Portate pazienza, cari terremotati. Per riavere le vostre case ci vorranno almeno 15 anni. E non è una stima di noi uccellacci, usi agli allarmismi. Ma la sibillina previsione dell'ingegnere Cesare Spuri, direttore dell'Ufficio speciale per la ricostruzione nelle Marche. Estenuante tempistica da mutuare pure nelle altre Regioni colpite dal sisma del 2016: Umbria, Abruzzo e Lazio. «Nessuno si faccia illusioni», ammette Spuri. «Non si può tornare a qualche parvenza di normalità in meno di dieci anni. Bisogna fare in modo che ci sia maggiore fluidità nelle pratiche, certo. Però, con questi ritmi, potremmo immaginare una ricostruzione lunga 15 anni».
Intanto, ne sono passati già tre dal terremoto che, nell'agosto 2016, spazzò via Amatrice e Arquata: 303 morti, 388 feriti, 41.000 sfollati. Un'ecatombe: persone, luoghi, affetti. Una sequenza sismica proseguita con il terremoto di Norcia a ottobre 2016 e quello della Valnerina, nel gennaio 2017. Cumuli di macerie e devastazione. Infinito cordoglio e florilegi di promesse. «Prendiamo l'impegno che nessuno verrà lasciato da solo: nessuna famiglia, nessun Comune, nessuna frazione» annuncia l'allora premier, Matteo Renzi. Non è andata così. Tre commissari straordinari più tardi, si profila unanime e mesta previsione: le calende greche. Prima arriva Vasco Errani, già presidente pd dell'Emilia Romagna. Nel 2017, l'onere passa a Paola De Micheli, oggi vicesegretario democratico in forte ascesa. Lo scorso ottobre viene infine nominato Piero Farabollini. Appena insediato, annuncia le sue indifferibili priorità: velocizzare, snellire, sburocratizzare.
Negli ultimi mesi, il geologo a tendenza 5 stelle ha incassato sonore contestazioni: sindaci, cittadini, autorità. Non s'è sobbarcato un compito agevole. Tutt'altro. E i suoi predecessori non hanno certo brillato. I dati però restano impietosi. A partire dalle case da ricostruire. Appena 8.168 pratiche presentate: poco più di un decimo delle abitazioni danneggiate. Insomma, la stragrande maggioranza dei proprietari prende tempo. Magari aspettando adeguate coperture. Ma anche i progetti avviati vanno a rilento. Ne hanno approvati appena 2.420: meno di un terzo di quelli al vaglio degli uffici comunali. Che continuano a fare ineludibili conti con la carenza di tecnici e impiegati. «Con questo organico, ci metterò 27 anni a evadere tutte le domande...» vaticina collerico Giuseppe Pezzanesi, sindaco di Tolentino, nelle Marche. Non va meglio per le opere pubbliche: su 239 scuole danneggiate, solo tre sono state consegnante. E grazie a donazioni private. Eppure i soldi pubblici non mancano: per le zone terremotate sono stati stanziati 22 miliardi. Il problema è che, un lacciolo dopo l'altro, non si riescono a spendere. Una paralisi? Di più: basti pensare che, a tre anni dal sisma, rimane ancora da smaltire il 40% delle macerie.
«Non possiamo permetterci di indugiare oltre» sprona due mesi fa il premier, Giuseppe Conte. «Sulla ricostruzione si gioca il futuro del Paese» avverte lo scorso 16 luglio il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante una visita ad Amatrice. Ecco, proprio il paese del reatino nel 2015 veniva dichiarato uno dei borghi più belli d'Italia. Adesso è diventato un monumento all'inerzia. Gli abitanti continuano a far le valige. La popolazione s'è già ridotta del 40%. E anche i proprietari delle seconde case, che affollavano le stagioni estive, sono spariti. Del resto, non avrebbero nemmeno un tetto sotto cui dormire.
Viaggiando nelle zone del terremoto, l'istantanea è univoca: desolazione, solitudine, abbandono. È il dantesco «lasciate ogni speranza voi ch'entrate». I Comuni sgretolati conservano intatti i segni della devastazione. Sembrano conservati sotto una teca, quasi un souvenir della tragedia. «Ci sono solo zone recintante e cumuli di macerie» riassume una sfollata, Luigia D'Annibale. «Continuano a passare camion che portano via le macerie. Non c'è una gru. Non c'è un cantiere. Niente di niente». Da ottobre 2017 Luigia, assieme al marito, vive nel Borgo uno: un villaggio di prefabbricati allestito ad Arquata del Tronto. Ha aspettato un anno prima di avere le chiavi della sua casetta. «All'inizio, come tutti, abbiamo avuto diversi problemi. Le installazioni e i lavori sono stati fatti in fretta. C'era una parete inzuppata d'acqua. C'hanno dato un numero per le emergenze. Ma spesso non rispondeva nessuno. O arrivavano dopo settimane. Così ho chiamato un idraulico, pagando di tasca mia». Luigia possiede una vecchia casa del Cinquecento nel centro storico di Arquata. «Dev'essere demolita, ma ci sono vincoli storici» spiega. «C'avevano detto che, con le nuove ordinanze, i tempi si sarebbero accorciati. Ma siamo fermi». C'è ancora da aspettare. E da sperare. «Va bene, prima o poi magari la ricostruzione partirà. Ma siamo sicuri che i contributi pubblici basteranno?». Domanda retorica. «Temo che alla fine saremmo costretti a fare un mutuo» si sfoga la donna. S'interrompe, riprende fiato, scuote la testa: «Siamo rimasti 700 nel paese. Molti si sono trasferiti a San Benedetto del Tronto, sulla costa. E chi aveva qui la casa dei nonni, non si fa più vedere». Magari torneranno. «Ma se non sono stati capaci nemmeno di attrezzare alcune aree per i camper! Almeno lì avremmo potuto ospitare i vacanzieri...».
Anche agricoltori e allevatori sono scorati. «Ho trascorso tutto l'inverno al gelo, con metà bestiame all'aperto» racconta Mario Troiani, allevatore di Visso. «Quando mi hanno rifatto la stalla, hanno calcolato male le dimensioni. Così, quando è arrivato il freddo, ho dovuto mettere i bovini sotto una tenda e al riparo degli alberi». Mario ha 28 anni. Vive ancora nei prefabbricati, con i genitori. «Siamo rassegnati» ammette l'allevatore. «La mia vecchia casa è nella zona rossa. E lì stanno ancora facendo i lavori di messa in sicurezza. Non abbiamo idea di quando partiranno i cantieri». Roberta Paoloni vive invece nel villaggio allestito ad Accumoli. «Ogni famiglia, davanti al suo modulo, ha creato un piccolo giardino. Ci manca il nostro vecchio paese. In particolare, il viavai dell'estate: quando il borgo si animava e cominciava la festa». E la ricostruzione? Roberta non ci spera più. «Hanno la priorità le abitazioni con danni lievi, mentre la mia è gravemente lesionata. Non sappiamo nemmeno se una parte del paese dovrà traslocare altrove. Il sindaco non si pronuncia».
A Camerino, storica città universitaria, si respira la stessa atmosfera, tetra e sospesa. Marco Brusciotti, studente e barista, sembra sconfortato: «Il centro storico è nelle stesse condizioni di tre anni fa. Inaccessibile. Le piccole attività, intanto, sono state trasferite in una struttura in periferia». Da queste parti nemmeno la recente visita del Papa ha rinfrancato gli animi. «Il rischio è che, dopo il primo coinvolgimento emotivo e mediatico, l'attenzione cali e le promesse vadano a finire nel dimenticatoio, aumentando la frustrazione di chi vede il territorio spopolarsi sempre di più» ha detto il Pontefice lo scorso 16 giugno. L'arcivescovo di Camerino, Francesco Massara, è stato meno ecumenico: «La ricostruzione s'è lasciata ingabbiare dai lacci della burocrazia, generando sconforto e delusione».
Fendenti poco caritatevoli sono partiti anche dalla diocesi di Spoleto. L'arcivescovo, monsignor Renato Boccardo, qualche giorno fa ha attaccato le paludi procedurali e amministrative. Che, per esempio, impediscono di rimettere in piedi la basilica di San Benedetto, a Norcia. Una delle tragiche icone del terremoto. «Stanno ancora rimuovendo le macerie» informa il prelato spoletino. E la decantata rinascita? Nemmeno l'ombra. Eppure Renzi prometteva: «La basilica tornerà a splendere». Mentre l'allora presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, rilanciava: «Ce ne faremo carico noi». Monsignor Boccardo, tre anni dopo, ragguaglia: «Continuiamo ad aspettare che il ministero dei Beni culturali indica il concorso internazionale di progettazione». Intanto, nella vicina chiesa di Santa Maria ci sono persino detriti all'interno, che coprono preziose opere d'arte. «Adesso cosa si potrà mai recuperare?» chiede crucciato l'arcivescovo.
A Spoleto il sisma ha danneggiato 14 chiese. Soltanto una è stata riaperta. Le altre attendono di uscire dalle secche. Vittime sacrificali di ordinanze scritte, riscritte e mai applicate. Nell'attesa, la diocesi sperava di cavarsela con i container. Da posizionare, a proprie spese, in cinque frazioni. Per dir messa e prendere la comunione. Ne è stato autorizzato solo uno. E gli altri? Niente da fare: l'impatto sul Parco dei Sibillini sarebbe eccessivo. Il monsignore cannoneggia: «Sono più propensi a dare attenzione ad alberi e animali che alle persone». Pastoie e cecità. «La burocrazia è un attentato alla ricostruzione». Adesso la pazienza è finita.
«A Norcia ancora macerie per colpa della burocrazia»

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«Se non si sciolgono alcuni nodi burocratici, qui non ricostruiamo nulla. L'intoppo è nello smaltimento delle macerie private, bloccato per un'assurda norma che ci impedisce di procedere». Il sindaco di Norcia, Nicola Alemanno, lancia l'ennesimo grido di allarme su una questione che, «nonostante i ripetuti richiami, a tre anni di distanza dal terremoto, non ha ancora trovato una risposta».
Siamo quasi al terzo anniversario del sisma e Norcia è ancora alle prese con le macerie?
«Paradossale ma vero. Ora vi spiego cosa sta succedendo. La Regione Umbria ha dato in gestione il trattamento delle macerie pubbliche a un soggetto pubblico, la Vus - Valle umbra servizi. Il contratto scadeva il 31 dicembre 2018. Già cinque mesi prima, ad agosto scorso, avevo posto il problema del rinnovo perché ci sono da rimuovere ancora ben 53.000 tonnellate di detriti. Si è messa in moto la macchina burocratica e solo dopo un anno, il 9 luglio è stato dato un altro mandato alla società».
Allora il trasporto delle macerie è ricominciato?
«Assolutamente no. La società deve di nuovo noleggiare le macchine e impiegare il personale necessario».
Ma di chi è la responsabilità di un anno di ritardi?
«Questa è una bella domanda. L'ex capo dell'Anac, Raffaele Cantone, ci ha sempre detto che lui procedeva velocemente, la Regione addossa la responsabilità al commissario alla ricostruzione, Piero Farabollini e questo sostiene che non riceve dalla Regione la documentazione in tempo. Eppure non c'è neppure il problema di dove scaricare le macerie, dal momento che l'impianto di stoccaggio di Misciano funziona benissimo».
Ma se lo smaltimento delle macerie pubbliche si è bloccato, come mai non va avanti quello delle private?
«Qui si apre un altro scenario assurdo. La legge stabilisce che mentre le macerie pubbliche sono di competenza statale, la gestione di quelle private spetta ai cittadini. Questo vuol dire che non possono affluire nel sito di Misciano. Ma per individuare un'altra area di stoccaggio dei detriti, occorrono mille autorizzazioni, oltre al costo. La copertura finanziaria dello Stato è per un trasporto fino a 11 chilometri dal luogo dove vengono rimossi. Un gruppo di abitanti che si è consorziato sperando in questo modo di riuscire a far valere le proprie ragioni, è in attesa da due anni di avere tutte le bollinature previste».
Ma allora come se ne esce?
«Io da tempo ho lanciato la proposta di autorizzare la struttura pubblica dell'impianto di Misciano a ricevere le macerie private. La Protezione civile mi ha detto che occorre fare una modifica al Codice dell'ambiente per equiparare tutti i detriti ed eliminare le distinzioni. Abbiamo interpellato il commissario Farabollini ma ci ha detto che il tema non è di sua competenza. La Regione si è subito defilata, adducendo svariati motivi normativi. Insomma, abbiamo un sito di stoccaggio pronto ad accogliere le macerie private ma non si può procedere. Tutti hanno le loro ragioni e Norcia è bloccata».
Avete posto la questione al governo?
«Certo, ma il tema è complesso e vale poco in termini elettorali. Peraltro il problema delle macerie non c'è in tutto il cratere. O meglio, è stato affrontato in modi diversi. Lazio e Marche si sono affidati a ditte private e sono sorte altre problematiche, come è emerso dalle cronache di stampa. Manca un interlocutore che si faccia carico della questione e dia una risposta una volta per tutte».
«Finiremo i soldi solo per bandire l’appalto europeo»

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«Ma quale ricostruzione? Dopo tre anni stanno ancora portando via le macerie. Per capire quali paesi potranno essere ricostruiti come erano e dove erano, dobbiamo addirittura fare una gara europea. Temo che quando avremmo completato tutto l'iter burocratico non ci saranno più i soldi». Aleandro Petrucci, sindaco di Arquata del Tronto, uno dei Comuni completamente rasi al suolo dal terremoto, non riesce a nascondere una vena di sfiducia.
Ci spiega questa questione della gara europea?
«Per i paesi perimetrati, cioè con abitazioni crollate completamente, la normativa impone di indire una gara europea per individuare 14 tecnici, tra cui ingegneri, architetti, geometri, geologi, che dovranno valutare se si può ricostruire su quello stesso luogo e come. Nel mio Comune ci sono sette frazioni sulle quali gli esperti dovranno esprimersi e decidere come intervenire. Conto di fare la gara per settembre. Ma già so che Pescara del Tronto va delocalizzata».
Questo vuol dire che Pescara del Tronto non esisterà più?
«La popolazione sarà trasferita nelle vicinanze, in un'area, forse anche in due, che dobbiamo ancora individuare. Non è un'operazione facile, ogni cittadino ha delle preferenze e mettere d'accordo tutti è complicato. Poi gli abitanti hanno chiesto che le case non siano spianate via, completamente, con le ruspe, ma che siano conservati i ruderi. Dovrebbe diventare un luogo della memoria, un museo a cielo aperto».
Ma come mai la rimozione delle macerie è ancora in corso?
«Bisognava individuare le aree dove trasferirle. I capannoni per lo stoccaggio si trovano a 70 chilometri da Arquata, a Monte Prandone, vicino a San Benedetto del Tronto. Lì, una volta portate le macerie, inizia l'operazione di separazione dei materiali individuando anche eventuali reperti di interesse storico. L'eternit e l'amianto vanno bonificati sul posto. E questo crea altre battute d'arresto perché bisogna chiamare una ditta specializzata per la rimozione. Nelle case antiche, le canne fumarie spesso contenevano amianto. Finora sono state portate via 260.000 tonnellate di macerie. Restano circa 150.000 tonnellate. Finora si sono avvicendate tre ditte».
Che tempi prevede per l'avvio della ricostruzione?
«Fino a quando le macerie non saranno rimosse completamente, la ricostruzione non può cominciare. L'operazione delle ruspe procede a rilento anche perché i proprietari delle case distrutte vogliono essere presenti e verificare se possono recuperare i beni più cari. Qualche passo in avanti si è fatto nelle sei frazioni non perimetrate. Qui non era necessaria la gara europea e i proprietari possono rivolgersi a professionisti per redigere i progetti. Ma non mancano gli intoppi. Spesso le case in questi piccoli paesi sono attaccate le une alle altre e quindi per il progetto bisogna mettere d'accordo più persone. Alcune abitazioni erano state abbandonate da anni perché i proprietari erano migrati in America e ora è impossibile rintracciarli. Sono poi frequenti i passaggi di proprietà non certificati e avvenuti con una semplice stretta di mano, o i piccoli abusi mai sanati. Tutti fattori che ostacolano l'approvazione veloce delle pratiche».
Quante persone si sono trasferite a vivere altrove?
«Circa un centinaio di famiglie usufruiscono del Cas, il contributo pubblico per l'autonoma sistemazione e vivono in affitto tra Acquasanta, Ascoli e San Benedetto del Tronto. Undici famiglie invece risiedono ancora in albergo. Penso che poche faranno ritorno. Questo Comune rischia di scomparire».