2021-10-05
Manfredi si prende Napoli ma il suo debito finirà a noi
Gaetano Manfredi 64% - Catello Maresca 21,4% (Ansa)
Il prof vince con una coalizione più arlecchino che giallorossa e si prepara a far pagare a tutti gli italiani il dissesto partenopeo.Bastavano le ultime istantanee di campagna elettorale per capire come sarebbe finita. Gaetano Manfredi, diventato sindaco di Napoli con oltre il 64% dei voti, cinto sul palco dall'incontenibile affetto di tutto lo stato maggiore pentastellato: dall'ex premier, Giuseppe Conte, al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Intanto a Bagnoli, Catello Maresca, magistrato in aspettativa, viene spalleggiato dall'eroico forzista Antonio Tajani. Dei capi partito del centrodestra, nemmeno l'ombra. Silvio Berlusconi ha mandato un'affettuosa missiva. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, s'è esibita in un solitario tour elettorale. Quanto a Matteo Salvini, il problema non sussisteva: la lista della Lega è stata esclusa dal Tar.Le urne confermano, oltremisura, ogni aspettativa. Manfredi, ex rettore della Federico II e poi ministro giallorosso dell'Università, viene eletto al primo turno. Avversario annichilito. E ora, come promesso, si prepara a scaricare su tutti i contribuenti della Penisola il mastodontico debito cittadino, il più alto fra i Comuni italiani. «Credo che si interverrà già nella prossima finanziaria», gongola qualche giorno fa, mentre vaticina ampia vittoria. Maresca, invece, si ferma al 21%. Segue l'intramontabile Antonio Bassolino, 74 primavere, già al vertice di Palazzo San Giacomo una trentina d'anni fa: raccoglie circa il 7% di irriducibili, tra cui Nino D'Angelo, che ha chiuso la sua campagna. L'astuto e ombroso Manfredi diventa quindi fulgido simbolo della scombinata coalizione giallorossa: sindaco dell'indiscussa capitale del reddito di cittadinanza, misura difesa strenuamente da Conte e i suoi. Certo, Pd e Movimento hanno corso insieme pure a Bologna. Ma lì l'apporto dei 5 stelle resta simbolico. A Napoli, invece, raccolgono poco meno dei democratici: oltre l'11%. Il capoluogo partenopeo è l'avamposto del sussidio grillino, certo. Non a caso, però. Perché è anche la città degli storici dioscuri: Roberto Fico, presidente della Camera, e Di Maio, nato qualche chilometro più in giù, a Pomigliano d'Arco. Manfredi, dire il vero, è stato ben accolto pure dal Pd: del resto, l'evenienza opposta avrebbe offuscato il governo Conte, di cui il neo sindaco faceva mestamente parte. Difatti, in chiusura di campagna elettorale, è arrivato perfino il ministro del Lavoro, il dem Andrea Orlando. Ma non è stata la vittoria della coalizione Frankenstein. Piuttosto, l'annunciata disfatta del centrodestra. Maresca, fin dall'inizio, ha fatto il possibile per scontentare i partiti: «Me ne fotto dei simboli!», annuncia ribaldo lo scorso giugno. Segue maldestra retromarcia. Non proprio le premesse ideali, specie in una città guidata dal centrosinistra fin dai tempi di Bassolino. Ancora meno opportuna, vista la professione dell'aspirante «Rudolph Giuliani partenopeo»: magistrato. Non esattamente, tra Amara e Palamara, la più amata del momento. L'esclusione di tre liste che lo sostengono, due civiche e la Lega, fa il resto. Proprio mentre gli avversari si compattano, a dispetto di eterni dissidi. Perfino il presidente campano, Vincenzo De Luca, dopo anni passati a insolentire i grillini, si spende per Manfredi. Gli altri fanno il lavoro sporco. L'ex rettore, invece, evita confronti e dibattiti. Per inelegante sprezzo degli avversari, intanto. Poi, vista la sua uggiosa verve, soprattutto al cospetto di un veterano come Don Antonio. Infine, per evitare impietosi paragoni con lo spumeggiante governatore, suo sponsor. Insomma, campagna elettorale soporifera. Talmente tanto da aver fatto registrare un'affluenza del 47,19%. La più bassa della storia, nonostante le promesse di eterno sussidio.