Premetto che fino a qualche tempo fa ero contrario alla separazione delle carriere, ma già nel novembre 2023, durante un convegno organizzato da Magistratura Indipendente a Venezia, avevo testualmente detto che era necessario fare «un esercizio di sano realismo politico». In quell’occasione avevo affermato: «Dobbiamo prendere atto della realtà: ci troviamo di fronte ad una forte maggioranza parlamentare, legittimata dal voto popolare, che ha un preciso programma politico in tema di giustizia e di magistratura».
Non dobbiamo nemmeno dimenticare l’esito del referendum di giugno 2022 sulla separazione delle carriere: affluenza del 20%: sì 74%, no 26%.
Peraltro, di fatto, vi è già una separazione delle carriere, se analizziamo il numero di cambiamenti di funzioni negli ultimi anni: ma ovviamente questa pacifica circostanza non è di per sé sufficiente a sostenere la contrarietà alla separazione delle carriere se si valuta l’assetto del nostro processo penale, così come disegnato nel corso degli anni a partire dalla riforma del 1988-1989.
Sia pure con qualche perplessità, non sono contrario alla separazione delle carriere a condizione che venga mantenuta l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero.
Dobbiamo considerare che, pur con le legittime critiche che si possono fare alla riforma approvata, la stessa è indubbiamente un passo in avanti rispetto ad altri progetti di riforma di iniziativa parlamentare. Il Csm dei pm nella legge di riforma è presieduto dal presidente della Repubblica e questo indubbiamente rappresenta una garanzia sul fronte dell’autonomia e indipendenza del pubblico ministero. Personalmente non dubito dell’onestà intellettuale del ministro Carlo Nordio e delle sue continue assicurazioni su questo punto: con la riforma non vi è nessuna sottoposizione del pm all’esecutivo. Poi certo possiamo fare tutte le illazioni, ma questa è la realtà: basta leggere l’articolo 104 della Costituzione, così come riformulato.
Quanto alle criticità evidenziate, non comprendo perché la separazione delle carriere debba comportare automaticamente come conseguenza necessaria la trasformazione del pubblico ministero in un «superpoliziotto», considerato il nostro sistema processuale. Non ritengo che un pm separato dal giudice sarà necessariamente «colpevolista», ma continuerà ad applicare con coscienza la legge e potrà continuare ad indagare a 360 gradi, salvo che ci siano ulteriori interventi normativi non auspicabili.
Non è certamente questo un argomento serio da opporre alla separazione delle carriere.
D’altronde, non può non far riflettere la circostanza che il nostro ordinamento rappresenti un unicum nel panorama internazionale e vi sono numerose indicazioni anche in documenti europei sul punto (si citano sempre documenti contro la separazione delle carriere, ma vi sono documenti anche a favore).
È anche necessario precisare che non è vero, come spesso si dice, l’appiattimento dei giudici sui pm. Infatti, sono numerose le richieste dei pm non accolte.
La mia esperienza, ma non solo la mia esperienza, mi porta a dire che è il pm serio che si appiattisce sul gip serio. Mi spiego: se io pm formulo una richiesta di autorizzazione alle operazioni di intercettazione o una richiesta di misura cautelare ed il gip la respinge per mancanza dei presupposti della gravità indiziaria, sarò io pm che nelle successive richieste cercherò di adeguarmi allo standard probatorio richiesto dal giudice, se non voglio vedere rigettate le mie richieste.
Sappiamo benissimo che viviamo in un momento storico nel quale la magistratura e in genere il sistema giustizia non godono della fiducia dei cittadini e quindi la politica è in una posizione di vantaggio rispetto alla magistratura.
In questa situazione non aveva alcun senso andare alla «guerra»: non ho assolutamente condiviso la posizione dell’Associazione nazionale magistrati di totale contrapposizione e di rifiuto di ogni dialogo di fronte alle proposte di riforma (trattasi di una strategia «suicida»).
Era necessario confrontarsi, provare a negoziare e ritengo che ci fossero i presupposti anche per ottenere modifiche alle proposte di riforma, anche sulla base di alcune differenziazioni presenti nelle forze politiche di maggioranza e sulla disponibilità che parte della politica aveva manifestato.
Mi limito a qualche esempio.
Era possibile provare a confrontarsi sul mantenimento di un unico Csm diviso in due sezioni distinte per i magistrati giudicanti e per i pubblici ministeri, prevedendo per alcune materie un Plenum unitario specie sui problemi organizzativi che non possono essere affrontati separatamente senza momenti e/o sedi unitarie di confronto e di decisione.
Era possibile cercare di ottenere il passaggio da una forma di sorteggio secco ad una forma di sorteggio temperato che avrebbe consentito di mantenere una facoltà di scelta da parte del singolo magistrato nei confronti dei candidati sorteggiati, riducendo il potere delle correnti, ma consentendo di mantenere la rappresentatività.
Anche sul sorteggio anni fa avevo delle perplessità, ma gli avvenimenti degli ultimi anni mi hanno fatto cambiare idea.
Peraltro, sostenere che con il sorteggio possano divenire componenti del Csm soggetti non idonei mi sembra «offensivo» per la categoria dei magistrati: indubbiamente, in sede di attuazione, andranno stabiliti dei requisiti per essere inclusi nell’elenco dei sorteggiandi (per esempio aver superato una determinata valutazione di professionalità, non aver riportato condanne disciplinari ecc.).
Credo sia necessario, in sede di attuazione della riforma, prevedere la medesima procedura per l’individuazione dei componenti togati e laici dei due nuovi Csm per una questione di par condicio e per evitare, quindi, una diversa legittimazione degli stessi.
Era possibile negoziare, ad esempio, anche sul fronte dell’Alta Corte disciplinare, chiedendo che venisse estesa a tutte le magistrature, come era nelle intenzioni iniziali di chi per primo fece quella proposta: l’attuale intervento non può, pertanto, non apparire guidato da un intento punitivo nei confronti dei soli magistrati ordinari.
Si poteva chiedere anche di intervenire sul numero di componenti togati ed evidenziare l’importanza di una presenza nel collegio disciplinare non solo di magistrati di legittimità, ma anche di magistrati di merito. Ma ciò non è stato fatto.
Rimane, peraltro, anche la contraddizione di un sistema disciplinare nel quale, a fronte della separazione delle carriere, il procuratore generale presso la Corte di Cassazione si troverà a dover esercitare l’azione disciplinare nei confronti dei giudici.
Potevano e dovevano essere formulate altre proposte, invece si è scelta la strada di una frontale contrapposizione accompagnata, peraltro, da manifestazioni di protesta che personalmente non ho condiviso. L’iniziativa di rifiutarsi di ascoltare, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario, il ministro della Giustizia o i suoi rappresentanti non credo sia stata una buona idea: cosa avremmo detto noi magistrati se di fronte a presidenti di Corti di Appello o a procuratori generali che legittimamente nei loro interventi hanno avanzato argomentate critiche tecniche alla riforma, i parlamentari o gli esponenti governativi presenti si fossero alzati per non ascoltarli? Ho letto che in un distretto addirittura i magistrati si sono alzati quando è intervenuto il rappresentante del Consiglio superiore. Ascoltare non è mai un esercizio inutile: il confronto è sempre preferibile al rifiuto del dialogo.
Alzare lo scontro in vista della battaglia referendaria non credo sia stata e sia una buona strategia: dobbiamo essere consapevoli che la politica ha strumenti di comunicazione che i magistrati non hanno e che, quindi, il referendum rischia di fatto di avere a oggetto non le questioni tecniche al centro della riforma, ma una semplice domanda: avete fiducia o no nella situazione attuale della giustizia? È facile prevedere la risposta e sappiamo tutti che molte sono le cause di questa sfiducia, alcune imputabili alla politica, ma altre imputabili a noi magistrati (corrisponde a verità l’espressione che «i peggiori nemici dei magistrati sono alcuni magistrati»).
Dobbiamo, però, essere consapevoli che siamo in presenza di una riforma dell’ordinamento giudiziario e della magistratura piuttosto che della giustizia e tutti dovremmo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che questa riforma non risolverà certamente i problemi della giustizia italiana (ad esempio, eccessiva domanda di giustizia, durata dei processi ecc.) che necessitano di altri interventi.
Credo che ora sarà importante, in caso di conferma referendaria, «trattare» in sede di leggi di attuazione per cercare di rimediare, nei limiti del possibile, ad alcune criticità che possono essere risolte in quella sede.