L’ex Fiat pretende quello che ha sempre avuto: fondi pubblici, profitti privati e tesoretto nascosto all’estero. È ora di farsi restituire l’Alfa Romeo che le è stata regalata e fare un bando per case disposte a produrre in Italia.
Diceva l’Avvocato: «Ciò che va bene alla Fiat, va bene all’Italia». In realtà non è mai stato così, anzi. Ciò che andava bene alla casa automobilistica della famiglia Agnelli, quasi mai andava bene al resto del Paese. Infatti, i soldi pubblici che lo Stato versava nelle casse private della famiglia torinese non servivano a sviluppare una grande industria meccanica capace di competere nel mondo con altri colossi del settore, ma consentivano all’azienda e ai suoi azionisti di risparmiare e non fare ciò di cui c’era bisogno. Che fine abbia fatto parte di quel denaro lo abbiamo scoperto grazie alla figlia di colui che era considerato una specie di re d’Italia, sia per la ricchezza che lo contraddistingueva che per l’ironia con cui si prendeva gioco dei molti cortigiani che gli leccavano i piedi. Margherita, con la sua causa, ha squarciato il velo su miseria e nobiltà della dinastia, rivelando al mondo e al fisco l’esistenza di un tesoretto miliardario, talmente ben occultato all’estero che neppure la sua erede diretta ne era a conoscenza. Le molte citazioni in giudizio presentate dall’unica figlia di Giovanni Agnelli stanno facendo vacillare il castello costruito intorno alla famiglia più potente e ramificata del Paese, rischiando di farla cadere dal piedistallo. Dopo quasi vent’anni di battaglie legali, Margherita ha ottenuto che la magistratura italiana cominciasse a ficcare il naso negli affari privati dell’Avvocato e dei suoi eredi, in particolare degli Elkann, ovvero dei figli che la stessa Margherita ha avuto nel suo primo matrimonio. Tagliata fuori dall’eredità da un accordo patrimoniale che, a suo dire, le avrebbe nascosto il tesoro del padre, la figlia di Gianni intende tutelare gli altri eredi, ovvero la prole avuta in un secondo matrimonio. Insomma, da un lato ci sono tre figli a cui è andato tutto, cioè una fortuna composta non soltanto da ciò che resta dell’industria automobilistica, dall’altro ce ne sono altri cinque, i quali non sono certo sul lastrico, ma che dopo aver incassato la liquidazione della madre senza che questa sapesse che la torta che le spettava era ben più grande, sono rimasti a bocca asciutta. Tuttavia, se da un lato la Dynasty di casa Agnelli ci ha svelato segreti inconfessabili ma immaginabili della più importante famiglia industriale d’Italia, dall’altro non ha aggiunto nulla alle modalità e alla spregiudicatezza con cui il gruppo di Torino ha coltivato i propri interessi. Seguendo il motto di cui si diceva prima e di cui l’Avvocato si faceva vanto, la Fiat ha sempre esercitato sul governo del Paese una forte pressione affinché i propri affari venissero preservati. Si voleva investire nelle ferrovie, per meglio collegare gli angoli più lontani d’Italia? Meglio di no, perché meno treni in circolazione equivaleva a più macchine su strada. Il diesel era il motore che garantiva un migliore rendimento e per di più il gasolio costava meno della benzina? Siccome la Fiat in quel campo andava a rilento, meglio introdurre un superbollo che scoraggiasse l’acquisto delle vetture diesel. L’azienda aveva bisogno di svilupparsi e di costruire un nuovo stabilimento? Il governo ci metteva i soldi e gli Agnelli si prendevano gli utili. Le partecipazioni statali si volevano liberare dell’Alfa Romeo perché il compito di uno Stato non è fare auto? Invece di vendere alla Ford, che era disposta a pagare fior di quattrini, si regalava la società alla Fiat, subendo pressioni e velate minacce.
Sì, la storia è questa e la conosciamo tutti fin nei dettagli. Dunque, quello che raccontiamo oggi non stupisce. Anche se è emigrata all’estero e ormai è di proprietà francese (ma gli Agnelli sebbene non comandino incassano fior di dividendi), le modalità dell’azienda automobilistica restano le stesse di sempre. Perciò, a fronte di mancati incentivi, Stellantis, cioè Fiat, annuncia che chiude per cassa integrazione e mette tutti i dipendenti in libertà fino a quando il governo non cambierà idea. In pratica è una serrata, ma forse sarebbe meglio dire un ricatto. Non ci sono l’arma o il coltello puntato alla gola, come nelle rapine in strada. Ma c’è una pressione sociale esercitata con disinvoltura, una cassa integrazione puntata alla tempia dell’esecutivo. Non so come reagirà Giorgia Meloni. So che in passato, quando c’era Prodi al governo e la Fiat sull’orlo del fallimento, l’esecutivo varò incentivi per l’acquisto delle vetture a carico del bilancio statale e questo diede un po’ di ossigeno all’azienda, a quei tempi guidata da Cesare Romiti, ma l’ossigeno durò poco, perché la Fiat non aveva né modelli né idee per competere. Io non so che cosa farà Palazzo Chigi, se chinerà il capo e aprirà il portafogli. Per parte mia, l’ho già detto, mi riprenderei il marchio Alfa Romeo e farei un bando per attirare nuove case automobilistiche disposte a produrre vetture in Italia. Forse non servirà a salvare Mirafiori, ma di sicuro contribuirà a mettere al sicuro le aziende dell’indotto, che ormai valgono più di ciò che resta dell’impero Agnelli.
Ps. Ma poi a che servono gli incentivi? A finanziare l’acquisto delle Maserati elettriche o delle 500 a batteria? Cioè qualche centinaio di modelli venduti in Italia? Insomma, non è che questa degli incentivi è una scusa per chiudere tutto e trasferire la produzione in Francia, Serbia e Marocco?