Chiederà mai scusa? Riconoscerà di avere fatto un danno di dimensioni mai viste? Probabilmente no. Giuseppe Conte è così, da quando si è trasformato da oscuro professore di diritto in arrembante Masaniello, ignora la realtà e va avanti per la sua strada, convinto prima o poi di riuscire a ritornare a Palazzo Chigi, incoronato da una maggioranza di centrosinistra. Quando lo incontrai per la prima volta a Firenze, dopo che era stato buttato nell’arena politica dalla sorprendente scelta del duo Di Maio-Salvini di candidarlo a presidente del Consiglio, Conte sembrava persino spaventato dal clamore, tanto da lagnarsi che i cronisti fossero andati a scavare nel suo curriculum e gli contestassero alcune tasse non pagate. Per qualche mese in effetti, è apparso un travet al governo, un notaio chiamato a certificare decisioni non sue. Mario Giordano e io, intervistandolo a pochi mesi dal suo insediamento, ci guardammo negli occhi, chiedendoci se davvero avessimo incontrato il premier e non una controfigura. Sta di fatto che l’esitante professore, il leguleio che parlava con linguaggio involuto e a volte incomprensibile, oggi non esiste più: il suo posto è stato preso da un leader dalla smodata ambizione, il quale ritiene la sua sostituzione alla guida del governo da parte di Mario Draghi un torto personale che necessita di un risarcimento.
In realtà, il ristoro dovrebbero pretenderlo gli italiani da lui. Soprattutto dopo che sono stati resi noti gli effetti del Superbonus sul bilancio pubblico. Già tempo fa mi chiesi se non esistesse la possibilità di chiamarlo a rispondere del danno provocato alle finanze pubbliche. In fondo, qualsiasi amministratore, sindaco o governatore che abbia speso male i soldi dei contribuenti, senza curarsi degli effetti sulla cassa, è chiamato dalla Corte dei conti a mettere mano al portafogli e inseguito fino alla notte dei tempi qualora non si decida a saldare il conto. Conte sono certo che di fronte a questa mia domanda rispolvererebbe il codice civile e pure le norme costituzionali per impartire una delle sue verbose e un po’ noiose lezioni, spiegando che gli atti di governo sono politici e non si giudicano sulla base di banali questioni di conto economico. Tuttavia, se un ministro può essere mandato a processo per aver negato a una nave straniera di gettare l’ancora in un porto italiano, non si capisce perché un presidente del Consiglio che ha creato un buco miliardario nel bilancio dello Stato non debba essere giudicato. Lo so, adesso qualcuno mi accuserà, oltre che di non sapere nulla di diritto, anche di essere un pericoloso manettaro. Ma io non chiedo un processo, mi basterebbe solo che il capo dei 5 stelle riconoscesse il danno fatto. Far credere agli italiani che la ristrutturazione della propria casa fosse gratis è stata una colossale presa in giro, perché è vero che alcune centinaia di migliaia di persone hanno potuto rifare l’abitazione e anche il condominio, ma a pagare sono i 59 milioni che non hanno usufruito del bonus. Se il governo continua a metterci una pezza, rivedendo al rialzo l’impatto sul bilancio pubblico è perché la benzina con cui Conte ha alimentato la sua campagna elettorale è costata un botto. Siamo a quota 120 miliardi, l’equivalente di quattro manovre di bilancio pesanti, all’incirca più del doppio di quello che lo Stato ogni anno spende per l’istruzione. Credo che basti questa cifra per capire le dimensioni del danno provocato da Conte, che tuttavia continua a dire che grazie al Superbonus l’Italia è ripartita, perché il Pil ha avuto un aumento record e l’occupazione un gran balzo in avanti. A parte il fatto che molti dei numeri sbandierati non corrispondono alla realtà e l’effetto sul Prodotto nazionale e sulle assunzioni è stato più limitato, il problema è che la ripartenza del Paese è finita in un burrone: quello scavato nei conti pubblici.