Sono in tanti, nelle ultime settimane, a preoccuparsi per le condizioni della libertà di stampa e di pensiero in Italia. Elly Schlein sostiene che, laddove le destre governano, queste libertà siano limitate e sia a rischio la democrazia. Purtroppo, la gran parte dei paladini del giornalismo d’inchiesta e del free speech sembra mobilitarsi soltanto quando gli allarmi democratici servono a guadagnare consensi, e tacciono invece quando entrano in campo poteri davvero forti e autoritari. Lo dimostra il silenzio quasi totale che qui da noi (e non solo) circonda Frédéric Baldan, ex lobbista europeo e grande accusatore di Ursula von der Leyen di cui ha svelato gli altarini in un libro intitolato Ursula Gates, pubblicato in Italia da Guerini Editore e per lo più ignorato dalla cosiddetta grande stampa. Baldan ha raccontato in alcuni post su X che cosa gli stia accadendo. «La settimana scorsa», racconta alla Verità, «sono stato in Italia e in Svizzera, proprio per la promozione del mio libro. Al mio ritorno, sono dovuto andare a ritirare una lettera raccomandata, scoprendo che proveniva da una delle mie banche. Avevo già avuto un’esperienza piuttosto particolare durante l’estate con la banca Ing, che aveva deciso di chiudere i miei conti. E una seconda banca, nello stesso periodo, aveva cominciato a crearmi problemi in materia di Kyc, ovvero Know Your Customer, le norme relative alla corretta identificazione dei clienti. Si tratta di banche di cui ero cliente da dieci, quindici anni; persino la banca Nagelmackers, che è la seconda dopo Ing. Ero cliente già quando si chiamava ancora Delta Loïc, dunque ha persino cambiato nome nel frattempo. Ebbene, anche questa mi ha comunicato che avrebbe chiuso i miei conti bancari a scadenza. Mi concede un breve termine per cambiare banca, ma sta chiudendo i conti di mio figlio di cinque anni, il conto cointestato con mia moglie, i miei conti personali, nonché quelli del mio studio di consulenza e della casa editrice che ha appunto pubblicato questo libro in francese, e che ha consentito a Guerini di ottenere i diritti per permettere agli italiani di leggerlo in traduzione». Curiosamente, subito dopo l’uscita del suo volume esplosivo su Ursula, all’autore belga vengono chiusi i conti, e senza troppe spiegazioni. «In effetti sono un po’ stupito», ci dice Baldan. «Voglio dire, le banche si sono arrogate, nei loro contratti tacitamente approvati - il che significa che tali condizioni non vengono mai formalmente accettate dai clienti - il diritto di chiudere i nostri conti senza dover fornire alcuna motivazione. È qualcosa di piuttosto sconcertante. Vedo ciò che il mio Stato fa per limitare l’uso del contante, ad esempio obbligandomi, come impresa o come privato, a passare attraverso il sistema bancario per effettuare pagamenti con il pretesto della lotta al riciclaggio di denaro, mentre tutti sanno che il riciclaggio non avviene più lì (è ormai su scala industriale e si serve delle tecnologie digitali), quindi questa giustificazione ha ormai ben poco senso. Alla fine, si vede che lo Stato ha in qualche modo delegato o intermediato i nostri diritti fondamentali, come il diritto di proprietà privata, attraverso la banca; e oggi la banca si riserva il diritto di accettarci o meno come clienti. In tal modo, come ho spiegato nel libro, essa trasforma un nostro diritto fondamentale in una sorta di privilegio concesso dalla banca: quello di avere, o meno, un conto bancario». Non è la prima volta che assistiamo a fatti di questo genere. È accaduto ai camionisti canadesi che protestavano contro le restrizioni covid, è accaduto in Gran Bretagna a Nigel Farage e in Italia a movimenti e Tv indipendenti come Visione accusati di essere filorussi. Ogni volta le chiusure avvengono in modo ambiguo, con motivazioni confuse o del tutto assenti, così che chi le subisce non possa difendersi facilmente. Viene sempre il dubbio che dietro ci sia altro, magari qualcosa di diverso da una ritorsione politica. Abbiamo chiesto dunque a Baldan se non abbia per caso detto o scritto qualcosa sugli istituti di credito interessati o se non abbia fatto altro che potesse giustificare il blocco dei conti. «È piuttosto semplice», ci ha risposto. «Fino a oggi non avevo mai menzionato pubblicamente questo problema dei conti bancari. Persino Ing, che mi ha chiuso i conti lo scorso luglio, e Nagelmackers, che invece mi ha creato difficoltà in materia di verifica dell’identità del beneficiario economico - dunque di conformità alle norme bancarie - non erano mai state da me citate prima. Quindi non può trattarsi di mie dichiarazioni rivolte alle banche. Tuttavia, ciò che è molto chiaro è che due banche concorrenti, che nello stesso momento iniziano entrambe a tentare di espellermi come cliente e a chiudere i miei conti, non possono farlo se non in presenza di un elemento scatenante comune. Riflettendo un istante, l’unica spiegazione plausibile è che lo Stato, nel tentativo di difendere la posizione di Ursula von der Leyen, abbia autorizzato i propri servizi a ottenere i miei estratti conto bancari presso le mie banche». Se così fosse, il quadro sarebbe piuttosto inquietante. «Questo implica l’avvio di un’indagine, una forma di sorveglianza a distanza, a mio avviso in violazione dei miei diritti fondamentali», insiste Baldan. «E non credo si tratti di un’inchiesta giudiziaria, ma piuttosto di un’indagine di intelligence. Si vede dunque un vero e proprio abuso di potere, che rappresenta, secondo me, la conseguenza di una decisione politica. Probabilmente si sta cercando di costruire contro di me qualcosa di poco trasparente - forse un profilo, o una narrazione che mi dipinga in una luce negativa in futuro. Ecco, direi che spetta piuttosto al ministro della Giustizia del Belgio fornire spiegazioni, così come oggi spetta alle banche farlo». Non è tutto. Non solo a Baldan sono stati chiusi i conti, ma gli è stato pure ritirato dalle autorità europee il permesso di svolgere la sua regolare attività di lobbysta nelle sedi Ue: «Il mio badge è stato definitivamente annullato e che il mio studio di consulenza è stato rimosso dal registro. In teoria, dunque, non posso più accedere liberamente agli edifici dell’Unione europea, non posso più incontrare le persone che vi lavorano né partecipare agli eventi: si tratta di una volontà molto chiara da parte della Commissione europea. Sono stato radiato da una subordinata di Ursula von der Leyen, alla quale avevo richiesto gli Sms e i contratti che coinvolgevano Pfizer. È quantomeno curioso che, dopo il deposito di una denuncia penale, la funzionaria incaricata si sia poi occupata di attaccare il mio badge e il mio accredito professionale, cosa totalmente vietata dalla legge e dal regolamento europeo che tutela i whistleblowers». Chi in queste ore si dice preoccupato per le sorti della libertà di stampa, dovrebbe immediatamente mobilitarsi e affrontare il caso di Baldan. Non solo per il contenuto delle sue denunce, ma soprattutto perché è inaccettabile che criticare le istituzioni europee esponga a conseguenze di questo genere. «La situazione è davvero molto grave», conclude Baldan. «Penso che potrebbe accadere a chiunque. Oggi, chiunque è alla mercé della propria banca e della politica, e per questo bisogna lottare per riconquistare le nostre libertà». Ha pienamente ragione: vedremo quanti prenderanno le sue parti.
Alla fine per salvare la Francia e la Germania, c’è il rischio che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen molli l’Italia. Il vertice sull’automotive, fissato a Bruxelles per venerdì 12 settembre, dal quale ci si attende l’impegno a rivedere la normativa green che sta uccidendo l’industria europea, potrebbe privilegiare Parigi e Berlino. Von der Leyen non ha la forza per imporre un cambio di direzione netto, stretta d’assedio dai Verdi che continuano ad avere un peso nelle scelte. Ma deve comunque dare un segnale. E questo potrebbe essere l’inserimento dell’«eco-score», il sistema di etichettatura che valuta l’impatto ambientale della produzione di auto, dal consumo di energia allo smaltimento delle batterie, fino alla logistica. Un meccanismo che avvantaggerebbe Parigi dotata di nucleare ma penalizzerebbe Roma.
Bruxelles va a braccetto anche con Berlino e le indiscrezioni parlano della possibilità che di un via libera, dal 2035, alle tecnologie di alimentazione gradite ai tedeschi. Per l’Italia significherebbe il de profundis dei biocarburanti, già certificati green e quindi con tutte le caratteristiche per diventare la soluzione numero uno della transizione ecologica e del salvataggio dell’automotive.
Stellantis e il ministero del Made in Italy hanno ben presente il pericolo e di questo si è parlato al vertice di ieri a Roma, il primo dal quale è emerso un comunicato congiunto tra il gruppo automobilistico, la filiera e il ministero. Ha preso forma una linea comune tra i soggetti del comparto e il ministro Adolfo Urso per far valere le ragioni dell’automotive italiana a Bruxelles. Urso, il ceo di Stellantis Antonio Filosa e Roberto Vavassori (presidente di Anfia, l’associazione della filiera automobilistica) hanno concordato di «ritrovarsi a breve per esaminare l’aggiornamento dello studio sulla competitività e le prospettive della filiera italiana e di intensificare nei prossimi giorni il dialogo con la Commissione europea e gli Stati membri per ripristinare la neutralità tecnologica e prevedere flessibilità nelle regolamentazioni Co2 di veicoli leggeri e pesanti». L’obiettivo, affermano, «è di chiedere con forza alla Commissione di trasformare il dialogo in azioni strategiche».
Nell’incontro si è pure parlato delle modalità per «favorire la produzione di autovetture di piccole dimensioni, anche attraverso la promozione di un’evoluzione della normativa europea». C’è stato poi un un aggiornamento sulle attività di Stellantis nel nostro Paese ed è stato approfondito il tema dei veicoli commerciali, evidenziando «la necessità e l’urgenza di rivedere le attuali normative europee, ritenute irrealistiche e dannose per il futuro dell’industria».
Mentre si svolgeva l’incontro con Urso che ha gettato le basi della posizione italiana al vertice di venerdì prossimo, al Salone dell’auto di Monaco il responsabile per l’Europa di Stellantis, Jean-Philippe Imparato, ha lanciato l’allarme. «Gli obiettivi fissati dall’Europa nel settore auto per il 2030 e 2035 non sono più raggiungibili, a meno che non si ipotizzi di andare incontro a un crollo del mercato di circa il 30% o al tracollo finanziario di tutti i produttori in Europa». Una realtà sotto gli occhi di tutti ma che evidenziata dai vertici di Stellantis assume un carattere di novità. Il Gruppo dice addio al precedente target di vendere solo veicoli elettrici nel 2030 nel Vecchio Continente, un traguardo che faceva parte del suo piano strategico Dare Forward. «La discussione strategica sull’evoluzione della normativa in Europa è una discussione importante», ha affermato Imparato che non butta nel secchio tutto il Dare Forward. «Gran parte dei contenuti sono ancora validi, maturi e possono essere confermati. Alcuni probabilmente cambieranno. L’elettrificazione al 100% entro il 2030 non è più raggiungibile, per ovvie ragioni legate all’evoluzione del mercato».
Il rischio prospettato dal manager è la chiusura delle fabbriche per evitare significative sanzioni finanziarie da parte dell’Ue. Secondo l’attuale quadro normativo, Stellantis rischia multe gigantesche se non raggiunge gli obiettivi di emissioni medie di carbonio tra il 2025 e il 2027. Dice Imparato: «Ho due soluzioni. Uno: spingo come un matto sull’elettrico. Due: chiudo la produzione di veicoli con motore a combustione interna. E di conseguenza chiudo le fabbriche».
Attualmente il 62% dei lavoratori (su 32.745 addetti, 20.390, secondo i dati della Cgil) negli stabilimenti italiani di Stellantis sono in cassa integrazione o in solidarietà. Non solo. Alcuni progetti di punta come la Gigafactory a Termoli, che avrebbe dovuto fornire batterie innovative per la mobilità elettrica, sembrano scomparsi dalle strategie del gruppo.
Il 12 settembre all’incontro con von Der Leyen, le case automobilistiche metteranno le carte sul tavolo. Il flop del passaggio all’auto elettrica entro scadenze stringenti è assodato, è una realtà con cui bisogna fare i conti. L’industria automobilistica è riuscita a ottenere il calcolo della media delle emissioni sul triennio 2025-2027 anziché su un singolo anno. Il che dà alle aziende la possibilità di bilanciare un eventuale eccesso di Co2, riducendolo negli anni successivi. Ma, come come commentò, Luca de Meo, al tempo Ceo di Renault, si trattava di misure tardive. Al momento, la quota di mercato dei veicoli elettrici a batteria in Europa ristagna intorno al 15%, una percentuale insufficiente per una svolta in una tecnologia considerata decisiva per il futuro.
Il salto di qualità nel rapporto tra Stati e Commissione Ue è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo vissuto il periodo dell’austerity, quello del Covid e quindi della sospensione del Patto di stabilità. Abbiamo più recentemente affrontato la trattativa sul nuovo Patto di stabilità: più flessibilità quantitativa e più rigidità qualitativa, vista la possibilità di intervenire sul merito dei tagli o degli investimenti. Poi c’è stata la guerra in Ucraina scatenata dalla Russia e la necessità politica di parlare di riarmo e mettere sul tavolo pacchetti di miliardi, tramite schemi più o meno trasparenti basati sul debito comune. Ma dopo l’intervento di Ursula von der Leyen con il quale ha provato a lanciare un budget a sette anni dalla stratosferica cifra di 2.000 miliardi, possiamo registrare una novità strutturale. All’interno del piano come abbiamo già visto ieri la Von der Leyen ha chiesto per Bruxelles nuove entrate proprie per un totale di 58,2 miliardi di euro. Di questi, 15 miliardi arriveranno dalla tassa sui rifiuti tecnologici (e-waste), 11,2 dalla extra tasse su tabacco, derivati e affini. Circa 6,8 miliardi dalla tassa sulle grandi imprese, 9,6 miliardi dall’Ets, 1,4 dal meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere (Cbam) e, infine, 14,3 da aggiustamenti delle entrate correnti. Lo schema è ancora oggi poco trasparente. Prendiamo l’esempio del tabacco. I circa 11 miliardi dovrebbero essere una quota consistente del gettito prodotto nei 27 Paesi dal rialzo della componente impositiva e delle accise su sigarette e parenti vari. La quota che verrà drenata da Bruxelles potrebbe essere una percentuale del gettito extra.
Al momento nessuno sembra essersi posto un tema di fondo che vale in assoluto per tutta la tipologia di tasse che concorrono a creare la pressione fiscale, ma che vale in particolar modo per le bionde. Più si alza la pressione più aumenta il contrabbando e il gettito complessivo flette verso il basso. A Bruxelles si sono chiesti quando per troppe tasse calerà il gettito a chi resterà in mano la fregatura? Incasserà meno la Commissione o il minor incasso peserà tutto sul budget nazionale? Temiamo la risposta sia la seconda. Siamo sicuri che gli europei riescano a sopravvivere a due entità pronte a tassarli? L’una, Bruxelles, il giorno pari, e l’altra, i governi nazionali, i giorni dispari? A quel punto chi ancora sarà in grado di creare ricchezza in modo da tenere in piedi il Pil? A chi ribatte che si tratta di tasse etiche perché fumare fa male, è bene rispondere che le imposte fanno ancora più male. Soprattutto se sfidano la curva, quella di Laffer.
Ma i dubbi vengono anche su altre imposte che secondo Ursula dovrebbero rimpinguare direttamente le casse di Bruxelles. Parliamo dei prelievi sugli Ets e sul meccanismo del Cbam. I settori della manifattura pesante soffriranno tremendamente quelle che nei fatti sono sanzioni di natura green. Le aziende si troveranno ancora più nude a combattere la concorrenza degli Stati Uniti e dei Paesi emergenti. E Bruxelles che fa? Al danno aggiunge la beffa di ulteriori tasse. Non siamo del tutto sicuri che ciò possa essere sul medio termine sostenibile. Non vorremmo che ciò sia prodromico a una revisione ampia e strutturale del welfare. Detto così può suonare bene, ma nella realtà potrebbe essere l’obbligo di avviare un percorso per ridurre il perimetro delle pensioni, dei servizi e di tutto ciò che ha caratterizzato il sistema assistenziale europeo. A lungo andare chi incassa il gettito decide anche come spendere i fondi. A chi destinarli e a chi tagliarli. Corriamo troppo velocemente? Beh, la strada se la si vuole guardare è sotto gli occhi e anche bene illuminata. La cessione della sovranità nazionale in ambito fiscale si sperimenta con quei settori dai quali l’opinione pubblica si tiene solitamente lontana. I fumatori sono ormai ghettizzati e le tasse nei loro confronti sono accolte con favore da molti cittadini, i quali non comprendono che al turno successivo il perimetro si allargherà ad altre comunità e altri portafogli.
Il piano della triangolazione delle armi destinate a Kiev, con la fornitura coordinata dalla Nato, sembra non far presa sugli alleati: alcuni hanno già deciso di svincolarsi dalla proposta.
Stando a quanto comunicato da Politico Europe, infatti, la Francia ha deciso di non aderire al progetto avanzato dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, e dal presidente americano, Donald Trump, convinta che l’Europa debba acquistare armi da produttori europei. Sulla stessa linea si trova anche la Repubblica Ceca. A renderlo noto è direttamente il premier ceco, Petr Fiala, che ha dichiarato che Praga «sta concentrando i propri sforzi proseguendo l’iniziativa sulle munizioni. Per questo motivo non intendiamo aderire a nuovi progetti». E a unirsi alla scelta di non comprare armi americane per poi inviarle a Kiev pare esserci anche l’Italia, che si limiterà all’acquisto già programmato degli F-35 per il proprio esercito.
Chi invece ha accolto la proposta potrebbe incontrarsi la prossima settimana: si apre la possibilità di una riunione tra chi detiene i Patriot e i Paesi disposti ad assumersi la responsabilità economica. E proprio riguardo ai sistemi di difesa aerea, non tornano i conti tra Washington e Berlino. Da una parte, il tycoon ha affermato che i Patriot sono già stati inviati dalla Germania in Ucraina. Dall’altra, poco dopo, è arrivata la risposta tedesca: «Non ne sono a conoscenza», ha spiegato un portavoce del ministero della Difesa tedesco. Di certo gli occhi di Mosca sono puntati su questo tema. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha avvertito che la Russia «monitora attentamente» ogni presa di posizione sull’invio delle armi occidentali a Kiev. Non stupiscono quindi le affermazioni del segretario del Consiglio di sicurezza russo, Sergey Shoigu, secondo cui Mosca «non deve dimenticare che la Nato rappresenta ancora una delle principali minacce alla sicurezza nazionale» del Paese. Tra l’altro, Trump dopo aver lanciato un ultimatum di 50 giorni alla Russia, ha sottolineato che non esclude che il presidente russo, Vladimir Putin, possa cambiare idea prima della scadenza. Di certo, il presidente americano non sarà contento delle dichiarazioni rilasciate dall’omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, a Newsmax. Il leader di Kiev si è detto rammaricato per l’assistenza militare fornita dall’attuale amministrazione americana, comparandola a quella più efficace ricevuta da Joe Biden. «Ricordo che avevamo un potente pacchetto di deterrenza prima che Trump diventasse presidente. Volevo che l’America ci vendesse un pacchetto del genere. Ma non è stato fatto», ha detto. Intanto il parlamento ucraino, oltre ad aver approvato lo scioglimento del governo dell’ex premier Denys Shmyhal (candidato da Zelensky come ministro della Difesa), ha dato il via libera per aumentare di 9,8 miliardi di dollari la spesa destinata alla difesa.
Ma chi non indietreggia nell’aumentare il sostegno a Kiev è Bruxelles, che ha proposto un fondo di 100 miliardi di euro per l’Ucraina per il periodo 2028-2034. A confermarlo è stato il commissario europeo responsabile del bilancio, Piotr Serafin. «Stiamo riservando fino a 100 miliardi di euro al di fuori dei massimali del quadro finanziario pluriennale (Qfp) per l’Ucraina», ha dichiarato. Sulla questione è intervenuta anche il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen: è convinta che i fondi possano dare una mano a Kiev «nel suo percorso verso l’adesione all’Unione europea». Ma soprattutto ha spiegato che il Fondo per la ricostruzione dell’Ucraina sta inesorabilmente calando e, dunque, va rimpolpato. A criticare le posizioni di Bruxelles è stato il primo ministro ungherese, Viktor Orbán: «L’Ucraina otterrebbe un massiccio aumento dei finanziamenti, a discapito degli agricoltori europei». Niente da fare invece riguardo alle misure per punire la Russia: non è ancora arrivata la fumata bianca sul diciottesimo pacchetto di sanzioni promosso dall’Ue. La Slovacchia continua a remare contro. Lo stesso premier slovacco, Robert Fico, ha ribadito che non sosterrà le sanzioni senza aver risolto prima la questione del gas russo.
Tornando ai protagonisti diretti della guerra, la Russia si auspica che l’Ucraina venga convinta a tornare al tavolo dei negoziati. Nel comunicarlo, Peskov ha ribadito che «gli sforzi di mediazione degli Stati Uniti, del presidente Trump e del suo team sono cruciali», invitando a «esercitare pressione anche sulla parte ucraina». D’altro canto, il ministro degli esteri ucraino, Andrii Sybiha, ha sostenuto: «Siamo pronti per tali negoziati in qualsiasi formato, in qualsiasi luogo».
Spostandoci sul campo, continua l’ondata di raid russi: sarebbero stati lanciati quasi 400 droni su vaste aree dell’Ucraina, incluse Kiev, Zaporizhzhia, Dnipro e Kharkiv. Ma tra i target di Mosca sarebbe rientrata anche una fabbrica polacca stanziata in Ucraina, a Vinnytsia. A commentare l’accaduto è stato il ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski: «La guerra criminale di Putin si sta avvicinando ai nostri confini». E vicino a Odessa, un missile russo Iskander ha distrutto un sistema di difesa aerea ucraino. Intanto Mosca ha rivendicato di aver conquistato Novokhatsk, nel Donetsk, mentre Kiev parla di un bombardamento russo nella città di Dobropillia, sempre nella stessa regione.
L’Ue continua a usare il tabacco per forzare la mano sulle sovranità nazionali. Aveva tentato di scavalcare i ministeri nazionali imponendo normative con la sponda dell’Oms e adesso la Commissione interviene direttamente sui budget fiscali. La riforma europea sulle accise del tabacco, attualmente in discussione a Bruxelles, potrebbe segnare una svolta senza precedenti: una parte delle entrate fiscali derivanti da sigarette, tabacco riscaldato e prodotti della nicotina non finirebbero più nelle casse degli Stati membri, ma direttamente nel bilancio dell’Unione europea. In pratica, sarebbe Bruxelles a incassare i proventi, sottraendoli ai governi nazionali. A rivelarlo è un documento riservato, trapelato grazie ai parlamentari tedeschi, secondo cui la Commissione europea presenterà una proposta ufficiale sulle cosiddette «risorse proprie» mercoledì prossimo. Secondo le ipotesi allo studio, si legge esplicitamente, «nuove fonti di risorse proprie si potrebbero sviluppare dove appropriato, per esempio attraverso le imposte sul tabacco».
Il dossier sarebbe gestito direttamente da Ursula von der Leyen e dal commissario Piotr Serafin. Per gli altri commissari solo un accesso veloce agli atti. La consultazione interna sarebbe durata appena 24 ore, tempo in cui i funzionari avrebbero dovuto analizzare un testo di 100 pagine con impatti significativi su agricoltura, industria, salute pubblica e finanze statali.
La proposta è destinata ad accendere un forte dibattito per due motivi. Primo, secondo alcune indiscrezioni la Von der Leyen vorrebbe provare a far passare la riforma con la sola maggioranza qualificata stracciando così tutte le regole a tutela del budget comunitario. Secondo motivo, i prodotti del tabacco e della nicotina sono infatti una fonte fondamentale di gettito per gli Stati membri. Stime indicano in circa 15 miliardi l’ammontare delle risorse che, se questa proposta vedesse la luce, sarebbero sottratte ai governi nazionali, già alle prese con il Patto di stabilità.
Già nei giorni scorsi, l’ipotesi di una revisione della tassazione dei prodotti del tabacco e della nicotina, paventata da un documento interno di Bruxelles trapelato alla stampa, aveva generato forti perplessità. La proposta prevedeva aumenti per la tassazione delle sigarette fino al 139%; per i tabacchi trinciati fino al 258%; per i sigari un +1.090%, senza risparmiare nemmeno i prodotti di nuova generazione (tabacco riscaldato, sigarette elettroniche, bustine di nicotina). Un’ipotesi che per i consumatori italiani, si tradurrebbe in un aumento dei prezzi di oltre il 20% (ben oltre 1 euro a pacchetto sia nel caso delle sigarette che per i prodotti a tabacco riscaldato). Secondo le stime della stessa Ue, tali incrementi comporterebbero un aumento dell’inflazione di oltre mezzo punto percentuale. È chiaro che se lo schema dovesse passare, si aprirebbe una crepa nella sovranità fiscale dei Paesi. A oggi il gettito Iva, ad esempio, viene raccolto dai singoli governi e poi girato a Bruxelles secondo quote e proporzioni frutto di trattati. Con il tabacco saremmo di fronte a una terra incognita. Quali criteri di proporzione tra i singoli Stati? Al momento non è dato sapere e non a caso, se le indiscrezioni che arrivano dalla Germania fossero vere, la scelta sarebbe quella di secretare alla faccia della trasparenza.
A questo punto bisogna vedere che succederà da qui al prossimo mercoledì quali Paesi bloccheranno il blitz. Cercherà veramente la Commissione di imporre una novità sostanziale per il budget tramite maggioranza qualificata? L’idea di dare, da un lato, una brusca impennata alla tassazione dei prodotti del tabacco e della nicotina, e dall’altro, di trasferire le risorse fiscali dagli Stati membri alla burocrazia di Bruxelles, ha già generato le prime forte proteste.
Nei giorni scorsi, il ministro delle Finanze svedese, Elisabeth Svantesson, ha criticato duramente la proposta su X: «Le indiscrezioni indicano che la Commissione presenterà una nuova direttiva sul tabacco la prossima settimana. È del tutto inaccettabile per il governo svedese». Il riferimento è soprattutto allo snus bianco, prodotto molto diffuso in Svezia, che verrebbe colpito da un forte aumento delle tasse. «Il gettito fiscale», ha aggiunto, «deve restare ai singoli Paesi, non finire nelle mani della burocrazia europea». Non sono dettagli e pensare che siccome il tabacco è un settore aggredibile con la scusa del salutismo sarebbe un errore fatale. Si aggredisce il tabacco perché l’opinione pubblica non lo difende, ma poi in un attimo si arriva a ribaltare tutte le regole fiscali dell’Ue. Ecco perché serve vigilare.







