Come anticipato nelle scorse settimane dalla Verità la Procura di Roma ha dato il via alla notifica gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari nella cosiddetta operazione Minerva, la stessa che, in un filone non ancora ufficialmente definito, vede tra gli iscritti anche il nome dell'ex capo di Stato maggiore della Difesa, generale Enzo Vecciarelli. Ieri infatti, sono stati notificati gli avvisi agli indagati di due dei quattro filoni d'inchiesta aperti dai magistrati capitolini, entrambi firmati dal sostituto procuratore Carlo Villani. L'indagine era stata resa nota nel luglio dello scorso anno quando vennero applicate trentuno misure cautelari. Le investigazioni condotte dalla Polizia di Stato, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Ielo (che ha apposto il visto sui due avvisi) e dal pm Antonio Clemente, svelavano un sistema di tangenti e corruzione negli appalti per le forniture a Esercito, Carabinieri, Aeronautica e Guardia di Finanza per un valore complessivo di 18,5 milioni di euro. Nella richiesta di misure cautelari erano indicati i nomi di 49 persone indagate e di 15 ditte, accusati a vario titolo di corruzione, frode nelle forniture e turbativa d'asta. A ricevere il primo avviso di conclusione, indirizzato a sei indagati e una società, sono stati il brigadiere capo della Guardia di finanza Vincenzo Borreca, l'imprenditore Claudio De Carolis (amministratore di fatto della Fo.mi.sa, società destinataria dell'avviso)e la moglie Veronica Sabatini, Fabio Piedimonte (considerato dai pm amministratore di fatto della La.bo.conf.) e Fabrizio Vuerich (titolare della Fireblade), tutti indagati per la fornitura di gradi tubolari in velcro per la divise della finanza. Lo stesso atto è stato notificato anche a Paolo Lucarelli (titolare della P.o.m, subappaltatrice della La.bo.conf), indagato insieme a Piedimonte e Borreca per un'altra fornitura, stavolta di distintivi di grado. Nell'ipotesi della Procura i beni forniti sarebbero «diversi da quelli pattuiti, per origine qualità e provenienza», con i gradi forniti dalla La.bo.conf provenienti «dal mercato cinese», mentre il capitolato di gara prevedeva l'obbligo di essere in possesso sia dei macchinari per la produzione, sia della certificazione di qualità e il rispetto delle normative in materia di sicurezza «eco-tossicologica». L'altro avviso riguarda lo stesso tipo di forniture, ma destinata all'Esercito Italiano e ai Carabinieri. Le indagini della procura di Roma in questo caso riguardavano dieci persone e una società (la La.bo.conf.). Oltre a Lucarelli e Piedimonte, indagati anche in questo filone, i nomi sono quelli di: Luigi Boninsegna, Antonio e Pier Niccolò Ciacci (titolari della Milplast, subappaltatrice della La.bo.conf.), il tenente colonello dell'Esercito Gianni Cicala, il maggiore dei Carabinieri Pasqualino Clemente, Melchiorre Giancone, Massimo Pardo (entrambi colonnelli dell'Esercito) e Francesco Pasquale, tenente colonnello dell'Esercito. In questo filone, ai reati già noti si aggiunge la rivelazione di segreto d'ufficio, contestata a Pardo, che nella sua qualità di pubblico ufficiale avrebbe rivelato, tramite un intermediario, a Piedimonte notizie «su un controllo a sorpresa presso la sua azienda, aggiudicataria dell'appalto per la fornitura dei distintivi di grado». Secondo l'accusa il materiale destinato all'Esercito non sarebbe stato prodotto negli stabilimenti della La.bo.conf, ma «a seguito di illegittimo subappalto» in quella dei Ciacci e in stabilimenti in Albania e Cina, mentre i gradi per le divise dei Carabinieri sarebbero stati prodotti dalla società di Lucarelli. I nomi di molti dei destinatari dei due avvisi si trovano anche tra quelli oggetto di misure cautelari nel luglio scorso. Borreca era uno dei tre militari finititi ai domiciliari, mentre Melchiorre venne sospeso dal servizio. Ai Ciacci, a De Carolis e alla moglie, a Lucarelli e Vuerich era stato applicato il divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione e quello di esercitare attività imprenditoriali e uffici direttivi di persone giuridiche ed imprese.
Al commissario straordinario per l'emergenza Covid, Francesco Paolo Figliuolo, sessantenne potentino, oltre ai mille problemi legati alle vaccinazioni e alle mascherine «molto pericolose» su cui da giorni non dà risposte, mancava solo l'iscrizione sul registro degli indagati con l'accusa di corruzione. L'inchiesta è quella che, come rivelato dalla Verità, rischia di terremotare i vertici delle forze armate e che ha già costretto il capo di Stato maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli a sottoporsi a due interrogatori e a presentare quattro memorie.
Gli «untori» della vicenda, se possiamo chiamarli così, sono due imprenditori di Biella, Eugenio Guzzi e Rosa Lovero, che da anni regalano divise e abiti civili a generali e alti ufficiali di primo piano per ottenere per i loro prodotti tessili commesse dalle forze armate. Tra i beneficiari dei loro omaggi anche Figliuolo che si è ritrovato così ieri sulla prima pagina del Fatto quotidiano in veste di indagato. Ma il giornale diretto da Marco Travaglio ha anche specificato che l'iscrizione di Figliuolo «è un atto dovuto, a sua tutela» e che «da quel poco che trapela il generale non è mai finito direttamente nelle intercettazioni, ma sarebbero altri a far riferimento a lui nell'ambito di circostanze che riguardano però un periodo precedente alla sua nomina da parte del governo Draghi». Per concludere così: «Nelle prossime settimane, la Procura di Roma depositerà una richiesta di archiviazione, nel frattempo però il commissario risulta ancora iscritto».
La verità è che a inguaiare Vecciarelli e Figliuolo è stata l'intraprendenza dei coniugi Guzzi che spediscono a destra e a manca i loro prodotti alla ricerca, come ammette il loro difensore Lorenzo Contrada, di influencer a loro insaputa. Infatti quando personaggi noti decidono di indossare un loro capo, finiscono - pare - dritti dritti nei depliant della ditta. «Vedete come sta bene Figliuolo qua? È un vestito che facciamo noi», è il possibile canovaccio dei venditori. E adesso la difesa è pronta a portare i pieghevoli in Procura per far comprendere lo spirito con cui vengono fatti i regali. Sembra, infatti, che quando i rappresentanti dell'azienda propongono il campionario, dalle valigette esca la foto dell'ufficiale famoso in ghingheri. Ma, ci tiene a precisare Contrada , questa attività non può essere considerata una tangente, anche perché gli abiti sono messi a bilancio come omaggi promozionali.
Non deve vederla così l'imprenditrice che, dopo essere stata arrestata per corruzione, ha denunciato agli inquirenti romani il modus operandi della ditta biellese capace di vincere appalti e ottenere affidamenti a colpi di abiti sartoriali e maglioncini di cachemire. Gli investigatori della Squadra mobile di Roma sono entrati così, nell'aprile scorso, con un mandato di perquisizione dentro alla Technical tex e alla Technical trade dei Guzzi e hanno scoperto la vagonata di abiti inviati ai vertici del mondo militare. Tra questi anche quelli al commissario straordinario.
Gli imprenditori hanno riferito al proprio avvocato di due omaggi. Il primo è un abito civile che Figliuolo avrebbe ricevuto ai tempi in cui era capo ufficio generale del capo di Stato maggiore della Difesa Claudio Graziano. Contrada spiega che si è trattato di un dono di riconoscenza: «Quando i Guzzi lo hanno conosciuto 5 anni fa, siccome la mamma della Lovero è lucana come Figliuolo, si era creato un rapporto d'amicizia e lui dalla Basilicata ha portato ai miei due assistiti una confezione con dentro ogni ben di Dio, formaggi e salumi, un regalo molto importante. E i Guzzi hanno deciso di ricambiare, all'interno di questo rapporto d'amicizia, con un abito per mostrare al generale come lavorano». Quindi la coppia avrebbe approfittato di quella strenna alimentare per far conoscere i propri prodotti. I due coniugi hanno parlato anche di un secondo dono, fatto «cinque anni dopo», molto probabilmente quando Figliuolo era già commissario, ma la Technical trade non era ancora stata perquisita. Si tratta «di una divisa fatta con una materiale molto tecnico che in Italia realizzano solo due ditte» continua Contrada. «A vederla è una divisa con giacca che si accompagna con la cravatta in modo perfetto, ma in realtà è molto comoda ed elasticizzata, un vero capo militare. Se fai un'intervista sei molto elegante, ma non tira su gomiti e ginocchia. Unisce la comodità di una tuta con la formalità di un abito», è lo spot del legale. I Guzzi in cambio di quei due abiti non avrebbero ottenuto nessun favore. E questo sembra averlo verificato anche la Procura. Salvo il fatto di poter inserire nel proprio campionario un generalissimo come Figliuolo: «Per loro avere un personaggio del genere che indossa una divisa della Technical è il miglior modo per reclamizzare i propri articoli. È questo il famoso omaggio promozionale»,
La Lovero ha anche spiegato al suo legale che «molti dicono di no» a questo tipo di omaggi perché temono di essere sfruttati per «quella che di fatto è una pubblicità occulta». Continua l'avvocato: «Questi generali non sono corrotti, ma amici che, in un certo senso, vengono utilizzati come testimonial». Insomma i generali non verrebbero corrotti, ma usati, lasciando la questione nel limbo del non detto, per vendere vestiti. «Intorno a Figliuolo girano milioni di euro tra vaccini e appalti legati all'emergenza, si figuri se si rovina per un vestito. Non è neanche ipotizzabile» conclude Contrada.
Al di là dell'operazione Minerva, la carriera del capo di Stato maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli è stata toccata anche dalla supervisione di un'azienda, produttrice di velivoli e droni militari. È la storia di Piaggio Aerospace, un tempo importante realtà del settore aeronautico, da tre anni in amministrazione straordinaria dopo una serie di interventi non andati a buon fine da parte dei governi Renzi e Gentiloni. Basti pensare che nel 2018, prima di portare i libri in tribunale, Piaggio aveva accumulato debiti per oltre 600 milioni di euro. E vale la pena ricordare che uno dei droni prodotti, il prototipo del P.1HH, finirà il 31 maggio del 2016 in mare a largo di Trapani durante un'esercitazione: a distanza di cinque anni non si conoscono ancora i motivi della caduta.
Pochi giorni fa (il 21 ottobre) i lavoratori dell'azienda, 900 persone divisi tra gli stabilimenti di Genova e Villanova di Albenga, sono tornati a chiedere chiarezza anche all'esecutivo di Mario Draghi. Da anni, infatti, si parla di una possibile cessione a investitori esteri (o di uno spezzatino cedendo la parte motori), ma in realtà appaiono più slogan a effetto per prendere tempo piuttosto che offerte concrete. È il 2014 l'anno in cui i destini di Piaggio Aerospace e quelli di Vecciarelli si incrociano. Durante quell'anno, infatti, il governo di Matteo Renzi stringe importanti accordi industriali con gli Emirati Arabi Uniti che saranno la base per rendere oggi il senatore di Italia viva uno degli interlocutori delle monarchie del Golfo. La compagnia emiratina Etihad acquista il 49% di Alitalia, mentre il fondo Mubadala sale nell'azionariato di Piaggio Aerospace, per arrivare nel 2015 a possederne il 100%.
Renzi promette il rilancio dell'azienda, su cui l'esecutivo può sempre far valere golden power. Non a caso il ministro della Difesa Roberta Pinotti (in questi mesi alle grandi manovre in vista del voto per il Quirinale) decide di affidare al generale Vecciarelli la delega sulla società. Tanto che il pilota di Colleferro sarà anche nominato co-presidente in un comitato bilaterale con Homaid Al Shimmari, amministratore delegato di Mubadala. L'obiettivo del comitato era quello di controllare l'andamento dei programmi di Piaggio e nello specifico quelli legati al drone P.1HH, finito poi in mare. Vecciarelli ha avuto sempre un ruolo di primo piano su Piaggio. A sostenerlo un'interrogazione al Senato dell'estate del 2016, nella quale i senatori 5 Stelle Santangelo e Marton chiedono i motivi della caduta del drone costato «180 milioni di euro». In più scrivono alla Pinotti se il drone precipitato sia l'unico esemplare […] per definire l'impegno del capo di Stato maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli, in un'attività di supervisione e cooperazione del progetto stesso».
In realtà quello partito dalla base dell'aeronautica militare di Trapani-Birgi (e poi crollato) non era l'unico drone. Ce ne era un altro che proprio quel giorno, il 31 maggio, viene imbarcato e trasportato negli Emirati Arabi Uniti a bordo di un Antonov russo. Anche su quest'ultima vicenda, negli anni, è calata una coltre di nebbia. Sta di fatto che con i debiti sempre più alti, per correre ai ripari, prima della caduta del governo Gentiloni (inizio del 2018), il ministro Pinotti prova a far approvare un decreto che prevedeva l'acquisto da parte della nostra arma azzurra di dieci sistemi P.2HH a fronte del versamento di 766 milioni di euro. Peccato che i P.2HH non ci fossero neppure e che il ministro subentrante, Elisabetta Trenta, boccerà l'iniziativa. Alla fine del 2018 si arriverà alla cifra di 618,8 milioni di euro di debito. Senza contare l'ombra degli scandali sull'azienda, dopo le denunce via lettera dell'ex amministratore delegato Carlo Logli contro la negligenza dell'ex presidente Alberto Galassi, ora numero uno di Ferretti group. Pure su questi episodi la nebbia è fittissima.
Ma se in America il capo di Stato maggiore dell'esercito risultasse indagato, la cosa potrebbe essere taciuta o nascosta da Wall Street Journal, Washington Post e New York Times? Sarebbe impensabile. O se a Londra venisse fuori la notizia di un'inchiesta a carico del Chief of the general staff, cioè del capo di Stato maggiore del British Army, in quel caso Times, Telegraph e Guardian (anche qui citiamo testate di orientamento politico e culturale tra loro opposto) potrebbero censurare e occultare tutto? Sarebbe incredibile, anzi unbelievable.
In qualunque Paese dell'Occidente avanzato, davanti a una notizia di questo tipo, i media scritti e audiovisivi non avrebbero un solo istante di esitazione a pubblicare tutto con massima evidenza, ad aprire la discussione, a offrire all'opinione pubblica il maggior numero possibile di elementi di conoscenza. Di più: partirebbe una gara tra i giornalisti investigativi di punta delle diverse testate per aggiungere dettagli, per superarsi reciprocamente nel dare seguito all'inchiesta, per costringere i concorrenti a «bucare» nuovi e scottanti particolari. Come si dice in questi casi: ci sarebbe una corsa per «coprire» la storia, nel senso di non lasciarla giornalisticamente scoperta.
E qui da noi invece? Pure nel nostro caso si può parlare di «copertura», ma nel senso - diametralmente opposto - di un enorme lenzuolo, di un gigantesco velo (non sapremmo dire quanto «pietoso») steso per impedire che il fatto sia materialmente visto da lettori e telespettatori.
Ricapitoliamo. La Verità, per tre giorni consecutivi (oggi è il terzo giorno dell'inchiesta), pubblica la notizia, documentata e circostanziata, dell'inchiesta in corso sul capo delle Forze armate italiane, il generale Enzo Vecciarelli. Per sovrammercato, l'effettiva esistenza dell'indagine è stata confermata dall'interessato, che naturalmente ha fornito - com'è sacrosanto dal suo punto di vista - la sua versione e la sua interpretazione dei fatti, ovviamente sostenendo la linearità dei suoi comportamenti.
Dov'è l'anomalia, allora? Nel non voluto «monopolio» che tuttora La Verità vanta sul lato giornalistico dell'inchiesta. A meno di nostri errori e omissioni, la censura, altrove, è stata infatti pressoché generale e sistematica. Nulla, neanche una proverbiale «breve», è comparsa sulla stragrande maggioranza delle testate, ad eccezione di uno spazio molto contenuto sul Messaggero e di uno ancora più ristretto sul Corriere della sera. Anche dotandosi di una potentissima lente di ingrandimento o di un microscopio ad alta precisione, l'eventuale curiosità dei lettori sarebbe rimasta delusa.
Tutto ciò è forse spiegabile, ma non per questo può risultare giustificabile. Troppe volte abbiamo sentito ripetere la battuta secondo cui i media dovrebbero essere cani da guardia a favore del cittadino rispetto al potere costituito e non cani da compagnia rispetto ai potenti in carica. Giudichi ciascuno cosa stia succedendo in queste ore: con simpatia per ogni tipo di quadrupede, nel nostro caso il rischio è di non vedere nemmeno l'ombra di un pastore tedesco, ma solo una lunga fila di chihuahua o di cani da grembo.
Né si tratta di evocare il garantismo contro il giustizialismo. Si può, anzi si deve essere garantisti; si può, anzi si deve ricordare il principio sacro della presunzione di innocenza di qualunque cittadino fino all'eventuale condanna definitiva. Ma ciò non può esentare i media dal dare le notizie, sia pure con la cautela e le accortezze più appropriate. Senza dire che, per moltissime delle testate in edicola, non ricordiamo certo trattamenti in guanti bianchi nei confronti di altri indagati: semmai, senza alcun riguardo garantista, ricordiamo «sentenze mediatiche» emesse istantaneamente e senza appello. Lungi da noi sollecitare comportamenti di questo tipo: ma il doppio standard (feroci con alcuni, silenziosi e ossequiosi verso altri) è così evidente da risultare accecante.
E la contraddizione è ancora più stridente se consideriamo i fiumi di inchiostro spesi, da parte dell'informazione «ufficiale», per un verso contro le testate alternative al mainstream e per altro verso contro i media online, tra crociate anti fake news, comitati di esperti (veri o presunti), e lezioni impartite (più o meno ex cathedra, con sussiego e perentorietà, sempre con aria sacerdotale e dogmatica) da vari «pontefici» del giornalismo più paludato. E ora che si fa, da quelle parti? Si nascondono le notizie scomode?
Verrà il giorno in cui, sine ira et studio, occorrerà mettere in fila sia le notizie nascoste sia le campagne di sistematica disinformazione condotte in questi anni proprio dalle corazzate dell'informazione, dai media verso cui il cittadino era naturalmente indotto ad avere fiducia e rispetto: sulle banche, sull'Europa, contro Brexit, solo per fare tre esempi. Occorrerà aggiungere anche un ampio capitolo sulla copertura selettiva e intermittente delle inchieste giudiziarie.
Blitz in commissione prima dell’addio di Vecciarelli. Promozione per il suo braccio destro
Non ci sono solo le inchieste della magistratura, a preoccupare il mondo delle nostre forze armate sono anche gli imminenti cambi dei vertici. O meglio le modalità con cui stanno avvenendo. Il capo di Stato maggiore della Difesa Enzo Vecciarelli lascerà il 5 novembre, così come quello dell'aeronautica Alberto Rosso (che è stato successore dello stesso Vecciarelli). L'addio di due così importanti generali di squadra aerea avrà di sicuro ripercussioni sulle prime e seconde linee dell'arma azzurra. Sono tutti molto vicini a Vecciarelli, cresciuti con lui negli ultimi 10 anni di storia dell'aeronautica italiana. Eppure, il comandante di nomine se ne intende. Nel passato del generale di squadra aerea nato a Colleferro, si registra una lunga carriera nell'arma azzurra, coronata nel 2016 con la nomina a capo di Stato maggiore dell'aeronautica, grazie anche al buon rapporto politico con Roberta Pinotti, ex ministro della Difesa durante i governi Renzi e Gentiloni e tra i candidati per la corsa al Quirinale. Poi nel novembre del 2018 è diventato capo di Stato maggiore della Difesa con l'ex ministro Elisabetta Trenta. E non va dimenticato che negli ultimi anni Vecciarelli ha seguito diverse importanti operazioni economiche, in particolare con gli Emirati Arabi Uniti. Ha avuto per molto tempo la delega su Piaggio Aerospace, l'azienda ligure produttrice di droni in amministrazione straordinaria da ormai 3 anni, dopo un buco di bilancio da oltre 600 milioni di euro. Lo scorso anno, a luglio, quando sui giornali si incominciò a parlare dell'Operazione Minerva della Procura di Roma, ci fu qualche sussulto nei circoli romani dove si ritrovano ufficiali e sottufficiali. Si incominciò a parlare di possibili sospensioni in vista, espressamente richieste dall'ordinanza di custodia cautelare. Ma non è accaduto nulla, anzi c'è chi ha persino fatto passi avanti nel corpo di commissariato aeronautico. Rosso non ha preso provvedimenti. Tanto che uno degli indagati già nel luglio del 2020, Giuseppe Midili (capo del servizio di commissariato ed amministrazione del comando logistico dell'arma azzurra), si è piazzato come secondo nelle valutazioni di fine anno e con buona probabilità potrebbe essere promosso. All'epoca le accuse variavano dall'associazione a delinquere alla corruzione, fino alla turbativa d'asta e all'evasione fiscale. In uno dei passaggi dell'ordinanza di custodia cautelare dello scorso anno, è proprio Midili a citare il generale Vecciarelli, perché in occasione della nomina nel novembre del 2018 vorrebbe regalargli un set completo di gradi da Stato maggiore della Difesa. Per farlo si mette d'accordo con Fabio Piedimonte della Laboconf, piccola azienda con sede a Roma specializzata in abbigliamento e accessori militari che produce gran parte del proprio listino in Cina. Ma è sulle attuali nomine che il capo di Stato maggiore uscente ha impresso una anomala accelerazione. Contrariamente alla prassi i ruolini, i libretti che contengono le valutazioni di ciascun ufficiale, quest'anno sono stati aggiornati il 15 ottobre. Di solito la scadenza è la fine di ottobre. L'anticipazione rispetto al consueto calendario ha permesso un blitz finale. La commissione di valutazione per gli avanzamenti di carriera è stata fissata per domani. Al contrario se le valutazioni fossero state consegnate a fine mese la commissione si sarebbe riunita a partire dalla seconda settimana di novembre e a presiederla sarebbe stato il nuovo capo di Stato maggiore, l'ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. Domani toccherà invece a Vecciarelli e stando alle indiscrezione metterà sul tavolo una promozione (con annessa nomina) estremamente divisiva. Il suo attuale capo di gabinetto, il capo ufficio generale del capo di Stato maggiore della Difesa, Francesco Presicce, potrebbe essere chiamato a ricoprire il ruolo di vice di Luciano Portolano da poco incaricato di guidare Segredifesa, il comando che si occupa dell'acquisto di armamenti. Presicce, il cui nome era salito anche agli onori delle cronache quando il governo Conte si occupò delle nomine dei vice direttori dell'Aise, è più volte finito sul tavolo delle commissioni per l'avanzamento di carriera. Non ha mai ottenuto l'incarico del comando di Squadra aerea non avendo ricevuto il semaforo verde da parte degli altri generali. Già nel 2020 Vecciarelli ha ricevuto missive personali affinché rivedesse le sue posizioni. Adesso a pochi giorni dall'addio, invece, vorrebbe riproporre per Presicce l'incarico e in sede di commissione la promozione al gradino superiore. Il numero due degli armamenti dovrebbe indossare la spallina da comandante di squadra aerea o similare in caso di altre forze armate. Vedremo che succederà domani. Promozione? E quindi successivo incarico? Molti osservatori si chiedono perché correre tanto per chiudere la partita delle promozioni prima dell'arrivo di Cavo Dragone. La cortesia vorrebbe un diverso passaggio di consegne.







