«L’organizzazione della XX edizione dei Giochi del Mediterraneo 2026 rappresenta una priorità per il governo che, fin dal suo insediamento, ha immediatamente attivato una ricognizione dello stato degli interventi e delle opere connesse»: lo hanno scritto giovedì i ministri Raffaele Fitto e Andrea Abodi in una lettera indirizzata al comitato organizzatore messo su da Michele Emiliano. Per sua stessa ammissione «i Giochi del Mediterraneo se li è inventati la Regione Puglia», unica candidata all’edizione del 2026. Ma per cui batte cassa al governo. Infatti se nel dossier di candidatura era previsto che Regione e Comuni dovessero contribuire con 142 milioni di euro, a fronte dei 120 statali, oggi Emiliano ne chiede 150 al governo. E anche per la parte di sua competenza aspetta che sia Roma a girarglieli: «Nel momento in cui il governo metterà a disposizione i fondi Fsc», ha detto Emiliano, «noi metteremo 50 milioni a disposizione dei Giochi del Mediterraneo. Fondi che il governo deve solo girare alla Puglia e noi li metteremo a disposizione dei Giochi». Insomma il gioco delle tre carte, e paga sempre «pantalone». Come per i 25 milioni che il governatore ha sprecato per l’ospedale Covid in Fiera del Levante, per cui ora chiede i soldi dello smantellamento alla Protezione civile nazionale.
Nel frattempo, come scrivono i due ministri «si è ancora in attesa della puntuale rendicontazione dei 4,5 milioni di euro statali già destinati al comitato organizzatore dei predetti Giochi per il triennio 2021-2023». La ricognizione ha restituito al governo un quadro preoccupante, caratterizzato da un forte ritardo, con particolare riferimento ai criteri che hanno determinato la definizione del masterplan, il quadro finanziario e i cronoprogrammi degli interventi.
Un simile ritardo, scrivono Fitto e Abodi, desta preoccupazione soprattutto alla luce del fatto che il comitato organizzatore è operativo da quasi tre anni. Per questo motivo i senatori di Fratelli d’Italia, con l’intento di salvare la manifestazione, hanno presentato un emendamento al dl Pnrr in discussione al Senato per commissariare i Giochi, così da velocizzarne l’iter esattamente come per le Olimpiadi di Cortina. Emendamento che è stato accolto dal governo e quindi inserito nel decreto, che dovrebbe arrivare in aula a Palazzo Madama subito dopo Pasqua.
A questo punto però Emiliano ha deciso di sfidare l’esecutivo: «Il governo italiano non ha compreso che il comitato organizzatore di un evento sportivo internazionale non è commissariabile... Ogni iniziativa relativa alle infrastrutture per la realizzazione dei Giochi del Mediterraneo non può che pervenire dalle scelte del comitato organizzatore. Soprattutto, avevamo sollecitato il governo a liberare subito gli iniziali fondi e a fornire riscontro urgente alla Regione Puglia sulla dotazione Fsc». Insomma, un’altra richiesta di fondi all’esecutivo. «Non è la manifestazione che gli interessa, ma la gestione del potere», ha commentato il senatore Fdi Giovanni Maiorano.
Ora magari impugnerà il commissariamento dinanzi al Tar, come ha fatto contro il Tap e l’Ilva, ricorsi che l’ex pm ha perso. Facendo solo perdere tempo e mettendo a rischio la manifestazione, visti i ritardi già esistenti. Sarebbe una figuraccia come quella fatta da Emiliano quando ha presentato di fronte al comitato internazionale per i Giochi il video di presentazione del nuovo stadio di Taranto, nel quale però per errore erano state inserite delle immagini di Otranto.
«La soluzione commissariale è garanzia di certezza dei tempi e di efficienza nella gestione dell’organizzazione dell’evento, e non rappresenta certo una novità nell’ambito dei Giochi del Mediterraneo, essendo stata sperimentata già in occasione della XVI edizione tenutasi a Pescara nel 2009» hanno scritto Fitto e Abodi. Precisando che il commissario straordinario opererà in in sintonia con il comitato organizzatore, che non verrà cancellato dal governo. Ma il sindaco di Taranto, dem, delfino di Emiliano e presidente del comitato organizzatore, ha minacciato che in caso di commissariamento farà saltare i tutto portandosi via il pallone. Mentre si affretta a concludere l’iter per un nuovo stadio da 80 milioni di euro non previsto nel dossier di candidatura, per una concessione di 90 anni a una società, la Red sport srl, nata nel 2022, inattiva, e con un capitale di 10.000 euro.
Contro il governo anche Francesco Boccia, fido di Emiliano e ora mentore di Elly Schlein, secondo il quale il commissariamento «è la prova della bulimia di potere che anima questa maggioranza». Dopo che il Pd ha occupato tutto l’occupabile. Ad esempio per uno dei ruoli a contratto per i Giochi, su milioni di italiani, l’unico candidato è stato Mattia Giorno, attuale assessore ai Lavori pubblici in quota Pd al Comune di Taranto. Ma nonostante tutto Boccia ha insistito: «Questo governo continua nella folle corsa all’accentramento tra l’altro commissariando anche il comitato organizzatore che agisce a titolo gratuito». Forse non sa che il direttore generale del comitato organizzatore, oltre allo stipendio da alto dirigente regionale, ha preso un rimborso spese per i Giochi di 45.000 euro l’anno.
Il 13 marzo Rete ferroviaria italiana (Rfi) ha firmato un affidamento diretto per una commessa da 922 milioni di euro a Jindal, l’azienda siderurgica indiana che dal 2018 ha preso l’acciaieria di Piombino consegnandone la gestione al vicepresidente Marco Carrai. A novembre ne aveva vinta un’altra da 390 milioni.
L’affidamento diretto è stato possibile in forza di una clausola riservata alle aziende di aree di crisi complessa, diversamente sarebbe andato a gara internazionale nonostante Piombino sia l’unica acciaieria in Italia che fa rotaie.
Ma, secondo i sindacati, non c’è alcuna garanzia che Jindal faccia le rotaie di quella commessa in Italia. «Se non revampa la linea di produzione binari, quel lotto a Piombino non lo può neanche fare, e lo porterà in India», dice Valerio D’Alò, segretario della Fim Cisl. Lo stabilimento di Piombino infatti al momento è in stato di obsolescenza e il treno rotaie è fermo. Mentre a gennaio scorso è stata firmata al ministero del Lavoro l’ennesima proroga di cassa integrazione per un altro anno per 1.428 lavoratori, in Cig da 10 anni. La cig costerà alle casse dello stato altri 21 milioni di euro, mentre Jindal non ha mai fatto nessun investimento.
Jindal - quando arrivò a Piombino nel 2018 - firmò un accordo di programma con le istituzioni con il quale si impegnava a investire 500.000 euro per realizzare un forno elettrico. L’afo si è spento, ma l’azienda che Michele Emiliano voleva trasformasse tutta Ilva in forni elettrici a gas, in 5 anni a Piombino non è riuscita a farne neppure uno, e quell’accordo di programma firmato con le istituzioni non è mai stato rispettato. Ma ora il Pnrr prevede tantissime nuove rotaie, e Piombino è l’unica a farle. Così, a maggio 2022, i sindacati in un’assemblea partecipata da politici di ogni colore, si erano fatti promettere da tutti gli enti che avrebbero vincolato le eventuali commesse a un addendum che impegnasse l’azienda a farli in Italia, e a presentare un piano industriale col forno elettrico. Ora però per vie traverse hanno scoperto che la commessa è già stata assegnata, senza il promesso addendum, e senza che nessuna istituzione, dal ministero al sindaco, ne sapesse niente.
Quando la settimana scorsa i metalmeccanici si sono recati al Mimit per consegnare una lettera al ministro, il consulente di Adolfo Urso che li ha ricevuti, Giampietro Castano, ha dovuto chiamare in loro presenza Rfi per sapere se era vera la notizia della commessa che il ministero aveva appreso in quel momento dai sindacati. Ieri però in un’intervista a Il Tirreno, Marco Carrai, confermando la novità, ha detto che è vincolata a un nuovo accordo di programma che verrà firmato entro l’estate. Mentre gli investimenti sono legati a un programma di sviluppo con Invitalia da far partire nella primavera 2024.
Il ministero, contattato da La Verità, ci ha annunciato che proprio oggi è convocata una riunione con tutte le istituzioni. Secondo fonti ministeriali manca ancora un piano industriale serio così come merita Piombino. L’azienda ha presentato sinora solo un piano limitato al laminatoio con investimenti di 120/150 milioni (che sicuramente chiederà ad Invitalia) ma, da parte del ministero, manca proprio la parte qualificante sui forni elettrici, senza la quale per il governo non si può definire un accordo di programma.«Stiamo sollecitando precisi impegni dell’azienda in merito agli investimenti sui forni elettrici» ci fanno sapere dal Mimit.
Questa notizia potrebbe soddisfare la Fim. Il segretario Valerio D’alò, ci aveva detto che per i metalmeccanici della Cisl fondamentale è vincolare la commessa alla realizzazione del forno, cosi da garantire tutto il ciclo dalla produzione alla finitura, e quindi il ritorno alla piena occupazione. Ma, come ricorda D’Alò, «scriverlo solo nei piani non basta, il governo deve farli rispettare, perché anche nell’accordo del 2018 era previsto il forno, ma non l’anno mai realizzato. E poi quello del 2018 era un accordo a zero esuberi. Adesso che ricaduta ha?», si chiede il sindacalista.
Ancora più drastico è Lorenzo Fusco, della Uilm: «A noi ci hanno detto che il forno elettrico dovrà andare con il preridotto (dri) che faranno a Taranto, se è così non lo vedremo mai». In effetti se gli acciaieri del nord hanno sempre accettato un investimento pubblico su Ilva, unico impianto a ciclo integrale che quindi mantiene tutta la filiera, difficilmente accetterebbero altrettanto per un forno elettrico concorrenziale che gli toglierebbe il rottame, che già scarseggia. Solo se fosse alimentato col dri potrebbero accettarlo, ma l’impianto a Taranto non lo vedremo mai.
Forse anche per questo si è chiusa con un nulla di fatto la due diligence che aveva costruito il governo Conte con Invitalia. Come pure nello stesso modo è finita quella con Arvedi. Il governo (non solo quello in carica) a più riprese ha promesso un piano nazionale dell’acciaio, che non è ancora arrivato.
Il Comitato di redazione del Sole 24 Ore si è dissociato ieri dalle quattro pagine di redazionale sulla Cina pubblicate nell’edizione di domenica: «Una propaganda che giudichiamo inqualificabile, visto che mette le pagine del giornale a disposizione di un sistema economico e di uno Stato che si caratterizzano per l’assenza degli elementi base di una democrazia. In altre parole, il Sole si è prestato a battere la grancassa per una dittatura».
Che l’editore avesse abbracciato la linea filocinese lo avevamo capito anche dalla risposta che il presidente di Confindustria Taranto, Salvatore Toma, ha dato in merito all’inchiesta che La Verità porta avanti da tempo rispetto alle mire cinesi sul porto di Taranto. «Secondo me si tratta di una strumentalizzazione pura e spicciola. Non c’è un pericolo cinese per il porto di Taranto», ha detto Toma riguardo alla notizia da noi diffusa degli yard che l’autorità portuale di Taranto ha assegnato a Progetto Internazionale 39, detenuta al 33% dal cinese Gao Shuai, e a Ferretti, in mano a Weichai.
Secondo il presidente di Confindustria Taranto, la presenza di Progetto 39 porterebbe a Taranto «traffico di merci e business. Ovviamente etico e sostenibile, questo è scontato». La famosa sostenibilità dei cinesi, verrebbe da dire. «Un progetto», secondo Toma, «che potrebbe sfruttare anche la zona franca del porto, oltre alla zona economica speciale», perché non solo facciamo venire i cinesi, ma li agevoliamo anche, come per Ferretti che, a fronte di 62 milioni di investimento privato, 136 ne metterà il pubblico. «In questa società, Progetto Internazionale 39», prosegue Confindustria Taranto, «c’è un 33% di quote di un socio cinese che, tra l’altro, vive a Milano. Poi io non sono un agente segreto. So soltanto che questo progetto è nato alcuni anni fa». Esattamente nel 2019, durante il governo Conte bis, nelle mani del sottosegretario tarantino Mario Turco, che portò mezzo governo tra 5 stelle e Pd a dare il benvenuto a Ferretti. Con grande apprezzamento del guru Beppe Grillo, che da tempo sostiene che la Via della Seta debba passare da Taranto.
A luglio 2021, quando il presidente nazionale di Confindustria, Carlo Bonomi, andò in Puglia, disse, di fronte a Emiliano, «l’acciaio da ciclo integrato serve alla seconda manifattura d’Europa. Noi non evitiamo di parlare di Taranto, ma ne parliamo con con chi ci parla di futuro, non con chi ci parla di allevamenti di cozze».
Nel frattempo nell’associazione a Taranto è successo di tutto e a inizio anno 56 aziende metalmeccaniche e 30 dei trasporti hanno lasciato Confindustria, formando un loro comitato, che è ormai convocato ufficialmente al tavolo Ilva del ministro Adolfo Urso. Il motivo della rottura è proprio il totale schiacciamento della sezione locale guidata da Toma sulla linea di Emiliano e del sindaco dem di Taranto, Rinaldo Melucci, che Ilva la vorrebbero chiudere, puntando su una diversificazione che nonostante gli oltre 2 miliardi messi dal governo sulla città (oltre quelli per Ilva), ancora non si è vista: Taranto è la prima città d’Italia per numero di cassintegrati, che Confindustria non riesce a riassorbire. E così mentre le aziende del nuovo comitato hanno criticato lo sciopero di Emiliano e Melucci contro il decreto Urso, che stanziava 700 milioni e ripristinava l’immunità penale, Confindustria ha difeso i due giannizzeri in piazza contro il governo. E oggi Toma parla come il sindaco di un accordo di programma, che serve per far chiudere Ilva.
Per ricucire lo strappo (senza riuscirci) il 3 febbraio è andato a Taranto direttamente il presidente Bonomi, in un’assemblea in cui c’erano tutti tranne la prima azienda di Taranto: Acciaierie d’Italia.
Ma rispetto a due anni prima la linea di Bonomi è cambiata: «Ci piacerebbe rappresentare un’industria della Puglia che non è solo Ilva. Capisco che mediaticamente oggi si parli di Ilva, ma la Puglia è tanto altro: agroalimentare, farmaceutica, turismo». Faremo mangiare le cozze ai cinesi.




