I passaggi di consegne sono sempre delicati. E lo diventano ancor di più quando si tratta di rinnovare una Commissione nevralgica per la realizzazione delle grandi opere, quella che ne verifica l’impatto ambientale. Le difficoltà poi si acuiscono se tutto questo succede a pochissimi giorni dall’appuntamento elettorale dell’anno, il voto per l’Europee, e se dal giudizio di quest’organismo indipendente (la commissione Via-Vas, appunto) dipende il via libera a una delle infrastrutture più politicamente «sensibili», il Ponte sullo Stretto. Il 25 maggio scade, infatti, l’attuale Commissione, presieduta da Massimiliano Atelli, che ha già iniziato l’istruttoria sul collegamento tra Messina e Reggio Calabria, e il 9 di giugno c’è il voto per le Europee. In mezzo era attesa la decisione sulla regina delle grandi opere, così come sono in ballo «i giudizi» sulla Gronda di Genova, la diga di Genova (sulla quale è intanto calata la mannaia dell’Anac), la Torino-Lione, i rigassificatori Snam, il data center di Google e circa altri 130 dossier di analogo spessore. Concomitanze di date che non aiutano, ma è proprio quando le situazioni sono complesse che la mano del decisore politico diventa più importante. Il punto è: cosa succederà alla Commissione? Il rinnovamento è stato deciso. Su spinta del viceministro della Lega Vannia Gava, infatti, da inizio marzo sul sito del dicastero dell’Ambiente è pubblico un «avviso permanente per l’invio di manifestazioni di interesse alla nomina in qualità di componente della commissione tecnica di verifica dell’impatto ambientale Via-Vas». Ci sono 70 caselle da riempire. E il bando rappresenta un’indicazione chiara della volontà del ministero di non prorogare il vecchio organismo. Da parte della Gava sicuramente, mentre alla Verità risulta che ci sia qualche resistenza del ministro Pichetto Fratin. O comunque che il dossier non sia in cima alle priorità, come in questo momento meriterebbe. Motivi politici? Possibile. Di sicuro, però, l’indecisione in una materia delicata come quelle della verifica dal punto di vista ambientale dell’impatto delle grandi opere può avere affetti assai deleteri. Per capirlo ritorniamo al Ponte, un’infrastruttura da circa 14 miliardi di euro che rappresenta ormai un simbolo-tormentone della politica italiana. Da circa una settimana sul sito del Mase è presente la documentazione trasmessa dalla società «Stretto di Messina» che dà 30 giorni di tempo al pubblico per avanzare osservazioni o fornire ulteriori elementi conoscitivi. Mentre da metà marzo la documentazione che ha già concluso positivamente la verifica di procedibilità presso il ministero e contiene, tra gli altri, il progetto definitivo, lo studio di impatto ambientale e la relazione paesaggistica è nella mani della commissione Via-Vas. I consiglieri, che hanno 90 giorni di tempo, sono alle prese con un faldone da più di 9.000 documenti e i fucili spianati delle associazioni ambientaliste. Insomma, consci delle responsabilità rispetto a qualsiasi decisione dovessero prendere è possibile pensare che in 70 giorni (da metà marzo al 24 maggio) concludano i loro approfondimenti? Sembra stiano lavorando ogni giorno utile e che abbiano riorganizzato gli impegni dando la priorità al Ponte, ma la strada della razionalità porta a pensare che a fine maggio più che un passaggio di consegne ordinato non gli si potrà chiedere. A chi? A una Commissione già pronta e con la quale hanno avuto anche la possibilità di interloquire, come sarebbe auspicabile, o al governo in attesa che arrivino i nuovi consiglieri? Fa tutta la differenza del mondo. Perché da lì a qualche giorno ci sarà il voto europeo che può stravolgere gli equilibri anche tra partiti alleati. Insomma, per il ministero dell’Ambiente è arrivato il momento di accelerare, perché quando si parla di grandi opere il tempo è denaro e per il Ponte rappresenta anche qualcosa in più. Non tutti però al Mase sembrano avere chiaro il concetto.
La battaglia della Tav sembra infuriare ancora. Stavolta in Parlamento, dove per la prima volta la maggioranza impegna il Senato (e non il governo) a riconoscere una mozione opposta alle direttive del premier. Tuttavia non siamo certi nemmeno di questa incertezza. Il caos d'Aula che si profila all'orizzonte viene fermamente smentito dalla Lega, la quale sostiene che nessuna mozione potrà mai fermare l'opera che collega Lione con Torino.
Di parere opposto è il leader dei grillini, Luigi Di Maio , che ieri si è lanciato in un esercizio linguistico di rara complessità. «Se sulla Tav Torino-Lione si decidesse ad armi pari, il Movimento 5 stelle avrebbe i voti per riuscire a bloccare quell'opera che spreca soldi», ha detto in diretta Facebook, dimenticando che a inviare alla controparte francese l'ok per il prosieguo delle attività di cantieri è stato proprio il ministero delle Infrastrutture diretto da Danilo Toninelli, 5 stelle e fermo oppositore dell'opera. «Se si vuole vincere contro di noi bisogna allearsi con i nemici di sempre, si deve mettere la destra e la sinistra assieme», ha aggiunto Di Maio, «che ancora una volta probabilmente dimostreranno di essere d'accordo sempre su tutto e soprattutto sugli sprechi. Io sono molto contento di aver fatto il contratto di governo perché riusciamo a ottenere dei risultati. Se oggi non esistesse il contratto di governo avremmo ancora tutti contro di noi», ha aggiunto il numero uno del Movimento che nel medesimo post è riuscito a confermare la fiducia al presidente del Consiglio e a negare l'ipotesi su una crisi di governo dovuta all'alta velocità.
«Qualcuno parla di crisi di governo... ma quale crisi di governo? Al massimo», ha rincarato il titolare del Mise, «stiamo parlando della crisi di qualche partito che vota insieme al Pd e a Silvio Berlusconi il progetto che regalerà a Emmanuel Macron 2,2 miliardi di euro. Al massimo si può parlare della crisi di un partito che voterà insieme a quelli che stavano sulla Ong che ha speronato la motovedetta delle Fiamme gialle, che voterà insieme a quei partiti che in questi anni ci hanno fatto la legge Fornero e il Jobs act».
Insomma, a leggere le dichiarazioni in chiaro dei 5 stelle e i movimenti in atto al Senato non si riuscirebbe a capire dove Di Maio e Toninelli vogliano andare a parare. A meno che non si realizzi l'imboscata che il ministro delle Infrastrutture sta preparando in queste ore. Il titolare del dicastero ha un obiettivo che è più simile a un agguato notturno: fare saltare il consiglio di amministrazione di Telt, l'azienda per metà di proprietà dello Stato francese e per l'altra metà di Ferrovie dello Stato con il compito di promuovere e realizzare la Tav.
Lunedì sera avevamo lasciato Toninelli a Joppolo in provincia di Vibo Valentia. Inaugurava la Sp 23 che collega appunto Joppolo a Coccorino. Nonostante i due Comuni siano minuscoli, il ministro ha dichiarato: «Sono queste le opere che la gente vuole vedere terminate. Non la Tav». Così convinto della sua affermazione che nella serata stessa di lunedì la segreteria del ministero ha chiesto a un importante dirigente di acquisire entro la mattina di ieri una serie di informazioni dal board di Telt: come si nominano e come si sostituiscono i vertici della partecipata di Fs e dello Stato francese.
Già qualche mese fa il Mit aveva ipotizzato di rimuovere Paolo Emilio Signorini dalla poltrona che occupa dal 2015. Il blitz non era partito. Stavolta l'obiettivo sarebbe quello di far decadere l'intero consiglio. Una volta azzerato dovrebbe ripartire l'iter di assegnazione degli incarichi. Le nomine competono ai due Stati e ciascuno deve approvare le quattro avanzate dalla controparte. Per cristallizzare il cda a Roma serve il placet di Parigi, per capirsi. Nel 2015 la lettera di comunicazione ai francesi, a nome del governo, fu inviata da Maurizio Lupi, che rivestiva l'incarico di Toninelli. Mentre ai sensi dello statuto spettò al rappresentante di Ferrovie (all'epoca Roberto Mannozzi) formalizzare tutti gli incarichi.
Ecco che oggi i vertici di Fs non potrebbero sbattere la porta in faccia al Mit né ai vertici dei 5 stelle. In pratica azzerando e rinominando il cda di Telt, i grillini potrebbero infilare un quartetto di uomini poco propensi a far partire l'intera macchina della Tav. E visto il ruolo delicato che ricoprirebbero, ci vorrebbe poco a inserire sabbia nel serbatoio dell'auto. Non sappiamo se il progetto andrà in porto. Ci ricorda un po' quei piani dei soldati giapponesi che a 20 anni dalla fine della guerra preparavano imboscate nella giungla delle Filippine. Ci chiediamo solo che cosa penserà Giuseppe Conte di un tale piano, dopo che da premier ci ha messo la faccia.
- Corteo degli antagonisti davanti al cantiere, alcuni manifestanti riescono a fare irruzione. Sassaiole in prossimità della zona rossa. Slogan contro i pentastellati, che ora sono orfani sia degli attivisti che del loro stesso governo, ormai lanciato verso l'Alta velocità.
- Nella maggioranza si pensa già al successore. In pole Stefano Patuanelli oppure Mauro Coltorti.
Lo speciale contiene due articoli
C'è qualcuno d'importante a cui non piace il corteo No Tav che ieri, dal campeggio dell'Alta Felicità di Venaus, ha tentato di raggiungere Chiomonte. Riuscendoci solo in parte, nonostante ci abbiano provato con sassaiole e forzando la pesante cancellata che conduce al cantiere. Hanno aperto un varco e quindi abbattuto la barriera, ma le forze dell'ordine hanno risposto lanciando lacrimogeni e costringendo i dimostranti ad arretrare.
Gli striscioni del popolo schierato contro la linea Torino-Lione sono zuppi d'acqua: «I popoli in rivolta scrivono la storia. No Tav fino alla vittoria», si legge sotto la fitta pioggia. Nel mirino dei manifestanti soprattutto i 5 stelle accusati d'aver tradito la causa, come urlano i manifestanti: «Diciamo a tutti i politici, M5s in primis, che i loro giochi di potere e di poltrone non ci interessano. Non ci sono governi amici, ma non significa che non sperassimo che ci fosse una vittoria. Non accettiamo intimidazioni. Fermare la Tav tocca a noi». S'intonano slogan anche contro Beppe Grillo e Luigi Di Maio, si fanno coraggio i partecipanti mentre dai megafoni viene diffuso il messaggio degli organizzatori: «Quattro gocce non ci spaventeranno». Ma proprio quattro gocce non sono. Sembra, dicevamo, che qualcuno d'importante, che non è il premier Giuseppe Conte e neppure il vicepremier Matteo Salvini, cerchi di boicottare la manifestazione. Verso mezzogiorno un nubifragio ha infangato i sentieri e provocato anche una frana di fronte al campeggio dove bivaccavano i No Tav. Niente di grave, ma ha il sapore di un avvertimento. Il sindaco di Giaglione ha emesso un'ordinanza: la strada comunale oltre la frazione San Giovanni che conduce alle vigne a Chiomonte nel caso di forti rovesci diventa di «forte pericolo e il Comune non risponde di danni a cose e persone».
Chi non molla, neppure sotto l'ombrello, è Alberto Perino, leader storico del movimento che vede rinunciare molti manifestanti sconfitti dal maltempo: «Io spero sia una manifestazione bagnata ma partecipata, fatta con la testa e non con la pancia. Perché chi oggi tira una pietra, una castagna o qualunque cazzata sappia che lo fa solo per fare un regalo a Salvini, non certo ai No Tav». Le sue parole, ovviamente, non sono state ascoltate dalle frange più estremiste, nonostante le forze dell'ordine abbiano schierato 500 uomini a difesa del cantiere. Un gruppo di una decina di persone incappucciate ha tagliato con un flessibile la cancellata a sbarramento del sentiero che dall'abitato di Giaglione conduce al cantiere di Chiomonte. Quindi hanno lanciato sassi oltre la barriera, disobbedendo agli ordini di Perino. Alcuni sono penetrati nella zona vietata ma la polizia li ha contrastati con i lacrimogeni. Sono stati identificati svariati appartenenti alla galassia antagonista, provenienti da centri sociali di tutta la Penisola: ci sarebbero almeno una quarantina di denunciati, tra cui gli esponenti di Askatasuna e un leader nazionale del movimento No Tav. L'obiettivo dichiarato era di arrivare al cantiere e violare la zona rossa tracciata dalla Prefettura. Ci hanno provato dividendosi dopo due ore di marcia: un gruppo sulla strada principale, mentre altri si sono inerpicati sui monti: «Questi sono i nostri sentieri», dicono gli organizzatori». Ma quanti erano i partecipanti? L'organizzazione parla di 15.000 persone tra valsusini e attivisti dei centri sociali. In realtà, complici i temporali che hanno fatto desistere i più ragionevoli, molti meno: non più di 2.000 secondo una stima attendibile. Tutti infuriati per il via libera del premier Conte e per il tradimento dei grillini, rei di non aver mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale. L'imbarazzo dei pentastellati è evidente: ieri non si sono schierati né con i partecipanti alla marcia, né a difesa del loro presidente del Consiglio. Non potevano farlo. Che non sappiano come uscire dall'impasse è anche dimostrato dalla mozione depositata venerdì al Senato, contro lo stesso governo di cui fanno parte, per fermare l'Alta velocità. Ieri Luigi Di Maio, che pure è vice del premier Conte, che sul tema è stato chiaro, la rilanciava su Facebook con un battagliero «Noi non ci arrendiamo! Noi pensiamo al Paese, non facciamo regali a Macron».
Ad aumentare la confusione si aggiunge Alessandro Di Battista, che pubblica su Facebook un lungo post riprendendo le critiche di Nicola Morra, senatore del Movimento: «La penso esattamente come lui», esordisce, «non c'è alcuna penale per la rescissione dell'accordo sul Tav da parte dell'Italia, semplicemente perché non sono state previste. E dunque parlare di penali in termini minacciosi è evidentemente disinformazione bella e buona». Un attacco frontale al presidente del Consiglio.
E poi prosegue: «Il Tav in Val di Susa non serve ai cittadini italiani, non serve ai cittadini europei. Potrebbe servire alle imprese che lo dovessero realizzare, alle banche d'affari che stanno dietro quelle aziende. Serve, sicuramente, al Partito (unito e senza frontiere, trasversale e transnazionale) delle Grandi Opere. A questo io non ho mai aderito».
Alfredo Arduino
Toninelli non firma la lettera all’Ue. La sua poltrona sempre più in bilico
Una lettera dal ministero ma non dal ministro. E così, nottetempo, in una forma abbastanza surreale, intorno alla mezzanotte tra venerdì e sabato (la scadenza era il 26 luglio), è partita la comunicazione con cui l'Italia ha risposto positivamente alla sollecitazione sulla Tav, dopo i passati rinvii, indirizzata a noi e alla Francia da parte dell'Inea (l'agenzia per l'innovazione e le reti infrastrutturali della Commissione Ue).
La missiva è stata inviata in copia anche a Parigi, con cui del resto i contatti erano stati costanti, nelle ore precedenti, per concordare il testo. Ma con una sorpresa: a firmare la lettera è stato un funzionario del dicastero, anziché il ministro Danilo Toninelli.
Fonti non ufficiali grilline si affannano a precisare che la sigla del ministro non era strettamente necessaria, ma il fatto politico è notevole: Toninelli ha scelto questa via obliqua per marcare un suo distinguo personale, per non esporsi totalmente, per tenere fede alla fantomatica analisi costi-benefici contraria alla prosecuzione dell'opera (ironicamente ribattezzata «analisi costi-benefici zero», un po' come il «mandato zero», quello che non conta, dopo la recente «riforma» interna al Movimento introdotta da Luigi Di Maio).
Dunque, spedizioni a parte, resta un caso politico enorme. Per un verso, c'è una questione che si manifesterà in modo plastico in Parlamento, quando le Camere si pronunceranno sulla Tav: non solo il M5s resterà isolato nella posizione contraria, mentre tutti gli altri maggiori partiti saranno favorevoli; ma si certificherà su un tema di fondo una spaccatura verticale dell'alleanza di governo. La cosa non sembra preoccupare i grillini, che anzi tengono molto a quel momento, in cui - dicono - si evidenzierà la loro «diversità» da tutti gli altri, quasi un «lavacro purificatore» anti-grandi opere. E però, un minuto dopo, chiunque potrà alzarsi in Aula e dire che su un punto qualificante per l'Italia la compagine governativa non esiste più.
Per altro verso, si fa sempre più curiosa la posizione del contestatissimo Toninelli, per almeno cinque ragioni. La prima: nelle rilevazioni, risulta spesso il ministro con la minore approvazione popolare (incarna la logica del «no» che alla maggioranza degli elettori non piace). La seconda: è stato sconfessato direttamente dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, attraverso il video social di cinque giorni fa, quello in cui il premier chiariva che sarebbe costato più stoppare l'opera che proseguirla. Terzo: Matteo Salvini lo considera più un disastro che un ministro. Quarto: lo stesso Di Maio, in plurimi retroscena non smentiti, avrebbe fatto intendere di non avere la forza politica di sostituirlo, ma si è ben guardato dal fare robuste difese pubbliche e mediatiche del collega. E infine, quinto: nel mega ministero che accorpa Trasporti e Infrastrutture, il contrappeso leghista non c'è più, dopo le doppie dimissioni di Edoardo Rixi e Armando Siri. Ad affiancare Toninelli, è rimasto solo un altro sottosegretario grillino, Michele Dell'Orco. Così, paradosso nel paradosso, la sede ministeriale di Porta Pia è una specie di monocolore M5s: ma il grillino più alto in grado, per salvarsi la faccia, non firma gli atti politicamente più sensibili.
E francamente è abbastanza inedita la condizione di un ministro che resta in sella per realizzare un obiettivo politico contro cui si è battuto, e che continua ad allontanare da sé perfino negli atti burocratici più elementari, come una firma in calce a una lettera.
Da questo punto di vista, posto che questa esperienza di governo prosegua, la posizione di Toninelli appare estremamente fragile. E si fanno strada due nomi per sostituirlo, quelli di due senatori. Da un lato, l'attuale capogruppo M5S al Senato Stefano Patuanelli, più pragmatico e moderato, e con un background professionale (è un ingegnere edile) che gli consentirebbe una rapida comprensione dei dossier. Dall'altro, il senatore pentastellato Mauro Coltorti, docente universitario di geomorfologia che, nella campagna elettorale del 4 marzo, Di Maio volle nella sua ipotetica squadra proprio come potenziale ministro alle Infrastrutture. Ma la partita è solo all'inizio.
Daniele Capezzone
Il documento rivisto dal segretario leghista Matteo Salvini e dal leader pentastellato Luigi Di Maio è ora definitivo. Tra le parti più delicate - a cui il tavolo tecnico aveva chiesto di apporre ulteriori modifiche - non compare più l'aliquota fissa al 15% per le società. In questa versione c'è ancora il blocco dei lavori della Torino-Lione su cui si è aperto un piccolo giallo. Si parla poi di ridiscussione dei trattati dell'Unione Europea. Con riferimento, invece, a Monte dei Paschi di Siena si legge che «lo Stato azionista deve provvedere alla ridefinizione della mission e degli obiettivi dell'istituto di credito in un'ottica di servizio».






