La cronologia degli eventi che hanno caratterizzato l’ennesima giornata di passione per Acciaierie d’Italia aiuta a capire quello che da qui a poco potrebbe succedere a Taranto. Si comincia con le prime dichiarazioni del ministro delle Imprese, Adolfo Urso, che ha sollecitato i commissari di Ilva, la società che è già in amministrazione straordinaria, e il socio pubblico Invitalia «a esperire le dovute interlocuzioni con Acciaierie d’Italia e tutte le azioni necessarie al fine di garantire la continuità produttiva degli impianti siderurgici di Taranto». Cosa volesse davvero dire il ministro lo si è capito qualche minuto dopo, quando gli stessi commissari hanno chiesto ad Acciaierie d’Italia «aggiornamenti urgenti» sullo stato di funzionamento degli impianti degli stabilimenti, sulle iniziative in corso di svolgimento e sulla «necessità di una loro visita ispettiva».
Tradotto, vuol dire che il pericolo, a questo punto neanche tanto remoto, è che il socio di maggioranza, il colosso indiano ArcelorMittal che ha una partita in corso con Invitalia che è ancora in minoranza, stia spingendo, o meglio, resti inoperoso, di fronte al lento spegnimento degli impianti. A oggi la situazione è già a scartamento ridotto - c'è stato lo stop all’altoforno 2 e si prepara la fermata delle batterie coke, mentre ad agosto si era fermato l’Afo 1 dell’acciaieria 1, dell’agglomerato e di molti altri impianti.
Tutto questo porta a due conseguenze. La prima è lo stato d’allarme. Che è bene descritto dalle parti sociali. «Da alcuni giorni», sottolinea il segretario generale Uilm Rocco Palombella, «stiamo registrando uno spostamento illecito di personale da un impianto all’altro senza un’adeguata conoscenza del lavoro e dei rischi che corre». «Sta accadendo» gli fa eco Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil, «esattamente quello che da mesi denunciamo. Tutti gli stabilimenti ex Ilva, da Taranto a Genova, fino a Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Legnaro, sono di fatto fermi con le lavoratrici e i lavoratori in cassa integrazione».
La seconda riguarda invece i rapporti tra i due azionisti: un possibile riavvicinamento non è praticabile. Se la condizione minima richiesta dal governo per riaprire i ponti con gli indiani, che comunque andrebbero in minoranza, è che partecipino ai prossimi investimenti, si fa davvero fatica a capire come ci si possa «fidare» di un’azionista che si disinteressa della produzione e non fa nulla per evitare lo spegnimento di ciò che resta degli impianti.
Va ricordato infatti che il socio pubblico Invitalia ha inviato una lettera ad Acciaierie d’Italia per chiedere la verifica dei presupposti per avviare le procedure per l’amministrazione straordinaria che contestualmente viene supportata da un prestito pubblico a condizioni di mercato da 320 milioni per garantire l’ordinaria amministrazione.
Il decreto varato dal governo e pubblicato in Gazzetta Ufficiale infatti prevede l’avvio dell’amministrazione se l’ad dell’azienda (Lucia Morselli) non ne fa richiesta entro 15 giorni dalla missiva.
Durante la scorsa settimana si era molto parlato di una lettera di Mittal al governo per riaprire il dialogo in extremis, ma alla luce della giornata di ieri, come detto, si può ripartire da una certezza: l’accordo lo possiamo escludere dal novero delle possibilità.






