoico, ma sommamente politico tant’è che nei quattro giorni di rassegna - si chiude il 9 aprile - sfilerà tra i padiglioni con 4.500 aziende mezzo governo. È previsto anche un intervento del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Lollobrigida arriva però con una novità importante: un’etichetta tricolore del Poligrafico dello Stato che accompagna tutti i prodotti a denominazione, a cominciare dai vini, contro l’italian sounding.
Ecco le sfide del vino che cerca la sua terza via: il rilancio, i dazi americani, il calo dei consumi anche in conseguenza della guerra che l’Europa sta facendo da anni al vino, la necessità di ripensare di un settore che è alla sua seconda svolta a quasi 40 anni dallo scandalo del metanolo. Lo choc dei Ciravegna fu superato puntando sulla qualità, questo secondo pensano di superarlo vendendo il non vino: il dealcolato. E fa un po’ sorridere che il Vinitaly che celebra il turismo del vino, le dominazioni storiche, anche le bottiglie da migliaia di euro debba curvarsi a ragionare di una bevanda che è la negazione del vino. Ci sono però guru come Angelo Gaja che si sono convertiti: è bene che anche senza alcol quella produzione resti nel perimetro dei vignaioli. È la convinzione di Lamberto Frescobaldi, presidente oltreché della storicissima casa vinicola fiorentina anche dell’Unione italiana vini. Ma mentre i Ciravegna mandarono in crisi il vino perché ci mettevano dentro il metanolo, qui a Verona c’è chi è persuaso di salvarlo levandogli l’etanolo! Per dealcolare il vino prima gli devi togliere gli aromi e conservarli, poi devi sottrarre l’alcol, infine devi aggiungere di nuovo gli aromi e per renderlo bevibile e ci aggiungi un po’ di CO2. Insomma è una bibita che sgorga dalla vigna. Per abbassare il grado - favorito anche dall’innalzamento delle temperature - ci sono però altri sistemi che non negano l’essenza del vino: smetterla con le iperfittezze in vigna imposte ai tempi in cui si pensava che si dovessero bere vini concentrati che sapevano o di falegnameria o di profumeria, innalzare la quota dei vigneti, evitare le uve surmature, fare fermentazioni meno spinte. Insomma bisogna studiare invece che imboccare scorciatoie. Eppure sono convinti che col vino annacquato terranno il mercato dei giovani - che non hanno affatto voltato le spalle al vino - e vinceranno anche la sfida americana. Per conforto citano le cifre: l’aumento previsto nei prossimi tre anni è del 11% con il 7% in più per le gazzose d’uva. Sono statistiche di stampo socialista. Attualmente il mercato mondiale dei dealcolati vale 2,6 miliardi di dollari, quello del vino 353 miliardi.
Semmai il tema centrale è come contrastare la deriva europea. Ursula von der Leyen strepita contro Donald Trump per i dazi, ma la prima nemica del vino è lei. Nel Be.Ca - il documento anticancro - ha scritto che fa male, che bisogna togliere i finanziamenti e dissuadere dal consumo anche aumentando le accise (magari per finanziare i cannoni). Per questo s’aspettano risposte da Christophe Hansen, commissario europeo all’agricoltura e dal commissario alla salute, Olivér Várhelyi, convocati da Coldiretti. Rispetto agli Usa, che sono il nostro primo mercato estero, ci sono due modi di vedere il bicchiere. Chi fa vini di fascia medio-bassa trema - discorso a parte per il Prosecco, insidiato anche da una volgare imitazione californiana come il CalSecco, e per gli spumanti che vanno comunque forte - chi invece ha etichette premium vede l’effetto Trump come un fattore di competitività: i vini francesi subiranno un contraccolpo liberando spazio per i nostri; se l’ottimismo che Trump vuole indurre negli americani funziona chi ha soldi avrà ancora più voglia di Italia.
Le cantine più blasonate da Antinori a Caprai, da Masi a Tenuta San Guido, da San Leonardo a Mazzei e tutte quelle che costituiscono la nostra eccellenza non sono pessimiste. Confida Riccardo Cotarella, il più famoso degli enologi italiani e produttore con Famiglia Cotarella: «Il vino è in una tempesta perfetta, ma se reagiamo bene possiamo uscirne: fino al 25% i dazi non sono un grave problema per le etichette di maggior pregio». Della stessa opinione Sandro Boscaini, mister Amarone guida la Masi, l’unica quotata in Borsa: «C’è bisogno di un rilancio: bisogna amministrare bene le aziende, coniugare ricerca e territorio difendendo l’unicità del vino». Che significa 14,2 miliardi di euro, 270.000 aziende che producono 38 milioni di ettolitri di cui il 60% è Doc o Igp. Il punto è ritirare su i consumi interni (22 milioni di ettolitri) e aprire nuovi mercati. È un Vinitaly che coltiva la speranza: la cupezza non s’addice a chi fa vino.
Se 8 miliardi vi sembran pochi. Si parte da qui, da oggi fino al 5 aprile a Verona con il Vinitaly, che viene inaugurato stamani dal ministro per la Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida. Otto miliardi nel 2022 sono la performance record all’esportazione delle nostre cantine - nel complesso il settore vale 14 miliardi di fatturato, 6.500 aziende imbottigliatrici, 1,4 milioni di occupati - che hanno negli Usa la terra «promossa». Comprano per quasi 2 miliardi con un incremento del 16,2, ma si sono superati di slancio anche i timori della Brexit, con il mercato britannico che fa +32,7%, merito in larghissima parte del Prosecco, che resta il più amato dai sudditi di re Carlo.
Dunque c’è da fare festa? Non del tutto e non per tutti. I maggiori gruppi sono andati assai bene (crescita media del 9%). In testa alla classifica si confermano i colossi cooperativi (Riunite più Giv valgono 650 milioni, con Caviro e Cavit al di sopra dei 250 milioni) e ci sono alcuni aggregati molto dinamici come Aiga e Italian wine brands. La marca conta sui mercati mondiali più del territorio. Che invece è affermato dalla toscanissima Marchesi Antinori (settima in classifica per fatturato a 240 milioni, così come Santa Margherita dei Marzotto), ancora una volta premiata come migliore cantina del mondo e da altre case storiche come i Frescobaldi, i Lunelli con Ferrari, Terra Moretti e Masi.
Sconta invece l’aggressione di capitali esteri il vino di nicchia. Il fenomeno è particolarmente evidente in Toscana, dove ci sono state 73 acquisizioni, ma riguarda tutta Italia e segnatamente la Langa (23 affari). Nell’ultimo anno sono finite in mano straniera 209 aziende vinicole, segno di due fattori contrastanti: da una parte c’è un incremento di percezione di valore del vino italiano (da Gaja a Ornellaia passando per Sassicaia, Fontodi, Planeta, Caprai la lista delle cantine e produzioni al top è lunghissima), ma dall’altra c’è una debolezza sistemica. È uno dei temi centrali del Vinitaly che oltre la celebrazione, oltre le degustazioni spettacolo, oltre ad affermare che siamo il primo Paese produttore al mondo con 48 milioni di ettolitri (ma nelle cantine giace una vendemmia e mezzo d’invenduto e anche se c’è una massa considerevole di vini pregiati in affinamento, forse un problema di sovraproduzione esiste e basta guardare a Bordeaux, dove si finanzia l’espianto dei vigneti, per saperlo) deve interrogarsi sul futuro. Che non è così roseo.
Il boicottaggio che Paesi come l’Irlanda hanno compiuto con le etichette allarmistiche, la posizione della Commissione europea che di certo non è favorevole al vino e all’agricoltura in generale, le offensive dell’Oms che confonde l’abuso di alcol con il consumo consapevole colto e identitario del vino, sono una spia delle sfide che il vino italiano deve affrontare. Sarà anche per questo che il ministro Lollobrigida ieri, inaugurando Opera wine (è l’anteprima di Vinitaly organizzata da Wine Spectator, la Bibbia del vino in America, che selezione le migliori 130 cantine italiane), ha ribadito: «Il vino è il nostro gioiello di famiglia, la punta di diamante che traina tutto l’agroalimentare. E tutto quello che può fare da traino, a livello economico e culturale, per il governo è una priorità. Perciò ci saranno tanti colleghi con me a Vinitaly. Con uno schema che replicheremo anche in altre occasioni, perché ogni ministero che ha competenza diretta o indiretta sul made in Italy deve lavorare in maniera sinergica, come non è mai stato fatto». A eleggere le cantine ambasciatrici del valore Italia sarà il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, atteso a Verona domani, lunedì 3 aprile, mentre Daniela Santanchè, ministro per il Turismo, ha pronto un piano di rilancio dell’enoturismo che è uno dei motori delle vacanze in Italia per questa stagione che si sta aprendo con le prenotazioni di Pasqua, con la prospettiva di un anno record.
È dunque un Vinitaly di consacrazione e al tempo stesso di svolta per un settore che deve comunque misurarsi con un’esplosione dei costi - vetro, etichette, legno, trasporti, energia gli aumenti medi per le cantine si sono aggirati al 60% - non del tutto compensati dall’aumento dei prezzi di vendita e un evidente polarizzazione del mercato tra le etichette di maggior prestigio, che non hanno problemi e la produzione di massa, che invece batte in testa per la riduzione «forzata» dall’inflazione dei consumi. Agricoltura di precisione, la frontiera del biologico, quella ancora più innovativa dei vini dealcolati (Freddi e Bottega presentano i primi spumanti e Prosecco a zero alcol), il rapporto con l’arte (a Verona vengono esposti i capolavori a soggetto vino provenienti da tutta Italia e cantine come Caprai affidano agli artisti, in questo caso Bernulia, la rappresentazione delle sensazioni di degustazione) sono gli input che emergono da un Vinitaly in edizione gigante. Fino al 5 aprile 4.000 cantine, 800 degustazioni, 1.000 buyer da 30 Paesi e oggi e domani anche tutta Verona coinvolta con Vinitaly in the city, raccontano l’Italia in vigna.
La grande osteria dei popoli riapre le porte. Verona è pronta per la 55ª edizione del Vinitaly che si annuncia come la fiera del vino record del post Covid. Alla rassegna, aperta dal 2 al 5 aprile, sono attesi da oltre 4.000 cantine decine di migliaia di buyer di tutto il mondo, sommelier, giornalisti enoici. L’anno scorso, primo anno dopo la pandemia, gli acquirenti stranieri furono 25.000 provenienti da 139 paesi su un totale di 88 mila operatori del settore. Quest’anno a far volare il Vinitaly sarà il ritorno di Cina e Giappone e la presenza di oltre mille super buyer selezionati e invitati all’appuntamento di vino tra i più importanti del mondo. E in città si stanno lustrando i calici per accogliere altre decine di migliaia di winelover, amanti del vino. Stormi di Giulietta e Romeo da barricaia.
Ai 55 anni di vita del Vinitaly vanno sommati i 3000 e passa anni di vite e di vino nel territorio veronese. Fu Hans Barth, giornalista tedesco corrispondente da Roma del Berliner Tageblatt all’inizio del Novecento, immenso bevitore e poeta di vino, a chiamare Verona «l’osteria dei popoli» nella sua Guida spirituale delle osterie italiane da Verona a Capri (1909). Ispirato da una musa ebbra di rime e versi, Barth cantò la città scaligera con gorgogliante entusiasmo: «Noi specialisti nel genere la chiamiamo la grande osteria dei popoli. Olimpo Walhalla, Eden a un tempo; un’osteria potente, coronata di lauro, aureolata di poesia: l’osteria d’Italia!». Versi di spirito e mito.
Non si visita Verona, non si accostano i veronesi, senza conoscerne l’anima. Urbs multibibens, enocapitale d’Italia, a Verona ci si arriva preparati. E non c’è niente di meglio per capire i veronesi, afferma Barth, che capire la loro sete. Lui la capì perché era anche la sua sete. Una sete storica, atavica. Una imperiale sete di vino che risale ai tempi di Cassiodoro e, giù giù nei secoli, fino ai Reti, fino ai sapiens dell’età del bronzo. Attenzione, però. La sete di Verona non è mai stata un bisogno corporale, ma sociale. Non per niente da secoli l’osteria è la seconda casa dei veronesi. Era, ed è, un’arte, un modo di essere, una filosofia esistenziale. Bibo, ergo sum? Puttanata. A Verona l’osteria era ed è ancora quella che per gli Ateniesi era l’agorà, per i Romani le terme, per i tedeschi le birrerie, per i francesi le garconnieres: un piacere civico.
La Magna Verona del vescovo medioevale Raterio, l’Urbs Picta rinascimentale, la Bella Verona di Shakespeare, ha trovato lungo i secula seculorum il minimo comune multiplo nell’osteria, il luogo parallelo, la seconda dimensione del vivere veronese quotidiano. Il gòto, il bicchiere di vino, nella città scaligera era ed è mosto di democrazia. Ha sempre favorito i rapporti, le amicizie. Il vino - assaporato, non ingollato - ha aiutato la ragione a risolvere i problemi, le difficoltà della vita. Da secoli l’osteria è stata (ed è) il luogo deputato alle confidenze, alle consolazioni reciproche. Il posto dove si mescolano lingue, dialetti e sentimenti. Non per niente gli stranieri si sono sempre trovati bene a Verona: i Goti (quelli di Teodorico, non i bicchieri) elevarono Verona a capitale, i Longobardi vi dimenticarono le originarie steppe, i francesi i loro chateaux, e gli austroungarici la lasciarono nel 1866 piangendo.
Tanto affetto per le osterie lo si deve anche agli osti, capaci di trattenere gli avventori apparecchiando sul bancone bocconcini da abbinare ai vini: Bardolino e sarde del Garda; baccalà e Durello di Monteforte; trippe e Valpolicella; pastissàda de cavàl e Amarone; alborelle e Soave; uova soda e broccoletti e Custoza... E così, tra una ciàcola e l’altra, tra una acciughina col cappero e l’altra, si fa presto a fusilàr, fucilare, tre o quattro goti tirando tardi e cementando nuove amicizie. Il dialetto è la colonna sonora del bere veronese, il lessico famigliare. Un verbo nato nelle osterie dell’ansa dell’Adige è cicàr. Corrisponde al masticare tabacco, ma si usa anche con i vini robusti. Cicàr un goto equivale a bere un bicchier di vino «mangiandolo».
A Verona fino ad un secolo fa prosperavano centinaia di osterie, perfino 12 in una sola strada. Ai nostri giorni non è più l’osteria dei popoli, ma si difende ancora bene. Locali dove si beve bene accompagnando il goto con un panino con la soppressa o il cotechino, con un piattino di testina o un’insalatina di nervetti, si trovano ancora. Il bicchiere è taumaturgico, filosofico. San Zeno, Platone e Freud declinati insieme. Aiuta a tirar fuori quello che si ha dentro, a fare amicizia, a ragionare con gli altri avventori di politica, di calcio dei casi della vita. E pazienza se qualche osteria è diventata una sas, se ha il www accanto al numero telefonico o è in facebook. Non sono i tributi alla modernità a fare l’osteria, ma la bevuta paziente, la conversazione con il calice in mano, la polpettina di carne, l’assaggio di rénga, l’aringa affumicata, il piatto di baccalà, di trippe o i superbi pasta e fasòi e pastissàda de cavàl. In certe osterie di campagna si trovano ancora piatti dimenticati: le verze rabbiose, le raìse (radici) col lesso, l’oco o il sisòn (oca o anatra muta) in umido.
Girare per le osterie di Verona è un itinerario alternativo, ma sempre legato a cultura, arte, storia. Accanto a loro ci sono sempre chiese magnifiche, piene di capolavori, edifici medievali, palazzi veneziani, architetture moderne: Pisanello e Scarpa, il Veronese e Libero Cecchini, Gerolamo dai Libri e Pier Luigi Nervi. È la Verona fascinosa e suggestiva dei veronesi. Purtroppo molte delle osterie di Hans Barth non ci sono più. Se si tracciasse sulla mappa della città scaligera una croce per ogni osteria scomparsa, Verona diventerebbe un cimitero monumentale. Nel quartiere popolare di San Zeno, quello di Papà del Gnoco, ce n’era un firmamento intero: l’Osteria al Sole, quella alla Stella, l’Osteria alla Luna celebrata da Barth per la bontà dei vini e il florido seno dell’ostessa: «Ecco Gina, la fiorente figlia della più provocante delle mamme! Scendi giù nella grotta e portaci la delizia dei colli veronesi, la delizia fresca e voluttuosa, dalla lieve schiuma frizzante, la rossa delizia nella cui capace e chiusa arca vorrei un giorno riposare come il duca di Clarence: “Dove avrai tu riposo/ o stanco pellegrino?/ Entro la bella Luna,/ nel più ricolmo tino”».
La Bottiglieria al Piccolo Mondo Antico dei fratelli Sterzi era in via Scudo di Francia, perpendicolare a via Mazzini. Alla loro corte si davano appuntamento gli intellettuali della città: poeti, giornalisti, pittori. Tra gli altri il pittore Angelo Dall’Oca Bianca e il poeta Berto Barbarani che mise in versi il potere curativo dell’osteria: «Se la fortuna la me fa i corni/ mastego amaro per tutto un dì/ me scondo drento de na ostaria/ nego la rabia drento al vin…/ torna l’allegra malinconia/ caval del mato del me destìn!».
L’osteria-farmacia, l’osteria-casa; l’ostessa madre, sorella, amante. Nel cuore più antico di Verona, in corticella San Marco, c’era il bettolino della Nina. Poco lontano, in corte Sgarzarie, c’era l’osteria della Màlia. L’osteria Scaligera era in uno dei palazzi che appartennero ai Della Scala, poco lontana dalle gotiche Arche, le loro tombe. Apriva la porta nel palazzo che, secondo la tradizione, era di Romeo Montecchi. Era anche salumeria e doveva essere davvero un ritrovo di grande fascino, con baldacchini di lardi e prosciutti appesi al soffitto, festoni di salsicce, piramidi di formaggi. Qui il bibace giornalista tedesco beveva un «buon vinello bianco frizzante, dall’aspetto chiacchierino». L’osteria alle Arche. «Fin che gh’è vin, ghe sarà Verona», dice un profetico proverbio veronese. Difficile smentirlo.

