Ecco #DimmiLaVerità del 5 febbraio 2025. Ospite il giornalista Fabio Amendolara. L'argomento del giorno è: "Qatargate: chiesta revoca della immunità per due eurodeputate del Pd, Moretti e Gualmini".
Roberta Metsola (Ansa)
Tempismo perfetto in vista delle elezioni: spuntano chat con la Kaili che però appaiono prive di rilievi penali.
A spianare l’eventuale corsa di Mario Draghi alla presidenza della Commissione europea potrebbe essere, secondo una tradizione tutta italiana, la cronaca giudiziaria. Un primo segnale si è visto ieri, quando, con una perfetta coincidenza temporale con l’uscita della notizia della possibile discesa in campo di Draghi, il quotidiano Il Domani ha pubblicato stralci di chat intercorse tra il presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola (fresca di incontro a Roma con il premier Giorgia Meloni) e la sua ex vice, Eva Kaili, arrestata un anno fa e costretta alle dimissioni per il suo coinvolgimento nello scandalo del Qatargate. Autore dell’articolo è Stefano Vergine, uno dei due autori dell’inchiesta sui presunti finanziamenti russi alla Lega, pubblicata dal settimanale L’Espresso nel febbraio 2019, a tre mesi dalle elezioni europee di quell’anno. Nei mesi scorsi il nome di Vergine era emerso per i suoi rapporti con il tenente della Guardia di finanza finito sotto inchiesta a Perugia per i presunti accessi abusivi alle banche dati delle forze di polizia, il quale avrebbe spiato i redditi del ministro della Difesa Guido Crosetto.
Il titolo è dirompente: «Biglietti aerei, viaggi e cene di lusso. Il Qatargate inguaia anche Metsola». Il presidente dell’Europarlamento è uno dei papabili alla successione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Ue, ma un eventuale scandalo nei mesi che precedono la nuova tornata elettorale europea la renderebbe un’anatra zoppa. Ma cosa c’è di tanto compromettente nelle chat, che sono parte di un’inchiesta più ampia sulla Kaili, pubblicata ieri dal quotidiano belga Le Soir, (e condivisa con alcuni giornalisti d membri dell’Eic, European investigative collaboration), tanto da meritare di essere il titolo di apertura della prima pagina del Domani e da essere la prima delle puntate della versione italiana dell’inchiesta? Leggiamo: «Nel gennaio 2022 Kaili viene eletta vicepresidente del Parlamento Ue. Il 25, via WhatsApp, chiede e ottiene dalla presidente Metsola la delega sul Medio Oriente». Difficile parlare di «guai», visto che anche gli altri 13 vicepresidenti hanno deleghe per «compiti specifici». A puro titolo di esempio, nella scheda dell’eurodeputata del Pd Pina Picierno, sono indicate dieci «responsabilità in qualità di vicepresidente». La Metsola però avrebbe avuto dalla Kaili anche dei biglietti, per il museo dell’Acropoli ad Atene, con annessa guida turistica e cena a seguire. Tutto organizzato dalla Kaili, che scrive: «Non devi occuparti di nulla, mandami solo il numero delle persone». Apparentemente (negli articoli non è stata specificatala lingua delle chat originali) le due donne hanno un tono confidenziale e si danno del tu, ma nella versione pubblicata da Le Soir, i toni sono più formali e la Kaili si rivolge alla Metsola dandole del lei. Ma secondo Il Domani, andrebbe chiarito chi ha pagato il conto: «È stata Kaili a pagare? Metsola non ha risposto in maniera diretta. Una sua portavoce ci ha scritto: “Non è anormale che durante le vacanze personali con i suoi figli ci siano state discussioni private su visite culturali e su dove mangiare. Nell’estate del 2022 non c’era motivo di sospettare secondi fini dietro la cordialità di una collega proveniente da quel Paese”».
Va detto che la chiave di lettura data da Le Soir è del tutto opposta a quella dei colleghi italiani, tanto che il titolo della prima pagina del quotidiano belga è «Il lobbismo sfrenato di Eva Kaili» e che i cronisti si chiedono se i biglietti e la cena non siano stati un tentativo di fare «bella figura». Niente «guai», insomma. Alcuni mesi dopo, a inizio novembre 2022, la Kaili avrebbe scritto alla Metsola: «Ti devo mandare un invito per i Mondiali, tu o tuo marito e i vostri figli potreste essere interessati?». Anche in questo caso, la versione belga differisce da quella italiana nei toni, ma anche nel merito: «Mia cara presidente! […]. Le ho inviato un invito per la Coppa del mondo, lei, o suo marito a i vostri figli potreste essere interessati?». Secondo Le Soir quindi, la Kaili avrebbe messo la Metsola davanti al fatto compiuto, comunicandole di aver inviato gli inviti. Dubbi sulla traduzione corretta a parte, la risposta fornita dallo staff del presidente dell’Europarlamento è una sola: l’invito è stato rifiutato. L’ultimo «guaio» riguarderebbe una serie di dieci messaggi che la Kaili avrebbe mandato (cancellandone poi nove che sembra non siano mai stati letti), sul cellulare della Metsola, il 23 novembre 2022. «Sul piatto» scrive Il Domani, ci sono sia l’esenzione dai visti, sia una risoluzione sul mancato rispetto dei diritti umani in Qatar, sulla quale il Parlamento Ue avrebbe dovuto votare il giorno seguente». Temi sui quali la Kaili, sollecitata dall’ambasciatore del Quatar a Bruxelles, potrebbe essere andata in pressing sulla Metsola. Chiosa finale: «L’ultimo mistero nell’inchiesta che ha scosso le istituzioni europee». Che però Le Soir pare aver già svelato: «Il Parlamento ha approvato la risoluzione».
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Eva Kaili, (Ansa)
Il giudice istruttore lascia l’indagine per un sospetto conflitto d’interessi. Andrea Cozzolino in stato di fermo in Belgio.
Colpo di scena nell’inchiesta della Procura di Bruxelles sul cosiddetto Qatargate. Nel tardo pomeriggio di lunedì il giudice istruttore Michel Claise, al termine dell’interrogatorio dell’eurodeputato del Pd Andrea Cozzolino, ha gettato la toga, rinunciando a seguire l’inchiesta. Un gesto che riporta alla memoria quello compiuto nel 1994 da Antonio Di Pietro, a cui Claise in Italia è stato spesso associato, quando dopo la requisitoria del processo Enimont lasciò la magistratura. Una scelta che in seguito alcune ricostruzioni collegarono ai presunti favori che l’ex pm aveva ottenuto da persone coinvolte nelle inchieste della Procura di Milano. Secondo i legali di Cozzolino (che si è presentato spontaneamente a Bruxelles dopo che gli inquirenti belgi avevano ritirato il mandato di cattura europeo emesso a suo carico), Dezio Ferraro e Federico Conte la decisione di Claise, «giunge dopo l’interrogatorio del nostro assistito […] e a seguito delle osservazioni sollevate nel corso dell’escussione». Prima di lasciare il caso Claise ha comunque disposto il fermo di Cozzolino, che è stato trattenuto all’interno del Palazzo di giustizia, in attesa di un ulteriore interrogatorio, portato avanti ieri pomeriggio dai poliziotti belgi. Stamattina l’eurodeputato campano, che non è ancora stato rilasciato, incontrerà il successore di Claise.
In realtà, secondo il quotidiano belga Le soir, a far maturare la drastica decisione del magistrato sarebbero state le informazioni raccolte da Maxim Toeller, legale di un altro indagato, l’eurodeputato belga Marc Tarabella, molto vicino alla collega di schieramento Maria Arena. Il figlio maggiore del magistrato, Nicolas, risulterebbe, infatti, in affari dal 2018 con il figlio della Arena, mai indagata, ma citata più volte negli atti dell’inchiesta, dove si arrivava a parlare di «collaborazione consapevole». Il fatto che la donna sia l’unica tra gli eurodeputati (o ex, come nel caso di Pier Antonio Panzeri) coinvolti a vario titolo nell’inchiesta a non essere stata oggetto di provvedimenti di cautelari rende facile comprendere le contestazioni di conflitto di interesse sollevate dal legale di Tarabella. Tanto che la Procura di Bruxelles ha ammesso che nel dossier «di recente sono comparsi alcuni elementi» che «potrebbero sollevare domande sul funzionamento oggettivo dell’indagine». Il figlio di Claise, si legge su Le soir, ha co-fondato «in quote paritetiche con altri cinque azionisti», tra i quali Ugo Lemaire, figlio dell’Arena, «la società Brc&co, specializzata nella vendita di cbd, la cannabis venduta legalmente». Una società della quale i due sono ancora oggi co-azionisti.
Alle 16:04 di lunedì, appena un’ora dopo che Cozzolino era arrivato a Bruxelles, Toeller ha inviato una lettera direttamente al giudice, informandolo della scoperta e chiedendogli di dimettersi. In caso contrario, spiega il quotidiano, il legale avrebbe presentato un secondo ricorso, dopo la richiesta di ricusazione presentata a febbraio, ma poi respinta dalla giustizia belga. Il potenziale conflitto di interessi di Claise ha scatenato anche i difensori di un altro degli indagati, l’ex vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili. Gli avvocati Michalis Dimitrakopoulos e Sven Mary hanno dichiarato a proposito della notizia su Claise jr: «Solleva enormi ed evidenti interrogativi circa l’imparzialità di tutte le azioni investigative che sono state svolte fino ad oggi e che hanno portato alla custodia cautelare di Eva Kaili, mentre per Maria Arena non sono state avviate le procedure di indagine in tempo utile, nonostante l’inchiesta la collegasse a Panzeri» e, anzi, «fosse al centro delle indagini», mentre, per stessa ammissione delle autorità competenti, «non vi era alcuna indicazione di coinvolgimento nell’organizzazione» per la Kaili.
I due legali hanno anche evidenziato che la Arena non è «mai stata interrogata dal giudice istruttore».
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Ansa
Nel dossier sul bilancio le spese pazze per il Covid. Censurato il Qatargate. Molestie, 25 onorevoli nel mirino.
Il Parlamento europeo ha speso quasi 6 milioni per i centri di controllo Covid nel 2021, destinandone 5 milioni e mezzo solo a Bruxelles, mentre il resto è stato utilizzato tra il Lussemburgo e Strasburgo. Vanno aggiunti poi altri 600.000 euro per i rilevatori di temperatura corporea, anche se di questi almeno 40 (insieme a 4 telecamere) giacciono nei depositi. Eppure, «durante l’estate» del 2021 «accadeva spesso che alle persone fosse negato l’accesso a causa dell’elevata temperatura esterna anche se non aveva nulla a che fare con la febbre alta». Questa è sola una parte dell’approvazione finale del Parlamento europeo rispetto al modo in cui è stato attuato il bilancio dell’Ue per il 2021.
Si tratta di una sorta di bilancio consuntivo sull’operato rispetto alle priorità politiche del Parlamento europeo. In pratica ogni anno, la commissione Controllo dei bilanci verifica come la Commissione europea e le altre istituzioni e agenzie europee abbiano attuato il bilancio dell’Ue e prepara la decisione del Parlamento che concede il discarico per ogni esercizio finanziario ed una relazione allegata, spesso di stampo politico. Il documento insiste sul fatto che parte del bilancio sia stato alleggerito durante la pandemia, ma allo stesso tempo evidenzia diversi sprechi.
Il documento è una miniera d’oro per capire come si spendono i soldi dei contribuenti. E proprio sulla gestione dell’emergenza pandemica, il relatore sentenzia che non è stato possibile valutare «l’efficacia dei controlli della temperatura corporea o l’acquisto dell’attrezzatura» e poi «ricorda il principio secondo cui qualsiasi utilizzo di denaro pubblico dovrebbe sempre consentire un controllo sulla regolarità della spesa e sull’efficacia del suo utilizzo». Insomma, a Strasburgo hanno speso male i soldi per fronteggiare il Covid e lo ammettono senza problemi.
Nella relazione si fa riferimento anche alle spese per gli interpreti. Ai sensi del regolamento, infatti, gli eurodeputati hanno il diritto di parlare nella loro lingua. Questo comporta un notevole impiego di risorse, spesso sovra utilizzate e senza neppure un adeguato equipaggiamento. Secondo una ricerca interna, infatti, diversi interpreti avrebbero lamentato la scarsa qualità di microfoni e cuffie. Così, da giugno a ottobre 2022, gli interpreti hanno indetto uno sciopero per «migliorare le condizioni di lavoro». Mesi in cui il Parlamento Ue ha fatto ricorso «a servizi di interpretazione esterni, per un costo totale di 47.324 euro». E questa «decisione ha messo a repentaglio gli standard di qualità delle traduzioni [...] e [...] ha ostacolato il diritto di sciopero dei lavoratori», riconosciuto invece dal Trattato di Lisbona. La relazione si sofferma poi sui casi di corruzione. Non fa nomi e cognomi, ma si limita a raccomandare «una «formazione anticorruzione e trasparenza» per deputati e collaboratori con l’obiettivo «di garantire che i membri agiscano senza alcuna indebita influenza […] mediante una rigorosa regolamentazione delle attività retribuite durante il mandato, regali o inviti di viaggio». Sottolinea inoltre la necessità di avere «norme più rigorose e maggiore trasparenza dei redditi collaterali dei deputati al fine di evitare conflitti di interesse». E si sofferma quindi anche sui casi della Ong Fight Impunity e No Peace Without Justice di Antonio Panzeri, rammaricandosi «che il Servizio di ricerca del Parlamento europeo abbia organizzato una conferenza di due giorni nel giugno 2022 insieme a queste due organizzazione non governative, nonostante non fossero iscritte al Registro per la trasparenza». E passiamo al capitolo molestie.
Negli ultimi 11 anni sono state registrate almeno 25 violazioni del codice di condotta da parte degli eurodeputati, e «i presidenti del Parlamento non hanno mai imposto loro (loro, ndr) alcuna sanzione finanziaria». Nel 2021 sono stati aperti ben sei procedimenti per molestie (quattro erano pendenti dal 2020). Il 25 maggio scorso ne è stato aperto un altro, questa volta per le accuse di molestie nei confronti della deputata europea belga Assita Kanko. Ma la relazione lancia anche altri allarmi, come i rischi che corre il fondo pensione che ha un deficit di 300 milioni e rischia di andare esaurito entro il 2025. Oppure ancora si sofferma sul curioso caso di un viaggio a Cuba che, per legge, deve essere organizzato dall’agenzia interna al Parlamento Europeo. Peccato che per una strana questione legata alle sanzioni degli Stati Uniti contro il Paese latino, si sia dovuto ricorrere a un’agenzia esterna. E sul costo finale non c’è certezza: misteri da europarlamento.
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Hakan Camuz e Necmeddin Bilal
- Nelle carte di un’indagine bolognese le prove dei rapporti diretti tra il figlio del sultano e il turco Hakan Camuz, l’uomo che faceva pagamenti alla società di Antonio Panzeri e di Francesco Giorgi. Necmeddin Bilal ha vissuto in Italia tra il 2015 e il 2016. L’intreccio di relazioni con politici, giornalisti e industriali.
- Dall’indagine emiliana i dettagli finanziari e bancari di Bilal: nessuna spesa pazza e qualche debito Ma dai tabulati emergono i rapporti coi big della politica, del giornalismo e dell’industria in madrepatria.
Lo speciale contiene due articoli
Abbiamo trovato la conferma del rapporto diretto tra la famiglia Erdogan e il consulente legale turco Hakan Camuz coinvolto nel Qatargate. Il collegamento emerge in modo incontrovertibile nelle carte di un’indagine della Procura di Bologna, visionato dalla Verità, in cui è rimasto invischiato, tra il 2015 e il 2016, Necmeddin Bilal, figlio del presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Dopo la scoperta abbiamo provato a contattare Camuz, il quale, però, nonostante legga i nostri messaggi su Whatsapp, si ostina a non risponderci. Si è barricato dietro a un silenzio imbarazzato da inizio marzo quando il nostro giornale ha pubblicato le prime notizie che lo riguardavano. In particolare, avevamo raccontato del suo ruolo nell’inchiesta per riciclaggio della Procura di Milano: due società inglesi (Stoke white e The radiant trust) a lui riconducibili, tra il 2019 e il 2020, hanno versato 115.000 mila euro alla Equality consultancy, strettamente collegata al Gatto e alla Volpe dello scandalo belga, l’ex europarlamentare Pier Antonio Panzeri e al suo vecchio assistente Francesco Giorgi. La Equality, citata per la prima volta dalla Verità sul numero del 19 dicembre 2022, aveva anche incassato 200.000 euro da un’altra società, guarda caso turca, tra il 2018 e il 2019. Poi i flussi aveva cambiato direttrice e a Milano i soldi erano stati spediti da Londra.
A citare per la prima volta Hakan, classe 1971, era stato Giorgi, il quale ai magistrati belgi aveva raccontato che un uomo che lavorava con il ministero del Lavoro del Qatar, luogo da cui uscivano le mazzette, lo avrebbe messo in contatto in Turchia con una persona «di origine palestinese», il quale avrebbe consigliato all’ex assistente parlamentare di «rivolgersi ad Hakan e alla sua compagnia in Inghilterra».
Camuz tra il 22 e il 23 giugno 2022, sei mesi prima dello scoppio del Qatargate, era stato avvistato all’aeroporto di Linate durante una trasferta lampo. La pista turca è considerata molto interessante dagli investigatori italiani, visto che potrebbe aprire nuovi scenari nel Qatargate e inserire nel novero dei Paesi che andavano alla ricerca di un lifting reputazionale anche il «sultanato» di Ankara. Un’ipotesi non troppo peregrina se si considera, come vi abbiamo già raccontato, il rapporto diretto tra Camuz e la famiglia Erdogan.
Per esempio, nel 2014 un giornalista del network economico Cnbc, David L. Phillips, aveva scritto un articolo intitolato «Perché la Turchia sostiene i combattenti dello Stato islamico in Iraq», in cui accusava Bilal di aver fornito fondi a un’organizzazione umanitaria accusata di assistere l’Isis.
Immediatamente Camuz, in veste di rappresentante legale (non è chiaro se sia un avvocato), aveva dichiarato al Daily sabah che l’articolo aveva un movente politico e che tutto ciò che era stato scritto sul suo cliente era totalmente falso. E aveva annunciato querela.
A fine ottobre del 2015 gli inquirenti felsinei, guidati dal procuratore Giuseppe Amato, ricevono un esposto dalla Francia sui presunti traffici illeciti della famiglia Erdogan e sul trasferimento di fondi in Italia.
A denunciare il rampollo è Murat Hakan Uzan, un politico d’opposizione e imprenditore turco rifugiatosi a Parigi e di cui le autorità turche avevano chiesto l’arresto.
Il suo esposto è stato presentato ufficialmente presso la Questura di Bologna il 23 ottobre 2015.
Bilal era sbarcato a Bologna poche settimane prima, a fine settembre, ufficialmente per completare un dottorato di ricerca in relazioni internazionali presso la Johns Hopkins university (dove aveva già studiato a partire dal 2009, per poi prendersi una pausa nel 2012), ma secondo fonti antigovernative di Ankara alla base di quella trasferta italiana con moglie e figli al seguito c’era la volontà di sfuggire a un’indagine di corruzione iniziata nel 2013.
In più, nel giugno del 2015, il partito di suo padre aveva perso la maggioranza assoluta in Parlamento e ad agosto il genitore aveva sciolto la Grande assemblea nazionale indicendo nuove elezioni. In sostanza, si trattava di un periodo particolarmente turbolento per il clan Erdogan.
Per questo, secondo Uzan, Bilal si sarebbe portato dietro «una grossa somma di denaro» che sarebbe servita a un presunto «progetto di fuga»
Nei primi mesi del 2016 i carabinieri del Ros hanno acquisito i tabulati dell’utenza italiana di Bilal.
Su quei dati gli investigatori hanno effettuato un lavoro certosino, analizzando nel dettaglio il traffico telefonico del «345». Ebbene una pesca a strascico in cui è rimasto impigliato anche Camuz: tra novembre 2015 e febbraio 2016 (è questo il periodo esaminato) tra i due ci sono stati tre contatti diretti.
Il 27 novembre 2015 Bilal e Hakan si sentono alle 11:33 del mattino, mentre il 18 febbraio alle 16:49; due volte chiama il consulente londinese, una volta il figlio del presidente.
È utile evidenziare che il Nucleo di polizia economico-tributaria nella sua prima informativa alla Procura, consegnata il 15 dicembre del 2015, lasciava intendere che i primi accertamenti erano stati fatti in modo riservato e utilizzando per lo più fonti aperte. Dunque, se il 27 novembre Bilal e Hakan avessero parlato dell’inchiesta probabilmente lo avrebbero fatto in violazione del segreto istruttorio.
Infatti, le prime informazioni di dominio pubblico sul caso risalgono al 3 dicembre 2015, quando giornali e agenzie pubblicano la notizia dell’esposto, una rivelazione che aveva stupito per la tempestività l’avvocato di Uzan, il fiorentino Massimiliano Annetta.
La notizia dell’iscrizione sul registro degli indagati di Erdogan junior per riciclaggio è stata, invece, data dall’Ansa il 16 febbraio, ovvero due giorni prima dell’ultimo contatto tra i due, per come emerso dai tabulati.
Ma, come detto, non sappiamo se nelle chiamate precedenti al 18 febbraio Erdogan e Camuz abbiano disquisito dell’esposto.
Ricordiamo che nella causa il consulente londinese non compare in nessuna veste, dal momento che Erdogan junior è stato difeso dall’avvocato bolognese Giovanni Trombini. Il quale ci spiega: «Ricordo che in un’occasione c’è stata una riunione con il cliente, alcune guardie del corpo e un avvocato inglese». Gli mostriamo la foto di Camuz che il legale, però, non riconosce.
Di certo, su 85 milioni di turchi (senza contare quelli che vivono all’estero) non sono in molti a poter contattare sul numero di telefono personale il figlio del presidente. Senza contare che i tabulati di Bilal ci restituiscono un uomo che comunica quasi solamente con utenze turche e che non sembra avere (almeno sino a sei anni fa) una rete relazionale particolarmente estesa o di respiro internazionale.
In conclusione, quello degli Erdogan appare come un mondo piuttosto chiuso, una cerchia ristretta a cui Camuz sembra, però, avere libero accesso.
Soldi in contanti e cellulare bollente. La vita invisibile del rampollo turco
Bilal Erdogan, figlio minore e prediletto del presidente turco Recep Tayyip, era arrivato a Bologna a fine agosto 2015 per completare un dottorato in studi europei all’università americana Johns Hopkins, iniziato nel 2009 e poi sospeso.
Una «fuga», scrisse allora la stampa turca alla luce dell’incerta situazione politica del padre (si era a pochi mesi da nuove elezioni) e nel timore di una possibile riapertura dell’inchiesta sulla Tangentopoli del Bosforo che lo ha visto coinvolto. «Solo i codardi scappano», fu la replica all’agenzia di stampa statale Anadolu. Di certo, la permanenza a Bologna di Bilal, trasferito sotto le Torri insieme alla moglie e ai due figli, è stata interrotta a marzo 2016 in tutta fretta: «Questioni di sicurezza». Ma quei mesi furono segnati anche dall’inchiesta della Procura di Bologna aperta a seguito di un esposto dell’imprenditore Murat Hakan Uzan, oppositore di Erdogan. L’accusa di riciclaggio fu poi archiviata. Gli estratti conto agli atti dell’indagine archiviata dalla Procura di Bologna raccontano come, apparentemente, durante la sua permanenza nel capoluogo felsineo, la famiglia Erdogan svolgesse una vita normalissima.
Sul conto corrente aperto nel novembre 2009 presso una filiale Unicredit alla data del 3 marzo 2016 erano infatti registrate «entrate per 86.304 euro e uscite per 83.438 euro». Circa 14.000 euro all’anno, quindi. Ma, come annotano gli investigatori, sul conto sono stati effettuati «versamenti di denaro contante, effettuati tra l’altro attraverso gli sportelli automatici Atm, per complessivi 47.673 euro», per importi che variavano «da un minimo di 500 euro ad un massimo di 3.000», e che venivano «quasi sempre disposti a ridosso del pagamento dell’affitto delle abitazioni ove, nel tempo, ha dimorato a Bologna». Nulla di irregolare, visto che «l’obbligo di dichiarazione» per il denaro contante portato in Italia sussisteva solo per importi a partire da 10.000 euro. Ma appare evidente che Erdogan junior potesse contare su una fonte di sostentamento non tracciata che affiancava le entrate provenienti dai bonifici provenienti dal padre, quelli legati alla borsa di studio concessa dalla John Hopkins e da Bilal Erdogan stesso. Ma come detto, le spese documentate sono simili a quelle di una comune famiglia: l’affitto di casa, cene in pizzeria, un poh’ di shopping. I bonifici per l’affitto della casa erano da 1.300 euro. Un normale appartamento, arredati in modo semplice, come raccontano i 479 euro spesi il 3 ottobre del 2015 in un punto vendita della catena Mondo Convenienza. Molte delle uscite sono riferite alla spesa, effettuata principalmente da Esselunga e Ipercoop. Un bonifico di 394 euro a Enel lascia supporre che, come capita spesso agli italiani, il rampollo Erdogan avesse saltato il pagamento di alcune bollette dell’energia elettrica. Le spese per figli sono minime: il 6 giugno del 2010 vengono spesi 79,90 euro nel un punto vendita Diesel kid di un outlet, mentre il 3 dicembre del 2015 vengono comprati giocattoli per 88 euro in un negozio del centro. Anche la via sociale è di basso tenore.
Spiccano 50 euro per mangiare sushi da Zuma, 32 euro al ristorante La scalinatella, 116 euro da Wasabi. Stando all’estratto conto, in poco più di sei anni si trova evidenza di una sola gita fuori porta: 116 euro spesi il 5 dicembre all’hotel ristorante La badia di Orvieto. Dai faldoni dell’inchiesta della Procura di Bologna del 2015 non emergono solo le spese del lungo soggiorno italiano dell’allora 35enne figlio del sultano, ma anche la sua agenda. Ovvero le utenze con cui risultava avere avuto contatti secondo l’analisi del traffico telefonico. Numeri italiani di ristoranti, scuole e agenzie immobiliari del capoluogo emiliano. Ma anche numeri turchi che, dalle ricerche fatte da La Verità, sono riconducibili anche a personaggi di spicco del governo del padre, giornalisti, sportivi, vip locali e anche molti manager. Una fitta rete turca di relazioni, che Bilal conosce, frequenta e coltiva. Tra i suoi contatti c’è ad esempio, Abdulkerim Cay che ha iniziato la sua carriera professionale nel 2004 presso l’agenzia di consulenza per la stampa e le pubbliche relazioni del primo ministro della repubblica presidenziale, e ha poi preso parte alla costituzione dell’Agenzia per il sostegno e la promozione degli investimenti (Tydta), dove ha intrapreso varie mansioni dirigenziali. Dall’aprile 2015 aveva poi assunto la posizione di vicedirettore generale delle risorse umane di Turkish Airlines.
Molti i contatti nel mondo dei media e delle tv. Soprattutto top manager e tycoon come Ibrahim Eren, presidente della Turkish radio and relevision corporation, o come Hasan Yesildag, che con il sultano aveva condiviso il carcere nel 1998 e che nel 2017 ha comprato l’Es media group che all’epoca controllava le stazioni televisive Kanal 24 e 360 e i quotidiani Star, Akşam e Güneş. E poi ancora Haydar Ali Yildiz, uno dei principali consiglieri del presidente turco.
Tra i numeri nell’agenda di Bilal del 2015 spuntano inoltre Turgut Simitcioglu (allora vicedirettore generale della banca Albaraka Turk), ma anche Mehmet Çolakoglu, membro del consiglio di amministrazione di Teb Holding (a capo dell’omonima banca turca comprata nel 2011 dalla francese Bnp Paribas) e l’uomo d’affari Riza Akca, amico del padre e diplomatici come Lütfullah Göktaş, consigliere capo per i media del presidente Erdogan dal 2014 al 2019 e poi diventato ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede fino al febbraio scorso.
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