A sinistra l’inutile lagna contro il governo di Giorgia Meloni si è concentrata sull'abolizione del Reddito di cittadinanza, provvedimento annunciato per tempo e tema della campagna elettorale. L’avviso dell’Inps agli ex percettori, inviato via sms, ha dato corda alle opposizioni. Dem e ultrà rossi, come se avessero letto dallo stesso spartito, hanno intonato un coro unanime con una ouverture sulle povertà e un intermezzo sulla riforma fiscale. All’operetta ha preso parte il capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia: «Hanno trattato 169.000 persone come se fossero una rubrica telefonica. Non capiscono che dietro ci sono famiglie, problemi, ansie, preoccupazioni, pericoli per la tenuta sociale». Poi, la riforma fiscale: «Un regalo a chi evade». E arriva a sostenere che «il governo strizza l’occhio a quelli che venivano chiamati furbetti ma sono solo ladri». Anche sui numeri c’è non poca confusione. Se per Boccia i fuoriusciti dal Reddito di cittadinanza sono 169.000, per Natale Di Cola, segretario romano della Cgil, la scelta del governo «coinvolgerà nei prossimi mesi almeno 175.000 persone, lasciando senza una fonte di Reddito stabile il sette per cento dei romani». E avvia uno strano pressing sul municipio della Capitale: «Ora è fondamentale che il Comune di Roma agisca nei confronti del governo per ottenere una proroga e aumenti le risorse in bilancio per contrastare la povertà». Secondo il sindaco di Benevento, Clemente Mastella, l’sms dell’Inps «ha provocato confusione e disagio». Secondo Mastella sarebbe «assolutamente inutile dire agli utenti che occorre rivolgersi ai Servizi sociali dei Comuni che non hanno né gli spazi finanziari, né le possibilità materiali per far fronte a difficoltà sociali di questo tipo». Pure il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi si sente toccato direttamente: «È un fatto istituzionalmente gravissimo scaricare il malcontento delle persone sui nostri servizi sociali che non hanno strumenti e risorse». Poi però ammette di non aver ben compreso: «Se noi amministratori non abbiamo capito come gestire l’uscita dal Reddito di cittadinanza, figuriamoci i cittadini». E alimenta le tensioni: «Dentro questa grande confusione si potrebbero inserire disordini sociali». Posizione condivisa dal parlamentare del Pd Arturo Scotto: «Il taglio del reddito di cittadinanza sta mettendo a dura prova le città, soprattutto nel mezzogiorno. Il governo ha lasciato soli i sindaci a gestire la rabbia di migliaia di persone mandate sul lastrico da un giorno all’altro». Non poteva mancare il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni: «Destra sociale? Ma quando mai, questa è la destra dei grandi privilegi, quella che sta coi ricchi». E si trova in perfetta sintonia col Pd: «Il governo fa continui regali a chi evade, perseguita chi percepisce il reddito di cittadinanza ma è disponibile a condoni e rinvii sugli extraprofitti». Ha intonato la stessa solfa pure il senatore Alessandro Alfieri, dem pure lui: «Inviare come ha fatto il governo Meloni via sms alle famiglie la notizia che non riceveranno più il Reddito di cittadinanza, ovvero una fonte indispensabile di sostentamento, è cinico e crudele. La beffa è che mentre scatena una guerra tra poveri, l’esecutivo Meloni con la riforma fiscale mette mano a una serie di condoni e scudi fiscali per chi non paga le tasse». Debora Serracchiani paragona la comunicazione inviata agli ex percettori del Reddito di cittadinanza ai licenziamenti di massa delle multinazionali: «Con un Whatsapp alcune multinazionali licenziavano i propri dipendenti. Ora i patrioti dicono ai poveri e alle famiglie in difficoltà che devono arrangiarsi e lo fanno con un sms». E ovviamente prova pure lei a fare da megafono alla propaganda contro la riforma fiscale: «Evidentemente ora per il governo e per Giorgia Meloni sono più interessanti furbi ed evasori».
«Stiamo ancora definendo lo strumento», dice il sindaco Gaetano Manfredi ai cronisti che gli chiedono se è pronto il salva Napoli del governo Draghi, da infilare in Finanziaria a soli due mesi dalle elezioni che lo hanno incoronato sindaco con il 62% dei consensi. Ecco, intanto che affina lo strumento con il ministero dell’Economia, il primo cittadino potrebbe anche dare un’occhiata alla quantità di soldi impressionante che il Comune non riscuote dal suo vasto patrimonio immobiliare, come sta documentando in questi giorni un’accurata inchiesta del Mattino. Ma certo, far pagare il giusto ai propri concittadini-elettori è molto più difficile che tosare pro quota sessanta milioni di italiani, che magari manco se ne accorgeranno.
Proprio eri, a Napoli, è andato in scena il terzo degli appuntamenti pubblici organizzati dal governo per spiegare le chance offerte dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Nel campus di San Giovanni a Teduccio dell’università Federico II, hanno preso la parola due politici resilienti del calibro di Luigino Di Maio e Mara Carfagna, con il sindaco Manfredi a fare doppiamente gli onori di casa, visto che prima di fare il ministro della Ricerca nel governo Conte era stato rettore dell’ateneo federiciano. Ebbene, sulla spinosa questione degli emendamenti salva Napoli presentati da Pd e M5s, in attesa che il governo faccia la sua mossa, Manfredi ha ammesso che ci vorrà tempo. «Stiamo ancora definendo lo strumento», ha detto il sindaco, «l’assessore Pierpaolo Baretta sta discutendo con il Mef e siamo ancora in una fase di confronto per trovare la soluzione migliore».
Manfredi ha ereditato da Luigi De Magistris una città con le finanze al collasso e un debito da cinque miliardi di euro che, per evitare il dissesto finale, o viene estrapolato alla romana (strada decisamente impervia, anche politicamente, visto che si è appena votato come nulla fosse), oppure viene separato e gestito da un commissario di governo, in cambio di un miliardo dalla fiscalità generale. Il problema è che qui, se non si mettono di buzzo buono anche i parlamentari napoletani degli altri partiti, sarà difficile salvare le casse bucate di Palazzo San Giacomo. Proprio martedì, raccontando la manovra in corso al Senato da parte di Pd e M5s per evitare che Manfredi dia corso alla minaccia di dimettersi se non gli mandano giù il miliardo, La Verità faceva notare che, in cambio del sostegno nazionale, l’amministrazione locale avrebbe almeno potuto impegnarsi a gestire in modo più sano ed equo il proprio ingente patrimonio immobiliare. E proprio ieri, sul Mattino diretto da Federico Monga, è uscita la seconda puntata dell’inchiesta sull’affittopoli locale. Il quadro che ne esce è davvero disarmante e ricorda quello svelato a suo tempo su Roma dal Giornale. Il Comune di Napoli ha 24.000 immobili ceduti in affitto, l’80% dei quali è dato a canoni mensili che non arrivano neppure a 100 euro; mentre altri 5.202 appartamenti hanno affitti sotto i dieci euro. Per carità, in gran parte si tratta di edilizia popolare a prezzi calmierati, ma nel calderone ci sono anche caserme, uffici, scuole, alberghi e immobili di pregio. Secondo i calcoli del giornale di Francesco Gaetano Caltagirone, un editore che di immobili se ne intende, il Comune incassa 1,9 milioni al mese (facciamo finta che tutti paghino). In uno stesso stabile, c’è chi paga 24 euro di affitto e chi ne versa 1.382, e in zone di pregio come Posillipo e Chiaia, ci sono fortunati che se la cavano con 28 euro. I cronisti del Mattino hanno anche individuato inquilini che abitano a 600 metri da piazza del Plebiscito, in via Nicotera, dove se si passa da un’agenzia immobiliare non ce la si cava con meno di 1.600 euro. Con il Comune, però, bastano 69 euro e ne bastano 259 euro anche in via Toledo, laddove un privato porterebbe a casa da 1.500 a 2.500 euro al mese. Ma il Comune ora guidato dal professor Manfredi è anche sfortunato. Nel 2017, l’amministrazione di Luigi De Magistris accettò una permuta con l’agenzia del demanio, cedendo una caserma a Pizzofalcone in cambio della proprietà di un altro edificio in zona. Ora, quel palazzo è tutto occupato dagli abusivi e per averlo nel proprio patrimonio, il municipio ha ceduto un bene che gli rendeva 40.000 euro al mese. Se la geniale permuta fosse avvenuta con un privato, probabilmente sarebbe già tutto finito alla locale Procura della Corte dei Conti per valutare il danno erariale.
Che Manfredi pensasse di andare a guidare il comune di Bolzano, ovviamente, è da escludere. Ma il punto è che se un ex ministro del Pd ed ex potente capo della Conferenza italiana dei rettori, insomma un ex barone capo, ha accettato di cacciarsi in un guaio simile, deve avere avuto qualche assicurazione «nazionale» dal suo partito, da Leu e dal Movimento 5 stelle su un qualche salva Napoli. Roma ha ancora una dozzina di miliardi di debito da smaltire, ma difficilmente il salvataggio di Palazzo San Giacomo arriverà con le medesime modalità. E allora Manfredi sta cercando di convincere il governo a dargli un miliardo, per poi rinegoziare i suoi 700 mutui con la Cassa depositi e prestiti, sui quali è esposto per due miliardi e mezzo.
Napoli detta legge. Non solo sui campi da calcio, ma anche nella gestione delle finanze pubbliche. Partito democratico, Leu e Movimento 5 stelle stanno cercando d’inserire nelle legge di bilancio, in discussione al Senato, una norma che consenta al Comune più indebitato d’Italia di non fallire e di accollare debiti e mutui allo Stato, con somma gioia delle banche creditrici. Ancora da vedere se questo gioco di prestigio, senza il quale il sindaco Gaetano Manfredi aveva già minacciato di dimettersi a neppure due mesi dalla trionfale investitura, sarà totalmente a costo zero per i cittadini del capoluogo campano, oppure se il governo del severissimo e rigoroso Mario Draghi chiuderà un occhio. Delle norme in arrivo, va detto, potrebbero beneficiare in piccola parte anche Torino e Firenze, anch’esse guidate dal centrosinistra e gravate dai debiti. Anche se qui, almeno, i soldi sembrano esser stati spesi un po’ meglio che a Napoli.
Che qualcosa bollisse in pentola per Napoli era aria da qualche settimana. Passato l’entusiasmo di Pd, sinistra e M5s per il 62,9% raccolto dall’ex ministro della Ricerca, già ai primi di novembre si era piombati nella tragedia. Manfredi aveva rivelato che «già oggi lo stato del bilancio di Napoli è da dissesto» e il 4 novembre aveva minacciato di dimettersi se il governo non avesse trovato una soluzione per salvare la città, schiacciata da un debito che è arrivato a quasi cinque miliardi. Da allora ci sono state trattative serrate tra il ministro tecnico Daniele Franco, la viceministra torinese Laura Castelli e l’assessore al bilancio di Napoli, il veneziano Pier Paolo Baretta, una vecchia volpe piddina che dopo aver fatto carriera nella Cisl è stato al Tesoro come sottosegretario nei governi Letta, Renzi, Gentiloni e Conte bis, occupandosi di partite delicate come i rapporti con le lobby del gioco legale e del tabacco.
Ieri pomeriggio, Manfredi è salito a Roma per discutere con la Castelli, proprio mentre in Senato venivano depositati gli ultimi emendamenti alla Manovra 2021. La fortuna di Napoli è che è uno dei pochi grandi comuni italiani che si è affidato a un’alleanza tra centrosinistra e 5 stelle. Tanto è vero che le due preoccupazioni che hanno in questi giorni Manfredi e Baretta sono la caccia al consenso dei deputati campani del centrodestra e il timore che il Mef chieda contropartite più o meno pesanti, come un commissario al debito o delle addizionali Irpef.
Gli emendamenti dei deputati del Pd, guidati dalla campana Valeria Valente, mirano a fare in modo che lo Stato carichi sulle proprie spalle parte del debito accumulato dalle grandi città in crisi attraverso l’emissione di obbligazioni. Del medesimo tenore sono anche le richieste di modifica ideate da una serie di deputati grillini, come Mariolina Castellone, Sergio Puglia, Vincenzo Presutto e Sergio Vaccaro. A favore dell’emendamento Pd c’è anche Vasco Errani di Leu, che è il relatore di maggioranza della Finanziaria e già questo è un segnale politicamente importante per il sindaco Manfredi.
L’aiutino per Napoli dovrebbe valere un miliardo, ma bisognerà vedere che cosa ne pensano Lega, Forza Italia e i renziani. Negli emendamenti di Pd e M5s, lo Stato non avrebbe nulla in cambio, ma è ancora presto per capire se questa impostazione benefica sia sposata davvero anche dal ministro Daniele Franco e dal premier Draghi. Lo schema degli emendamenti prevede che il Mef sia autorizzato a procedere o alla ristrutturazione del debito, accollandosi i mutui bancari e i derivati connessi, o a caricarsi i bond emessi dai comuni che sono anche «città metropolitane». I comuni in rosso possono accedere a questo regalo di Natale se hanno già deliberato il ricorso alle procedure di rientro finanziario pluriennale, o se hanno affidato alla Corte dei conti locale il controllo dei piani di risanamento. In questo caso, lo Stato può anche emettere nuovi strumenti obbligazionari a proprio nome, in sostituzione secca di quelli comunali.
Decisamente tagliati sulle esigenze del sindaco Manfredi anche i tempi di questi salvataggi. Le operazioni di accollo e sostituzione a spese di tutti i contribuenti italiani possono partire dal primo gennaio e il Comune salvato ha quattro mesi in più per chiudere il bilancio. Una boccata d’ossigeno finanziario che serve proprio a Napoli. In cambio di questa sollecitudine, il Comune dovrà, come si legge nell’emendamento del Pd, «dare evidenza degli effetti dell’accollo da parte dello Stato, nella nota integrativa allegata al bilancio di previsione 2022-2024 e nella relazione sulla gestione allegata al rendiconto 2021». Davvero notevole che un elementare obbligo di trasparenza nei confronti dei cittadini sia contrabbandato come una severa condizione statale.
Alla voce contropartite, comunque, qualcosa è presumibile che arrivi, su richiesta di via XX Settembre o del centrodestra. A parte la scontata nomina di un commissario di governo alla gestione del debito «accollato», il campionario è vario, nella recente storia finanziaria. Ma per ora sembra vietato parlarne. Per esempio, a fronte di un’operazione che su Napoli varrebbe un miliardo, si potrebbero chiedere a Manfredi impegni stringenti sulla riorganizzazione delle municipalizzate, sulla dismissione del patrimonio immobiliare (o quantomeno su una sua gestione più sana), o sulla lotta all’evasione dei tributi locali.
Comunque vada a finire questo «salva Napoli» più o meno mascherato, resta il sospetto che Palazzo San Giacomo forse andasse commissariato ai tempi di Luigi De Magistris, anziché messo all’asta elettorale tra chi poteva vantare più entrature nel «governo dei Migliori».
Bastavano le ultime istantanee di campagna elettorale per capire come sarebbe finita. Gaetano Manfredi, diventato sindaco di Napoli con oltre il 64% dei voti, cinto sul palco dall'incontenibile affetto di tutto lo stato maggiore pentastellato: dall'ex premier, Giuseppe Conte, al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Intanto a Bagnoli, Catello Maresca, magistrato in aspettativa, viene spalleggiato dall'eroico forzista Antonio Tajani. Dei capi partito del centrodestra, nemmeno l'ombra. Silvio Berlusconi ha mandato un'affettuosa missiva. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, s'è esibita in un solitario tour elettorale. Quanto a Matteo Salvini, il problema non sussisteva: la lista della Lega è stata esclusa dal Tar.
Le urne confermano, oltremisura, ogni aspettativa. Manfredi, ex rettore della Federico II e poi ministro giallorosso dell'Università, viene eletto al primo turno. Avversario annichilito. E ora, come promesso, si prepara a scaricare su tutti i contribuenti della Penisola il mastodontico debito cittadino, il più alto fra i Comuni italiani. «Credo che si interverrà già nella prossima finanziaria», gongola qualche giorno fa, mentre vaticina ampia vittoria. Maresca, invece, si ferma al 21%. Segue l'intramontabile Antonio Bassolino, 74 primavere, già al vertice di Palazzo San Giacomo una trentina d'anni fa: raccoglie circa il 7% di irriducibili, tra cui Nino D'Angelo, che ha chiuso la sua campagna.
L'astuto e ombroso Manfredi diventa quindi fulgido simbolo della scombinata coalizione giallorossa: sindaco dell'indiscussa capitale del reddito di cittadinanza, misura difesa strenuamente da Conte e i suoi. Certo, Pd e Movimento hanno corso insieme pure a Bologna. Ma lì l'apporto dei 5 stelle resta simbolico. A Napoli, invece, raccolgono poco meno dei democratici: oltre l'11%.
Il capoluogo partenopeo è l'avamposto del sussidio grillino, certo. Non a caso, però. Perché è anche la città degli storici dioscuri: Roberto Fico, presidente della Camera, e Di Maio, nato qualche chilometro più in giù, a Pomigliano d'Arco. Manfredi, dire il vero, è stato ben accolto pure dal Pd: del resto, l'evenienza opposta avrebbe offuscato il governo Conte, di cui il neo sindaco faceva mestamente parte. Difatti, in chiusura di campagna elettorale, è arrivato perfino il ministro del Lavoro, il dem Andrea Orlando.
Ma non è stata la vittoria della coalizione Frankenstein. Piuttosto, l'annunciata disfatta del centrodestra. Maresca, fin dall'inizio, ha fatto il possibile per scontentare i partiti: «Me ne fotto dei simboli!», annuncia ribaldo lo scorso giugno. Segue maldestra retromarcia. Non proprio le premesse ideali, specie in una città guidata dal centrosinistra fin dai tempi di Bassolino. Ancora meno opportuna, vista la professione dell'aspirante «Rudolph Giuliani partenopeo»: magistrato. Non esattamente, tra Amara e Palamara, la più amata del momento. L'esclusione di tre liste che lo sostengono, due civiche e la Lega, fa il resto. Proprio mentre gli avversari si compattano, a dispetto di eterni dissidi. Perfino il presidente campano, Vincenzo De Luca, dopo anni passati a insolentire i grillini, si spende per Manfredi.
Gli altri fanno il lavoro sporco. L'ex rettore, invece, evita confronti e dibattiti. Per inelegante sprezzo degli avversari, intanto. Poi, vista la sua uggiosa verve, soprattutto al cospetto di un veterano come Don Antonio. Infine, per evitare impietosi paragoni con lo spumeggiante governatore, suo sponsor. Insomma, campagna elettorale soporifera. Talmente tanto da aver fatto registrare un'affluenza del 47,19%. La più bassa della storia, nonostante le promesse di eterno sussidio.
- Imposte locali più alte per 30 anni per azzerare il debito del Comune che spaventa l'ex ministro Gaetano Manfredi. L'accordo tra Pd, M5s e Leu per blindare la corsa a sindaco del prof. Ma a pagare sarà anche il resto d'Italia.
- Giuseppe Sala a Milano (da ora in campagna elettorale) congela canoni, rette scolastiche e imposte di soggiorno che guarda caso torneranno «attive» da novembre.
Lo speciale contiene due articoli.
È inutile che cerchiate nelle classifiche delle presidenziali Usa o negli annali di qualche faraonica campagna elettorale sudamericana. La più costosa candidatura politica della storia è e resterà quella di Gaetano Manfredi, ex ministro dell'Università del governo giallorosso. Per convincerlo a correre per la carica di sindaco di Napoli, gli è stato promesso un assegno di oltre 5 miliardi di euro. Altro che Cristiano Ronaldo o Leo Messi, l'ingaggio del prof di ingegneria, con un passato da rettore dell'Università Federico II di Napoli, supera i confini della più bramosa fantasia turbocapitalistica. Ed è frutto dell'accordo del trio delle meraviglie: Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza. Formalizzato e ufficializzato in un documento di sei paginette - a interlinea doppia - pomposamente denominato Un patto per Napoli.
Chiariamo: la cosa andrebbe anche bene se, a onorare questo gigantesco impegno finanziario, fossero quelli che l'hanno proposto. Invece, a pagare saranno i napoletani. Saranno tutti i cittadini della disastrata metropoli, amministrata oggi da Luigi de Magistris, a dover sostenere con un incremento indiscriminato delle imposte locali la discesa in campo di un candidato di parte. E questo perché il centrosinistra a trazione grillopiddina non aveva altri nomi da gettare nella mischia al di fuori del povero (si fa per dire) Manfredi. Che appena il 18 maggio, buttando un occhio al bilancio di Palazzo San Giacomo, sede della casa comunale, aveva declinato l'invito inorridito. «Troppi debiti, rinuncio, grazie lo stesso». Per convincerlo a ripensarci, i tre capataz di Pd, M5s e Leu hanno partorito un piano che ricalca la legge speciale di Roma Capitale con l'obiettivo di recuperare i 5 miliardi di euro di extra deficit - appunto - che stanno facendo affondare le casse comunali. E come si possono rastrellare così tanti soldi? Facile: nominando un commissario che dovrà sgonfiare il «debito storico» del Comune alzando i tributi locali, a cominciare dall'Irpef (che potrebbe schizzare allo 0,9%), e i diritti di imbarco portuali e aeroportuali (+1 euro a persona). E questo nonostante le aliquote in città siano già ai massimi.
Con queste garanzie, il prof ha detto sì. E i giallorossi hanno ripreso a sorridere. Chiaro: il problema è ora tutto dei contribuenti del capoluogo. E in parte anche del resto d'Italia se è vero che almeno la metà debito (pari a 2,5 miliardi) se la accollerà lo Stato. Insomma, saranno chiamati a pagare per Manfredi pure i cittadini che abitano a Lampedusa e i 539 residenti di Predoi, il Comune più a nord d'Italia, che con Napoli non è che abbiano un immediato e percepibile collegamento. Ma tant'è.
Quanto durerà il salasso per i partenopei? Secondo fonti romane, interpellate dal nostro giornale, l'orizzonte è di almeno quindici anni. «Ma potrebbero tranquillamente diventare trenta se il Comune di Napoli continuerà a perdere milioni su milioni con la mancata riscossione delle tasse». D'altronde si sa: niente è più definitivo del provvisorio. La norma salva-Manfredi potrebbe trovare ospitalità nella prossima finanziaria ed è già stata spacciata, dalla propaganda di regime, come una assunzione di responsabilità dei partiti di sinistra nei confronti dell'ente municipale che rischia il crac. Peccato che: 1) il problema del debito ha tolto il sonno al solo Manfredi, non avendo gli altri candidati già in corsa (a cominciare dall'ex pm antimafia, Catello Maresca, a capo della coalizione di centrodestra) posto alcuna pregiudiziale; 2) buona parte delle passività sono eredità avvelenata delle stagioni dei sindaci dem Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino. Il debito, insomma, è tutta roba loro. Roba di sinistra. Che fa e disfa.
Curioso poi che l'occhiuto Manfredi non si sia ricordato che pure la sua università, fino al 2017, aveva accumulato nei confronti di Palazzo San Giacomo quasi 70 milioni di euro di debiti per il mancato pagamento della tassa sui rifiuti.
Possibile quindi che, alla fine, Un patto per Napoli diventi Un «pacco» per Napoli. Non a caso il consigliere regionale della Lega, Severino Nappi, definisce «vergognoso» il metodo di reclutamento delle sinistre di un «candidato che giustamente non si fida di loro». E aggiunge: «Se davvero si vuole dare sostegno ai Comuni in difficoltà, ci aiutino ad eliminare i paletti che impediscono la gestione efficace delle nostre città ai sindaci, ovviamente a quelli competenti e onesti». I conti non tornano nemmeno dalle parti dei grillini, che pure dovrebbero sostenere l'ex rettore. Non foss'altro per la benedizione alla candidatura arrivata da Roberto Fico. Presidente napoletano della Camera e leader dell'ala sinistrorsa del Movimento. Invece, il capogruppo comunale Matteo Brambilla, che contesta l'imposizione dall'alto di Manfredi, ha imbracciato il fucile della rivolta e ha iniziato a sparare. «Ci volevate servi, ci troverete ribelli», ha scritto su Facebook. Ci sarà da divertirsi.
Sala ferma la Tari solo fino al voto
«A pensar male si fa peccato, ma spesso s'indovina» diceva qualcuno che la politica la conosceva bene. Già perché la «misura straordinaria» causa Covid messa in campo dal sindaco di Milano, Beppe Sala, in piena campagna elettorale qualche sospetto lo crea. Palazzo Marino, infatti, ha deciso di rinviare il pagamento di asili, mense e rifiuti fino al prossimo autunno «perché la città sta vivendo un grave momenti di emergenza». Il sindaco meneghino, mentre l'intero Paese, tra calo dell'indice Rt e aumento delle vaccinazioni, sta uscendo dal lungo lockdown, ritiene che l'emergenza Covid non sia finita come non lo è la crisi economica e sociale innescata dalla pandemia. E così «congela» fino al prossimo 31 ottobre le scadenze dei pagamenti di tutti i tributi locali, dalla Tari (la tassa sui rifiuti) alle rette di nidi e di mense scolastiche, che vengono anche scontate per i giorni di zona rossa, dall'imposta di soggiorno ai costi sostenuti dalle famiglie che utilizzano i centri diurni per disabili fino al canone di occupazione del suolo per il commercio sulle aree pubbliche. Una «misura straordinaria, frutto del grande lavoro dei nostri uffici e testimonianza più che mai concreta dell'impegno di questa amministrazione per la città» ha sottolineato Sala, che una decina di giorni fa ha presentato i candidati (medici e professionisti del settore sanitario) che correranno nella lista «Milano in salute» per la sua rielezione a sindaco. In sostanza soltanto adesso la giunta ha approvato una delibera che rende operativa una richiesta della maggioranza di centrosinistra fatta durante la discussione in aula sul bilancio di previsione 2021: rinviare al 31 ottobre i pagamenti di tutte quelle partite su cui l'amministrazione ha competenza diretta, quindi asili, mense e rifiuti, ovvero le scadenze dei «prelievi fiscali dell'ente e dei pagamenti di contributi, dei canoni e delle quote associative e contributive dovute al Comune». Escluse quindi, Imu e Irpef. Particolarmente soddisfatto Sala che sui suoi profili social ha ribadito che «in questi mesi di emergenza, il Comune ha adottato tutti i provvedimenti in suo potere e messo in campo ogni iniziativa possibile per sostenere i cittadini e le cittadine in difficoltà, dalle famiglie ai commercianti fino ai gestori di attività pubbliche e sociali. Continuando a garantire i servizi e tenendo i conti in equilibro, abbiamo compiuto ogni sforzo per scongiurare il rischio concreto che alla crisi sanitaria si aggiungesse anche quella economica». Secondo il capogruppo del Pd Filippo Barberis, «diamo fiato a cittadini e categorie produttive. Procederemo nelle prossime settimane, utilizzando le risorse dell'avanzo di bilancio, con ulteriori sostegni, dagli sconti sulla Tari agli aiuti alle famiglie in difficoltà». Come funzionerà? Il pagamento dei bollettini Tari dell'anno in corso, che potrebbero arrivare a fine luglio, potrà essere fatto dal primo novembre in poi e per le annualità precedenti ci potranno essere piani di rateizzazione. Spostato in autunno il versamento del canone unico e quello per le occupazioni permanenti di suolo pubblico (chioschi ed edicole); oltre al rinvio al 3 settembre, le rette degli asili nido, nel periodo in cui la Lombardia è stata in zona rossa e il servizio è stato chiuso, vengono tagliate del 50%; dimezzati anche gli importi delle mense, mentre fino al 31 ottobre non si pagano i bollettini per i centri diurni disabili e i canoni di affitto degli immobili comunali. Anche l'ex sindaco Giuliano Pisapia adottò un analogo provvedimento in campagna elettorale, chissà se a Sala porterà fortuna per il bis.






