L’Italia è bella perché è varia, vuole la vulgata popolare. È proprio vero. A volte basta una mail a uso interno per portare alle dimissioni, in altre occasioni fare proclami pubblici contro il governo avendo per incarico quello di consigliare il presidente della Repubblica sue questioni di difesa e internazionali offre la qualifica di vittima con tanto di solidarietà del datore di lavoro che corre a tranquillizzare. Così il segretario dell’Autorità garante per la privacy, Angelo Fanizza, va a casa e invece Francesco Saverio Garofani resta nel suo bell’ufficio al Quirinale. Su la Settimana enigmistica c’è da decenni un giochino: trova la differenza. Stavolta non è difficile: tutto dipende dai bersagli. Se si tocca un dato sensibile della sinistra apriti cielo, se si spara ad alzo zero sulla rappresentanza della maggioranza degli italiani, poiché di destra, applausi. Che sia questa l’egemonia culturale che corre da Antonio Gramsci a Dario Franceschini? La storiella che ieri ha fatto il giro dei palazzotti del potere è una sorta di nemesi. Uno dei tutori della privacy è stato fatto fuori per un messaggio privato che però a giudizio dei Pd e di Giuseppe Conte che hanno nominato il comitato del Garante lede la privacy. Capita che dopo giorni e giorni di polemica perché si è osato multare nientepopodimenoché Sigfrido Ranuccci, o meglio la Rai che paga con i soldi dei contribuenti italiani di destra e di sinistra astenuti compresi, Report, la trasmissione senza macchia e con tante coperture gauchiste, ha fatto un’inchiesta proprio sui suoi «censori». Insomma Sigfrido ha vestito ancor di più i panni del vendicatore catodico! Il Pd e i 5 stelle avevano già chiesto a gran voce che il tutto il comitato del Garante si dimettesse per lesa maestà, ma loro hanno risposto picche anche perché il presidente Pasquale Stanzione lo ha nominato il Pd e uno dei componenti su quattro, Guido Scorza, lo ha imposto il M5s. Dunque sarebbero caduti per fuoco amico, ma loro servono meno alla causa di quanto non conti Report che ne ha fatte di ogni nell’inchiesta sul Garante a cui non avrebbe garantito la privacy. Così due giorni dopo la messa in onda del servizio sul Garante il segretario generale dell’Autorità, magistrato amministrativo di provata professionalità, Angelo Fanizza, arrivato dal Tar del Lazio, ha mandato una e-mail a Cosimo Comella, il dirigente del servizio per la sicurezza informatica interna al Garante, in cui avrebbe chiesto di controllare i computer dei circa 200 dipendenti della «Privacy» per verificare se avessero passato informazioni riservate a Report. Comella, peraltro, non ha accusato ricevuta. Apriti cielo e spalancati terra e ieri pomeriggio Angelo Fanizza ha rassegnato le dimissioni. Pasquale Stanzione, che non si dimette come neppure gli altri del Comitato che anzi confermano la «multa» alla Rai, ne ha preso atto e ha ringraziato. Ci sarebbe da discutere se essendo Fanizza giudice amministrativo non sia stata violata l’indipendenza della magistratura, ma è certo che su questo caso Elly Schlein non eccepirà. Avrebbe dovuto eccepire invece sulla cena dal sen fuggita di Francesco Saverio Garofani che è anche lui segretario, ma di una cosa un po’ più importante di questi tempi: il Consiglio della Difesa a fianco del presidente della Repubblica. Se l’è presa con Gorgia Meloni svelando che si farà di tutto per mandarla a casa e sbarrarle la rielezione, ma non è stato tenero neppure con Elly giudicata non all’altezza di guidare l’opposizione. Al contrario di Fanizza, Garofani ha però ricevuto - lo ha rivelato lui - un incoraggiamento da Sergio Mattarella che gli avrebbe detto di stare tranquillo. Difatti è al suo posto nonostante la maggioranza di governo ne abbia chiesto, date le circostanze con giusta ragione, le dimissioni. Alla sinistra però i garofani piacciono perché non appassiscono.
Ieri scattava l’ora X, quella che impedisce l’accesso ai siti porno se non si è in grado di dimostrare di essere maggiorenni, ma la maggior parte delle piattaforme non ha recepito la nuova direttiva. Il 12 novembre è entrata in vigore la norma prevista dal decreto Caivano del 2023 che impone la verifica dell’età reale di chi intende visitare i portali per adulti.
Prima bastava cliccare «sì» alla domanda «Hai più di 18 anni?» della schermata iniziale, adesso si è capito che la semplice conferma non tutela il minore dall’accesso a valanghe di materiale pornografico. Il controllo, con il modello del «doppio anonimato», attraverso sistemi «certificati e indipendenti», non è però partito. Secondo Agcom, sono entrate in vigore le regole di verifica dell’età.
Invece abbiamo verificato, spaziando da PornHub, Youporn, Pornhat, PornId, PornRabbit, a Gayporno, Lesbian8 e una decina di altri siti con video che nessun minore dovrebbe vedere, le modalità d’accesso risultavano le stesse. Un semplice clic di conferma di essere «over 18», spesso neppure quello su migliorisitiporno.it che offre selezioni di piattaforme per ogni gusto e devianza. Tutto come prima, nessuna preoccupazione per diffide e multe fino a 250.000 euro. Inezie, per società che caricano milioni di video e gestiscono alcune delle piattaforme più redditizie del Web.
L’intenzione del controllo è ottima, il comma 1 del decreto introduce per i minori «un divieto di accesso a contenuti a carattere pornografico, in considerazione delle capacità lesive della loro dignità e del benessere fisico e mentale, costituendo un problema di salute pubblica», però di siti porno ne esistono tantissimi e quasi tutti registrati all’estero. Difficile credere che potranno essere multati od oscurati se non metteranno in pratica le misure di prevenzione richieste.
In ogni caso, siamo ancora una volta alla digitalizzazione dei nostri dati. Non serve lo Spid, per navigare nel porno, però è necessario esibire una sorta di carta d’identità digitale. «Chi verifica la tua età non sa a quale sito accederai e la piattaforma non conosce la tua identità», assicura Massimiliano Capitanio, commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom).
Un ente terzo certificato dalla privacy controllerebbe l’età dell’utente tramite un token, un Qr code o un sistema collegato alla sim del telefono. «È come un gettone che sblocca l’accesso al sito», chiarisce Capitanio su Skuola.net. Sempre di autentificazione della tua identità digitale si tratta. Non per pagare la tassa sui rifiuti oppure ottenere un appuntamento in qualsiasi ufficio amministrativo, ma per guardarti materiale pornografico.
La tutela dei minori è un obbligo sacrosanto, deve essere impedito loro di entrare in quella palude tossica, pericolosa e violenta che è la pornografia riversata su Internet. Negli adolescenti e nei bambini si rischia una compromissione di un sano sviluppo psicologico e sessuale. Però servono autentici sbarramenti, ragionati ed efficaci, non sistemi di controllo del tempo libero di un cittadino maggiorenne. Non stiamo parlando di siti pedopornografici e di tutte le applicazioni a cascata, da chiudere e perseguire chi vi naviga. La pornografia esiste nell’arte, nel cinema, nella letteratura; il facile accesso al «virtuale», al materiale offerto sul Web (brutto, scadente, volgare, perverso non sono categorie generalizzabili) può portare a un consumo incontrollato, a un comportamento compulsivo e a una vera e propria dipendenza.
App e programmi che bloccano i siti pornografici possono aiutare il singolo individuo, che decide di affidarsi allo psicologo o il sessuologo, ma non è che lo Stato possa stigmatizzare chi consuma pornografia applicando controlli e censure con la digitalizzazione.
Già si è visto con Chat control che razza di sorveglianza di massa si vuole esercitare a livello di Unione europea, attraverso la scansione dei messaggi da parte delle piattaforme. «Con la scusa di fermare i criminali e interrompere i loro traffici si pensa di consentire alle istituzioni pubbliche di scandagliare i contenuti dei messaggi che gli utenti scambiano», ricordava Francesco Borgonovo, segnalando la trappola che si nasconde dietro gli strumenti suggeriti per fermare la diffusione di materiale pedopornografico.
Senza dimenticare che aprendo una backdoor, una porta sul retro, nella crittografia end-to-end vi si infilerebbero forze dell’ordine ma anche criminali informatici. Inevitabile chiedersi la fine che faranno dati comunque personali, in un sistema di tracciabilità che diventa sempre più capillare e persecutorio.
Se la preoccupazione sono i minori e il porno, bastava per esempio soffermarsi sulla facilità con la quale verrà aggirato l’ostacolo del controllo. Il divieto per gli under 18 vale per chi accede dall’Italia e si può eludere con una Vpn, una rete privata virtuale che crea un tunnel crittografato per la trasmissione dei dati. Cambiandoti l’indirizzo Ip e assegnandone uno nuovo che appartiene al server Vpn al quale ti connetti, nessuno può sapere da quale città o Paese stai navigando.
Secondo un rapporto di Save the Children, circa un adolescente su quattro (24%) crede che la pornografia offra una rappresentazione realistica dell’atto sessuale e una recente indagine rivela che quasi la metà dei giovani italiani tra i 10 e i 25 anni accede regolarmente a contenuti pornografici online. Bisogna proteggere i minori dalla pornografia virtuale, non sorvegliare se gli adulti guardano video hard.
Il no della Rai alla richiesta del Garante della privacy di fermare il servizio di Report sull’istruttoria portata avanti dall’Autorità nei confronti di Meta, relativa agli smart glass, nel quale la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio del Garante Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni di euro, ha scatenato una tempesta politica con le opposizioni che chiedono l’azzeramento dell’intero collegio.
A partire dai leader dei principali partiti del centrosinistra, con il segretario del Pd Elly Schlein che ha dichiarato: «Sta emergendo un quadro grave e desolante sulle modalità di gestione dell’Autorità garante per la privacy che rende necessario un segnale forte di discontinuità. Io penso che non ci sia alternativa alle dimissioni dell’intero consiglio»; a ruota il leader del M5s Giuseppe Conte: «Chiedo, a nome di tutto il Momento 5 stelle, l’azzeramento del Garante della privacy che ha perso la necessaria forza, credibilità e autorevolezza». Mentre il senatore del Pd Francesco Boccia ha annunciato la presentazione «in questi minuti un’interrogazione urgente, perché quello che è emerso nelle scorse ore - anche grazie a Report - è di una gravità inaudita».
A rispondere, il premier Giorgia Meloni, che ha definito «ridicola» l’idea che l’Autorità sia condizionata dal governo. «ll Garante è stato eletto durante il governo giallorosso, con un presidente in quota Pd. Se Pd e M5s non si fidano di chi hanno nominato, non possono prendersela con me», ha detto il presidente del Consiglio ai giornalisti prima di partire per Bari. «L’Autorità è eletta dal Parlamento e un eventuale azzeramento», ha aggiunto la Meloni, «spetta al collegio stesso, non al governo». Per Giovanni Donzelli, responsabile organizzazione di Fdi, «non sarà certo Fratelli d’Italia a difendere l’Autorità targata Pd-M5s». Il parlamentare ha poi precisato che il suo partito è favorevole «con grande slancio e giubilo, allo scioglimento di qualsiasi ente o autorità nominata dalla sinistra».
A commentare le parole del premier anche lo stesso Ranucci, che durante la trasmissione Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha ribadito di non aver «diffuso i messaggi privati tra Ghiglia e Meloni», ma di aver «preso visione di quanto Ghiglia ha inoltrato ai suoi uffici, a terze e quarte persone»: «Ci sono (nel collegio del Garante, ndr) anche uno della Lega e uno di Fratelli d’Italia, anzi l’unico organico a Fdi è proprio Ghiglia mi pare. La frase del premier», ha precisato il conduttore, «è corretta dal punto di vista istituzionale».
Ma soprattutto, la dichiarazione della Meloni non appare una difesa d’ufficio dell’attuale assetto del Garante. Anzi, durante l’incontro con i giornalisti all’aeroporto di Fiumicino, il premier ha aperto all’ipotesi di una modifica alla procedura di nomina dei componenti del collegio: «Si può discutere della legge, se volete rifacciamo la legge ma non l’ho fatta io: forse ve la dovreste prendere con qualcun altro». Va detto che un eventuale azzeramento dei componenti dell’Autorità garante della privacy sarebbe solo apparentemente una vittoria dell’opposizione. L’attuale collegio è stato scelto a luglio del 2020, e resterà in carica per 7 anni, quindi fino all’estate del 2027. Poco prima delle elezioni politiche in caso di scadenza naturale della legislatura, poco dopo se si dovesse verificare uno scioglimento anticipato di Camera e Senato per andare al voto in primavera. Un reset totale del collegio garantirebbe invece al centrodestra la certezza di andare al voto con un presidente «di area», che resterebbe in carica fino al 2032. Ma al momento l’ipotesi appare poco praticabile.
Ieri Ghiglia ha stroncato l’ipotesi di dimissioni: «Disponibile a un passo indietro? Non c’è nessun motivo per farlo, perché la politica che lo chiede deve mettersi d’accordo con sé stessa: o questo è un Garante indipendente, e quindi non dipende dalla politica, o questo è un garante dipendente, e quindi dipende dalla politica. Non si può andare a giorni alterni: la politica o c’è o non c’è. Visto che siamo indipendenti non teniamo conto delle suggestioni della politica». Per Ghiglia, «il giornalismo d’inchiesta è una delle forme più alte e delicate dell’informazione. La giurisprudenza di Cassazione, negli ultimi anni, ha riconosciuto un’ampia tutela a questa attività, purché il giornalista agisca nel rispetto dei doveri deontologici di lealtà e buona fede e abbia massima accuratezza possibile nella verifica delle fonti», chiedendosi poi se «l’approccio di Report rispetta questi principi di rigore e imparzialità che la stessa Cassazione indica come limite invalicabile? Qualche dubbio c’è se, rispetto ai tanti chiarimenti forniti e documentati dall’Autorità, la narrazione della trasmissione rimane sempre la stessa».
Anche Guido Scorza, altro componente del collegio, dopo aver inizialmente aperto all’ipotesi di un passo indietro, nel corso di un’intervista a Rainews24, rispondendo sulla possibilità dell’organismo di arrivare a fine mandato, ha precisato: «Posso parlare per me stesso, e sono certo di sì». A quanto pare, per ottenere l’azzeramento il centrosinistra dovrà smettere di rivolgersi alla Meloni e bussare alla porta dei membri del collegio del Garante scelti da Pd e M5s.
Ciro Grillo è stato condannato per stupro. Di Ciro Grillo conosco la faccia, il nome, il cognome. I giornali, poi, mi riferiscono che una diciottenne è stata stuprata su un treno pendolari, e che una diciassettenne è stata stuprata in stazione prima di salire sul treno per andare a scuola, senza darmi dati sui carnefici. Degli aggressori mi dicono solamente l’età. Cercando accuratamente su Internet si scopre poi che «il trentacinquenne» violentatore è un nordafricano oppure un nigeriano.
Di questi individui non conosciamo il nome, la fotografia. Per quale motivo si fanno due pesi e due misure? Un’ultima cosa: gli stupri sono tutti inaccettabili ma non sono tutti uguali. Maggiore è l’intimità tra vittima e carnefice, meno grave è la sindrome post traumatica da stress che lo stupro scatena. Se vengo stuprata da qualcuno con cui avevo un’intimità tale da trovare accettabile, se non piacevole, una bevuta insieme o un braccio sulle spalle, il trauma pur devastante è meno grave rispetto all’aggressione da parte di un assoluto sconosciuto, perché non c’è paura per la mia sopravvivenza. Minore è l’intimità tra vittima e carnefice, più devastante è lo stupro.
Il trauma per uno stupro compiuto da una persona che conosco, in un ambiente percepito inizialmente come sicuro, per esempio casa sua, si limita all’orrore dello stupro: non è coinvolta la mia sopravvivenza. La paura più potente e arcaica, essere uccisa o mutilata, non è in gioco. Se so con certezza che non mi ucciderà né mi mutilerà, avrò un trauma terribile, ma meno intenso di quello derivante da una violenza commessa da un tizio ignoto, che potrebbe uccidermi, o mutilarmi. Non so chi sia, non potrò denunciarlo, nel caso mi contagi con Hiv o Epatite B non potrò avere nessun tipo di risarcimento. Se sono stata stuprata dopo essere stata, per esempio, in un locale e aver bevuto, avrò paura dei locali e del bere: eviterò queste situazioni, ma si può comunque sopravvivere. Se sono stata stuprata per strada, avrò paura anche del semplice uscire di casa, ma non posso vivere senza uscire.
Lo stupro compiuto dall’immigrato è gravato dall’assoluta lontananza dalla vittima, che non comprende la lingua dell’aggressore ed è ulteriormente terrorizzata, ed è aggravato da gesti di sadismo, dato che spesso, ancora più dello stimolo sessuale, alla base ci sono motivazioni di odio e invidia sociale: sentimenti istigati dai cosiddetti intellettuali di sinistra, dai cosiddetti mediatori culturali e da tutti gli individui che guadagnano uno stipendio in quanto fanno parte delle varie Ong. Aggiungiamo qualche sacerdote, magari uno di quelli che profana la Messa celebrandola con addosso la bandiera degli assassini stupratori di Gaza. Il saggio Francia arancia meccanica di Laurent Obertone (non tradotto in italiano) spiega che gli stupri commessi da islamici, immigrati o cittadini di seconda, terza o quarta generazione, hanno una ferocia paragonabile allo stupro etnico delle peggiori guerre, spesso lasciano reliquati gravi e irreversibili che non arrivano mai ai giornali. I bianchi sono responsabili della miseria dell’Africa e di tutti i suoi dolori, quindi per un africano (ma anche per un pachistano o un bengalese) stuprare con violenza le donne è solo un vago pareggiare di conti.
L’incredibile mitezza delle pene a cui queste persone vengono sottoposte in tutta Europa avvalora questa teoria. Un giudice dello Stato italiano, anzi una giudice, Viviana Del Tedesco, ha elogiato il fisico magnifico di un individuo che ha picchiato a morte una donna, Iris Setti. La Setti aveva osato rifiutare il suo stupro. La Setti è stata uccisa con un impressionante numero di pugni in faccia, che le hanno fracassato le ossa, e poi hanno colpito ossa già spezzate. Le donne stuprate da nordafricani, senegalesi e nigeriani non sono ascoltate. Nessuno ascolta l’orrore della loro esperienza. Nessun grande avvocato si presenterà ai processi dalla parte dell’imputata. La parte più antica e arcaica del nostro cervello è il lobo olfattivo. Gli odori evocano ricordi ed emozioni. Quando sono sgradevoli sono intollerabili. Possiamo abituarci a guardare il brutto, questo spiega il successo dell’arte post-moderna e dell’estetica woke. Un odore che troviamo ripugnante moltiplica il terrore, smuove tutto il cervello arcaico, e rende il disturbo post traumatico da stress difficilmente reversibile. Lo spiegano con chiarezza i torturati: ricordano l’odore del torturatore, il suo odore naturale, quello della sua colonia, oppure del sigaro e per tutta la loro vita quell’odore scatenerà il panico.
Gli odori sono per noi importantissimi. Se qualcuno si prendesse il disturbo di ascoltare le donne stuprate scoprirebbe che lo stupro lascia un disturbo post traumatico da stress più grave se l’aggressore aveva un odore forte dovuto alla mancanza di igiene sistematica. Questo è stato riferito con estrema chiarezza anche dalle donne che hanno subito stupri etnici, per esempio in Bosnia.
Se lo stupratore è uno che non si lava, l’odore aumenta, e soprattutto si crea, mediato dal lobo olfattivo, un tipo ulteriore di repulsione. Gli stupratori di origine africana sono più predisposti a uccidere di botte la vittima, cosa già successa. Uno stupro di questo genere spezza una vita, spezza la fede che si ha nella vita, negli uomini, crea terrore per anni ad avventurarsi sui treni o nelle stazioni. Eppure, grazie anche a una stampa compiacente, di questi distruttori non conosciamo nemmeno la faccia o il nome.
Da quando nel 2012 Xi Jinping ha riunito sulla propria scrivania le leve del potere in Cina, il Paese ha avviato una fondamentale rivoluzione digitale. Basata sulla capillarità, sulla gestione dei dati e sulla sorveglianza dei cittadini. Ora, mentre il mondo ha il fiato sospeso per comprendere quanto accade in Medio Oriente, attende di capire che succederà in Ucraina e teme che scoppino altre guerre (non solo di natura commerciale), Pechino si avvia alla stretta definitiva del Web. A partire dal prossimo 15 luglio per utilizzare app, servizi digitali e navigare sulle piattaforma si renderà necessario un ID, un identificativo, emesso dallo Stato. Le «misure per la gestione del servizio pubblico di autenticazione» sono state già approvate lo scorso 27 febbraio dal ministero della Pubblica sicurezza e validate da quello del Cyber spazio.
Non si tratta però di un semplice codice, ma di una vera e propria infrastruttura digitale capace di raccogliere in un solo punto tutte le informazioni degli utenti, chiaramente con la possibilità di tracciarli e di bloccarli. Tradotto, di impedire loro l’utilizzo dei servizi che ormai viaggiano tutti sulla rete. Al di là del rischio di violazione da parte di hacker, di cui nemmeno la Cina è esente (nel 2022 è stato bucato il data base della polizia e dentro c’erano informazioni sensibili di quasi un miliardo di persone) in ballo c’è il pericoloso tema del totalitarismo digitale. Formalmente la scelta di Pechino è giustificata con la più classica delle scuse: la centralizzazione serve a mettere al sicuro le persone. Tanto che in nessun punto del documento dello scorso 27 febbraio si evince l’obbligo di utilizzo. Il ministero si limita a spiegare che ai cittadini che ne faranno uso saranno destinati premi e incentivi a livello di punteggio digitale, che vanno a sommarsi alle classifiche già in essere sull’affidabilità dei singoli. D’altro canto, però, Pechino si muove con le aziende chiedendo loro di accettare esclusivamente che a loggarsi siano ID emessi dallo Stato. Ci vorrà, insomma, tempo e una certa progressione ma alla fine potrebbe realizzarsi quello che alcuni ricercatori dell’università di Berkeley hanno già sintetizzato come il lockdown dell’internet. Da un lato perché riporta a schemi di controllo che erano in essere fino al 1984, quando il Web non aveva ancora adottato i protocolli Cern e si basava su un numero di host oltre che limitato, iper tracciato. Ma il termine lockdown rende benissimo l’idea perché ci riporta alla mente il periodo della pandemia e soprattutto l’attuazione del green pass. Il primo esperimento europeo di validazione (anonimizzata ma non anonima) degli utenti. Abilitati ad accedere a determinati luoghi o settori. La stessa cosa avverrà nel mondo del digitale che come ormai tutti sappiamo sta diventando la fetta più ampia della nostra quotidianità. Senza contare che in Cina sono già in stato avanzato le altre forme di controllo facciale e l’intera tracciabilità tramite telecamere. In fondo la strategia non stupisce. Ciò che stupisce è la mancanza di dibattito in Europa. Nel gennaio 2020 la Commissione rese noto un documento programmatico decennale che prevede la trasformazione dei cittadini in Identità digitali e i governi in piattaforma digitali. Nel settembre successivo quando Ursula von der Leyen fece il suo discorso al Parlamento citò espressamente il documento. E anche in quel caso spese parecchie parole ad elogiare l’intento protettivo nei confronti dei cittadini.
Solo gli Stati possono difendere online gli utenti dalle multinazionali private. Quando l’anno successivo un emendamento alla manovra italiana ha creato l’interoperabilità dei silos dati, alla faccia della privacy, nessuno ha alzato un dito. In quell’occasione fu aggiunto un addendum che include circa 400 enti che possono scambiarsi tra di loro informazioni. Cosa prima di allora non possibile. Il ministero della Salute non condivideva dati con l’Agenzia delle entrate (fu fatto per avviare le multe ai no vax over 50). Ma in quell’elenco ci sono anche gestori autostradali, delle reti idriche e di altri servizi pubblici. A oggi questo schema non serve a nulla. Ma non c’è stato un dibattito politico sull’uso che se ne potrà fare fra dieci anni. Il mese scorso su sollecitazione americana, il governo ha avviato una revisione del sistema di telecamere installato alla Camera, nelle procure. Sono occhi prodotti da aziende cinesi. Il timore è che - detto in modo volgare - possano contenere delle backdoor in grado di veicolare informazioni sensibili all’estero. Ciò per rendere l’idea della delicatezza del tema. La Cina è un passo avanti - non in senso positivo - e sperimenta ciò che la tecnologia può mettere a disposizione del potere. In Occidente varrebbe la pena interrogarsi sull’andazzo che si sta prendendo.






