Tra le tante curiosità che riguardano l'universo della cucina non ci sono soltanto quelle legate ai piatti. Ci sono anche vicende sorprendenti (e un po' folli) come quella che raccontiamo in questa puntata di FoodTalk.
Manfredi Nicolò Maretti
L’editore gourmand Manfredi Nicolò Maretti: «Un volume cataloga tutti gli stellati dal 1959. Non è puro enciclopedismo, vi si può leggere l’evoluzione della nostra cucina: da chi ha toccato la vetta per poco a chi dura in cima dagli esordi. È un succulento calendario da collezione».
E le stelle stanno a mangiare. Perdonerà sir Archibald Cronin l’ennesimo abuso al suo romanzo e l’ennesima violenza alla lingua italiana. Ha tolto d’impaccio generazioni di titolisti. Ma qui ci vuole. Si ragiona non di un tomino (da fare in griglia), ma di un tomo di 1.184 pagine - copertine in similpelle e nastrini segnapagina esclusi - che viene via per 55 euro inflazione compresa dove un giovane autore-editore ha dato corpo a una sua incontenibile passione. Tanto è pervasiva che non ha usato parole, ma numeri. Questo è un libro fatto di dati e di date, perciò memorabile. È denso come il puré di Joel Robuchon, spesso come il piccione di Alain Ducasse, prezioso come il riso giallo in foglia d’oro di Gualtiero Marchesi, profumato di ricordanze come la pesca melba di Auguste Escoffier, raffinatamente popolare come la passatina di ceci e code di mazzancolle di Fulvio Pierangelini, invitante come il suscì di Moreno Cedroni. Veniamo al dunque; Manfredi Nicolò Maretti da Faenza, ma imolese d’occupazione, 29 anni ha scritto e stampato con il suo atelier editoriale, la Maretti appunto, Le stelle Michelin in Italia: enciclopedia dei ristoranti stellati italiani dal 1959 al 2021. Una «follia» da impenitenti bliblio-gastrofili, che oggi a Roma è tenuta a battesimo da Cristina Bowerman, eccelsa ed eclettica cuciniera al Glass Hosteria di Roma, dopo l’anteprima milanese a Identità Golose, visto che la prefazione è firmata da Paolo Marchi.
Manfredi Nicolò Maretti come si è permesso a 29 anni di scrivere e autopubblicarsi un libro?
«Ho fatto da solo questo libro perché semplicemente non poteva farlo nessun altro oltre me. È stata una sorta di coazione a ripetere la mia nel cercare e collezionare tutte le guide Michelin uscite in Italia dal 1959 in avanti e una volta che le ho messe sullo scaffale in libreria mi sono detto: come consultarle? Come comprenderne fino in fondo il valore testimoniale? Mi sembrava giusto farne una collazione e così è nato il libro».
Ma come a tutti i poeti le manca un verso, giusto?
«Vero; la mia collezione di “rosse” ha un buco, mi manca quella del 1970. Ma grazie al San Domenico di Imola, che per me è casa e non è un caso sia tra i più longevi stellati d’Italia, l’ho potuto colmare».
Lei è un collezionista di stelle?
«Ho cominciato comprando le Michelin nei mercatini poi su e-bay e alla fine mi sono detto perché non farci il libro? Ci ho lavorato otto mesi per tirare giù date ed indirizzi e devo dire un grazie enorme a Laura Castellani e a Giovanni Dalla Vecchia che hanno fatto la ricerca dividendosi gli anni dal 1959 al 1991 e dal 1992 al 2021».
E perché non anche la 2022?
«Per rispetto alla Michelin; non mi sembrava giusto invadere il loro campo. Così come ritengo che si dovranno fare degli aggiornamenti al libro per tenerlo sempre degno del nome di enciclopedia. Li farò quinquennali. Diciamo che loro scrivono la cronaca della cucina e io li codifico in una storia».
Quelli della Michelin sono molto gelosi del loro lavoro. Come l’hanno presa?
«Benissimo, mi hanno fatto i complimenti. Al punto che penso che il lavoro che ho fatto io, che ha fatto la Maretti, andrebbe esteso almeno ai paesi gastronomicamente più rilevanti. Però la Michelin come si sa non si “sposa” con nessuno, sono però felice del loro apprezzamento. E poi il fatto che Fausto Arrighi che ha diretto la “rossa” per tanti anni abbia scritto l’introduzione al libro mi rende orgoglioso».
Da un neppure trentenne uno si aspetterebbe la storia del rock, dei migliori videogame, che ci fa uno giovane in mezzo alle pentole?
«Che ci faccio? Ma io vivo di passioni: l’arte, il teatro, la letteratura e la cucina sono il mio mondo. E sono anche il mio catalogo editoriale. La passione gastronomica è nata da piccolino quando mio papà Cristian mi ha portato a due anni a mangiare da Roger Verger al Moulin de Mougins e poi la folgorazione all’Hotel de Paris con Alain Ducasse, non ero neppure adolescente. E da lì ho sempre sentito che arte e cucina che pure hanno immense affinità sono la mia dimensione d’esistenza».
C’è stato anche l’incontro con Maurice Von Greenfields che firma anche la postfazione e di cui lei ha editato il suo Tre Stelle Michelin. Ha contato vero?
«Si è stata la spinta decisiva. Maurice è un uomo di una vitalità e di una cultura gastronomica sconfinata, mi ha spronato in questa impresa di continua consultazione delle guide. E devo dire che io un po’ aspiro al suo record: mangiare in tutti i tristellati del mondo».
Una sorta di gigante e il bambino in salsa bernese?
«Mi piace! È che io ascolto molto le persone adulte, mi piace stare con quelli che ne sanno, che hanno esperienza e attingo da loro per costruire il mio viaggio di vita, di cultura e di impresa. Non voglio né sono in grado di dare lezioni a nessuno, ma penso che i giovani farebbero bene a dare ascolto a chi ha vissuto per vivere loro meglio».
A proposito; papà Cristian Maretti che ha detto di questo progetto?
«Mi ha detto: ma a chi interessa un libro così? Però come al solito da quando mi ha affidato la casa editrice mi ha anche detto: fai come credi. E io ho fatto».
Appunto, a chi interessa un libro così?
«Prima di tutto ai ristoratori, poi ai loro eredi, poi a tutti i cultori di cucina e dovrei dire anche agli storici. La testimonianza più bella mi è venuta dal figlio di Guido Alciati che mi ha scritto: vedendo quelle date ho risentito l’eco dei giorni felici, dei posti visitati con papà ho sentito i profumi. E poi siamo già ottavi in classifica nel nostro specifico. Mica male per un libro da 55 euro. Che ambisce anche ad essere un oggetto colto e di culto, da esporre».
Possibile che delle date diventino delle madeleine proustiane?
«Assolutamente sì, l’ho provato anch’io. Ogni volta che appuntavo una data, una stella di un ristorante da me visitato, lo rivedevo, lo riassaporavo».
Com’è concepito il libro?
«Sono censite tutte le stelle Michelin che l’Italia ha avuto, da una a tre, anno per anno, poi regione per regione in modo che si può stabilire subito qual è stata l’evoluzione della nostra cucina. Che, computando le stelle, ha fatto passi enormi. Tanti ristoranti non ci sono più, se ne sono aggiunti di nuovi: alcuni hanno avuto evoluzioni folgoranti, altri sono cresciuti lentamente, qualcuno è pure decaduto. Ecco si ripercorre la storia sfogliando un appetitosissimo calendario».
Già che ci siamo chi sono gli stellati di lungo corso?
«Il più longevo è Arnaldo, Degoli ha segnato il gusto italiano. Poi ci sono il San Domenico stellato dal 1975, Da Vittorio dal 1978, dal 1982 Pinchiorri, Il Pescatore - Antonio Santini firma un ricordo nel mio libro - e Sorriso».
Peccato non ci sia più Lascia o raddoppia se no lei vincerebbe…
«Alla passione non si comanda!».
La Maretti nasce come casa editrice d’arte, non la sta un po’ trascurando per la cucina?
«Assolutamente no. Abbiamo fatto dei libri magnifici, anche col teatro e le biografie, abbiamo dei nuovi titoli di notevole impatto. La cucina oggi mi ha aperto nuovi orizzonti e ho fatto alcuni libri d’arte e cucina. L’ultimo dedicato a Matteo Baronetto che esce in contemporanea al Michelin è un libro futurista. E poi ne sta per uscire uno bilingue sull’ospitalità in cui Mattia Cicognani del gruppo degli hotel Batani si racconta. Facciamo un’editoria eretica!».
Al punto che lei snobba le librerie e vende quasi solo su Internet. Scelta o necessità perché i grandi editori fanno muro?
«Direi scelta. Sono convinto che il libro stia morendo. I grandi editori fanno libri sempre più economici, ma la virtualità sta progressivamente erodendo lo spazio dei libri. A meno che tu non ti faccia amica Internet. Per questo ho scelto di distribuire prevalentemente su Internet, di lavorare molto con i social. Vogliamo fare libri cult e libri che siano oggetti preziosi. Quanto alle librerie andiamo sulle indipendenti. Oggi in Italia i grandi editori hanno le loro catene distributive e se non sei dei loro non entri o paghi prezzi altissimi. Preferisco fare un’editoria che dialoga attraverso Internet con il lettore che poi sedimenta la conoscenza nel libro».
Ma dopo l’enciclopedia arriverà anche una guida gastronomica Maretti?
«Non credo; la Michelin lo fa benissimo anche se mai dire mai. Semmai una ragione ci sarebbe per fare la guida: parlare dei tanti altri non stellati che se lo meritano».
Dunque lei ha un ristorante del cuore tra quelli che stanno nel libro?
«Ne ho tanti, ma non voglio fare preferenze. Se devo indicarne uno dirò che mi dispiace di non avere collazionato anche il 2022 perché nel mio libro non compare Richard Abouzaki, il giovanissimo chef del Retroscena di Porto San Giorgio che ha preso una stella quest’anno».
Intervista finita, che si fa? Risposta di Manfredi: «Si va a mangiare, si va per stelle».
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Manfredi Nicolò Maretti con Maurizio Campiverdi
Il libro di Maurizio Campiverdi edito da Maretti raccoglie tutti i locali nel mondo che hanno ottenuto il massimo riconoscimento.
Me li figuro come messer Marco Polo e Rustichello da Pisa con il primo intento a dettare al secondo il libro delle meraviglie. Sono Maurizio Campiverdi, nome de plume Maurice von Greenfields, autore del libro, e Manfredi Nicolò Maretti, editore. Ho tra le mani il loro Milione perché anche qui si trattano «le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo» in forma gastronomica.
È il racconto con schede e suggestioni dei 286 ristoranti che dal 1933 a oggi hanno avuto le tre stelle Michelin. Ma perché il paragone con Marco Polo e il suo estensore Rustichello? Perché questo è il primo libro di cultura gastronomica che recensendo ristoranti porta la dicitura in fondo alla scheda «Nv», non visitato. Una chiarezza che di questi tempi è in assoluto merce rara e quando si parla di ristoranti ancor di più. Ma merce rara è sicuramente questa coppia di appassionati della vita che mette insieme l'arte e l'arte di vivere, il buono e il meraviglioso, il gustato e il detto e che facendo un ponte tra un paio di generazioni si sono uniti per dare compiutezza a questo libro.
S'intitola: Tre stelle Michelin, enciclopedia dell'alta ristorazione mondiale. Sono oltre 700 pagine in cui Campiverdi racconta le viste che lui ha compiuto nei ristoranti tristellati nei tre continenti: Europa, Asia e America. Nel libro c'è anche il compendio della letteratura gastronomica dell'ultimo secolo. «Ho voluto condensare», dice Manfredi Nicolò Maretti, «un lavoro di ricerca eccezionale fatto da Maurizio che ha scritto una storia della letteratura gastronomica per l'Accademia della cucina. È un libro immenso; qui ne abbiamo riportate alcune parti: i 25 autori più importanti da Apicio ai giorni nostri. E poi c'è il racconto dei ristoranti divisi in tre categorie: gli attuali tre stelle, i sempreverdi, quelli che se anche hanno perso una o più stelle rimangono pietre miliari della gastronomia mondiale e infine gli scomparsi». Che un giovane editore decida di mettersi in questa avventura sembra bizzarro. Com'è venuta l'idea? «L'idea è di Maurizio: è lui che ha scritto per ben quattro volte questo libro. Come casa editrice ci eravamo accostati all'arte contemporanea e alla ristorazione con la nostra collana che unisce grandi chef ad artisti contemporanei, l'ultimo libro in preparazione è quello che vedrà Mauro Uliassi, il tristelato di Senigallia, unito a Giovanni Gaggia e che faremo uscire a febbraio. Da qui è nata la curiosità, poi divenuta impresa editoriale, per il libro di Campiverdi».
«Io», interviene Maurizio, «avevo fatto di questo libro sugli stellati diverse edizioni. La prima è dell'82, poi sono andato avanti: cresceva il numero degli stellati e cresceva il racconto e la raccolta di informazioni. Sono arrivato all'ultima edizione, la quarta, e il mio editore di allora non aveva più i soldi e così avevo deciso di stamparne 300 copie a mie spese, quando nella tipografia degli amici bolognesi che mi ospitavano è capitato Maretti che mi ha detto: “Ma questo è un libro che si può vendere"».
È davvero così? «Certo che è cosi e il successo che abbiamo avuto», spiega l'editore, «è tale chi siamo già alla seconda ristampa e anzi a Milano faremo una presentazione evento: c'è la data, il 12 ottobre, ma il resto è ancora segreto. Mi sono incuriosito al libro perché ho scoperto ad esempio che a Tokyo -potere delle esigenze di marketing - c'erano più tristellati che a Parigi e poi perché il modo di proporre questo argomento di Maurizio è unico. È come avere un'enciclopedia del gusto vivente a fianco. Devo dire che lo hanno capito anche i lettori: il libro (in libreria e online a 28,5 euro, ndr) lo comprano i giovani appassionati e i professionisti della cucina. È l'autorevolezza di chi scrive a rendere il libro unico».
«Se sono autorevole non lo so», incalza Maurizio Campiverdi, «di sicuro sono uno tra i pochi che ha mangiato in quasi tutti i ristoranti a tre stelle. Ho cominciato a 12 anni con mio papà al mitico La Piramide e fino al 2007 sono stato in pari: li avevo visitati tutti, poi hanno aperto all'Asia e lì la profusione di stelle mi pare esagerata. Insomma, 140 ristornati d'eccellenza nel mondo mi paiono troppi, solo con gli italiani (ne abbiamo 11, ndr) i francesi sono di manica stretta. Ma dico che se hanno dato tre stelle ai sushi bar dovrebbero darle anche alle pizzerie».
E allora viene da domandarsi come l'hanno presa quelli della Michelin questa uscita. «Direi bene», risponde Maretti, «hanno annunciato che manderanno uno dei loro alla nostra presentazione». «Mah», chiosa Maurizio, «non è cosa che m'interessa. Certo vedere che la Michelin si lega a Tripadvisor a me lascia un po' perplesso. Io sono dell'idea che per dare un giudizio bisogna saper mangiare e avere il palato allenato. È un esercizio che ho fatto fin da piccolo. Temo che dopo il coronavirus sarà difficile continuare a mangiare bene; molti purtroppo spariranno, sono tempi difficili e diversi».
Viene da pensare che aver raccontato la storia di tutti gli stellati sia la testimonianza di un mondo forse in declino? «No, è la testimonianza della mia passione, io non mi sono mai comprato le scarpe da 1.000 euro e ho scelto di coltivare il piacere del palato e la cucina come evento culturale. Mio padre Dante Campiverdi è stato il più ascoltato importatore ed esportatore di riso. Io sono cresciuto con la cultura del buono, del rispetto della campagna e dei sapori. Abbiamo avuto la nostra riseria fino agli anni Ottanta, l'ho venduta quando papà è scomparso. Ma ho sempre coltivato il cibo come cultura e piacere; attraverso i ristoranti si raccontano gli uomini, i popoli».
Giusto per avere un'idea, Maurice von Greenfields ha una collezione di oltre 70.000 menù, ha scritto una quantità di libri e dopo 80 primavere vive nella sua Bologna inseguendo ancora il sapore della vita. Quello che è racchiuso nel suo Tre stelle Michelin, un firmamento d'emozioni.
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Lo chef Gianfranco Vissani che festeggia 68 anni: «L'attacco alla Guida Michelin che mi ha tolto la stella? Avrei dovuto evitare Rubio? Non lo conosco. Non utilizzo azoto o tecniche strane: non ti fanno neanche capire cosa hai nel piatto».
Chissene importa della stella persa, oggi si festeggia. Gianfranco Vissani, chef appena «defraudato» dall'illustre Guida Michelin, spegne le sue prime 68 candeline senza rancore, ma con qualche spunto di riflessione in più. Lo ricordano sempre per il risotto cucinato con Massimo D'Alema, ma lui di cose ne ha fatte (e viste) tante. E ora la sinistra, un po' come la Michelin, la vede chiusa in un santuario che ha in spregio «il popolino» e si dimentica dei veri affamati. Di cibo e di lavoro.
Chef Vissani, come si sente a 68 anni compiuti?
«Non si dicono mai gli anni! Oggi tutti cercano di nasconderli, però ci siamo. Sto bene, la mia vita la sto vivendo, tra amori e lavoro, con grandi soddisfazioni e risultati».
Si sente davvero il Che Guevara della cucina italiana?
«Mi hanno definito cosi, come una volta c'era il “divino" Gualtiero Marchesi. Che Guevara era un idealista, uno che credeva in quello che faceva, che ha fatto la rivoluzione perché vedeva oppressione nel suo popolo. Tutti questi leader maximi prendono il sopravvento quando vedono la gente dalla loro parte. Non dico che avremmo bisogno di un'elezione bulgara, ma in questa Italia dove ci sono politici che non sono politici, e dove il governo non governa perché si è trasformato in ufficio delle tasse, un Che Guevara può capitare. Ci stanno trasformando in numeri. I ragazzi che cercano lavoro mi chiedono: quanto mi dai?, io rispondo: ma tu che cosa sai fare? Non sono pronti».
Come mai, dopo 20 anni, le hanno tolto la sua stella?
«Si vede che non eravamo più all'altezza…».
Ha detto che la Guida Michelin è anti italiana.
«Ho usato questa espressione, ma dal profondo della mia esperienza, 50 anni, dovevo evitare. Ero uscito da un ricovero ospedaliero di otto giorni e mi è venuta spontanea. Avrei dovuto contare fino a dieci. A Casa Vissani abbiamo sempre fatto le cose per bene, ma a qualcuno non va a genio».
La guida sbaglia?
«Tutti hanno le loro faide, le loro correnti. Come si fa? Per me ci vogliono 15, 20 giornalisti - ma giornalisti, non proprietari di aziende - che vanno nei ristoranti, mangiano e votano. Se io sono il direttore di una guida ho i miei interessi… Questo c'è sempre stato. Però la grande ristorazione è in un mare di merda, se non arriva qualcuno a darci una mano possiamo chiudere tutto perché ci sono costi inumani».
Aldo Grasso sul Corriere della Sera l'ha accusata di risentimento, di non sapersi leccare le ferite e di bramare solo il successo.
«Aldo Grasso non è mai stato da me in Umbria. Lui parla per sentito dire. È piemontese e i piemontesi sono falsi e cortesi, no? Perché non ricorda quando mangiava al mio ristorante all'Hotel Bellevue di Cortina d'Ampezzo e diceva che era tutto ottimo? Facile picchiare su un animale ferito».
Lei si sente ancora il numero uno della cucina italiana?
«Io sono stato numero uno? Faccio quello che posso, mi diverto, non cucino con l'azoto e a basse temperature. In quel modo non si sa neanche quello che si mangia. La cucina italiana è un'altra cosa. Tutti cercano il prodotto vero. Vogliamo strapazzare il mondo, dire che è tutto uguale, che non esiste più niente di valore? Basta».
Il made in Italy è sotto attacco?
«Sì, perché Donald Trump fa il coglione con i dazi. Ma il problema è strutturale. Una volta ero con altri chef attorno a un tavolo con l'allora ministro dell'agricoltura Maurizio Martina, e con il senno di poi ho sbagliato ad andarci perché quello è un radical chic puro. Gli ho detto: guardi che il prodotto italiano fatica molto. Lui mi ha risposto: ma va, facciamo parlare Massimo Bottura per piacere (chef pluristellato, noto per la cucina solidale, ndr). A quel punto mi sono alzato e me ne sono andato via. Bottura? Ma di che cazzo stiamo parlando? È uno che non sa neanche come si chiama. È tutto combinato, alcuni possono parlare e altri no. È una vergogna, molti hanno paura, ma non io. Sarò penalizzato, ma chissene importa».
Negli ultimi mesi fa molto parlare chef Rubio, che l'ha attaccata dicendo di sapere cose su di lei che «quando fa lo splendido in televisione non racconta».
«Io non conosco questo Rubio, né mi interessa. Ancora lo chiamate chef? Può dire quello che vuole, ma l'unica cosa che sa fare è attaccare la gente per farsi popolarità. Recita la parte dell'anti Salvini».
Le piace il popolo delle sardine?
«Ma che cosa vogliono? Matteo è una bravissima persona. Se la sinistra, la destra o il centro esistono ancora e riescono a fare qualcosa lo devono a lui. Ha smosso le acque. In generale, però, è ora di renderci conto che quei pochi che stanno in Parlamento non possono dirigere un Paese come l'Italia. Benito Mussolini diceva che l'Italia è ingestibile. Mio padre mi ricordava che il popolo è quello che porta l'acqua con le orecchie. Sono i lavori umili che fanno andare avanti il Paese. Ormai è tutto difficile. Arrivano qui i romeni, i bulgari, la gente dell'Est? Allora formiamo delle scuole, istruiamoli. Magari delle scuole di bon ton…».
Che cosa le piace di più di Salvini?
«Tutto, ma a tutti noi piace Salvini. Bisogna ripartire dall'anno zero, bisogna azzerare i conti di tutta l'Europa. Non è l'Italia ad avere il deficit e il debito pubblico più alto. La Spagna, la Germania, la Francia, l'Inghilterra? Mettete il cash nelle tasche degli italiani».
E D'Alema come l'ha presa questa sua simpatia per il leader della Lega?
«Io non ho mai detto di essere di sinistra. Finché c'è stato Massimo D'Alema ho cercato di stargli dietro. Ricordo però che lui è stato il primo a voler parlare con la Lega perché capiva che c'era un epicentro che si stava spostando verso le campagne e le periferie. Cara sinistra, fai come Matteo, non chiuderti in te stessa, vai nelle stalle, sui territori, chiedi alla gente quello di cui ha bisogno».
Il Pd si sta riprendendo?
«Nicola Zingaretti sta veramente messo male. Io spero per lui che ce la faccia, ma non lo so, la vedo molto dura. Il Pd deve raccogliere voti se vuole essere al comando, non dividersi. Quell'altro pariolino che se n'è andato… Carlo Calenda, è sempre incazzato. In politica ci vuole stabilità, ma ce li ricordiamo i vari Andreotti, Fanfani, Forlani, Cossiga?».
E Matteo Renzi ha fatto bene a fondare Italia viva?
«Ma è vero che si allea con Silvio Berlusconi? Mi sembrerebbe assurdo. Renzi ha sbagliato tutto. Sta creando le frattaglie della sinistra. Vuole prendere il 4%? E poi?».
Contro vegani, astemi e puritani Jack Nicholson ha detto: «Io credo nella carne rossa, nel vino e nelle donne». In che cosa crede lei?
«In tutt'e tre le cose. Nel 1944, in Inghilterra, sei vegetariani si sono dissociati e hanno creato il veganesimo. Non li sopporto, sono una setta, mi danno fastidio. E poi ultimamente hanno perso ancora più punti. Adesso vogliono far fare le loro diete anche ai figli, che però hanno bisogno di altri alimenti. I bambini così stanno male, è una cosa pesante da accettare. Ma poi, vegani? I vegetariani posso capirli, anche Umberto Veronesi lo era, anche Pitagora. Non mangiano carne, anche se poi mangiano il pesce…».
Come procede il suo anno sabbatico lontano dalle donne e dal sesso?
«Benissimo. Ho rispettato tutte le previsioni».
E quindi come festeggia questo compleanno?
«Con gli amici a Baschi, a Casa Vissani. Gettiamo le basi per tutto l'anno successivo. Mi piace essere sempre in continuo movimento. Morta una stella... se ne fa un'altra».
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ANSA
Nella nuova edizione della Rossa, la parte del leone la fa Mauro Uliassi, un marchigiano senza fuochi d'artificio. Tra i cuochi che spopolano in televisione, solo Antonino Cannavacciuolo fa incetta di premi. Carlo Cracco non becca nulla.
Beh, forse Luigi Di Maio non ha tutti i torti. C'è stampa e stampa. Per capirlo bastava essere ieri a Parma alla presentazione della Guida Michelin edizione 2019, che ha proposto non poche sorprese.
Una platea d'imbucati, di presunti gourmet, di comunicatori del cibo compresi alcuni pennivendoli che fanno consulenza a pagamento ai ristoranti che recensiscono, a fare da claque a cuochi che fino a qualche anno fa non avrebbe degnato di un apostrofo. Andavano di moda i Ferran Adrià, quelli del «todo es chimica». Se non erano cuochi d'artificio, era inutile parlarne. E poco importava che grandissimi chef come Joel Robuchon (scomparso purtroppo ad agosto) continuassero a dire: «Quando gli italiani si accorgeranno della ricchezza dei loro ingredienti faranno la migliore cucina del mondo». Oggi tutti a spellarsi le mani per il decimo ristorante che conquista le tre stelle: Uliassi di Senigallia. Per i sedicenti critici: Franza o Spagna purché si magna.
Perché Mauro Uliassi è l'antitesi dello chef protagonista, della cucina d'artificio. Lui cucina per diletto, per passione e con intelletto. Fa piatti di mare regionali e raffinati, si diverte con lo street food e fa beneficenza con la fondazione sua e di sua sorella che è l'anima del locale: lei cura gli ospiti e la sala, lei dipinge ad acquerello i menù uno ad uno. Insieme raccontano le suggestioni del loro mare e un mare di suggestioni come nello «spaghetto affumicato con vongole e pendolini grigliati» o nella «ricciola alla puttanesca». Del resto l'insegna del ristorante candido, proteso come un pontile tra le onde è «Uliassi, cucina di mare».
Il menù degustazione, che è un'apoteosi della cucina di sostanza e di eleganza, costa meno di 200 euro e vale l'esperienza di una vita. A Parma era tutto un darsi di gomito: io l'avevo detto, ci avrei scommesso, lo sapevo. Che queste affermazioni trasudino ipocrisia si dimostra in un amen.
Per nessuna guida Uliassi è il miglior ristornate d'Italia. Così come per nessuna guida lo scorso anno Norbert Niederkofler era tra i migliori. Eppure l'anno scoro Norbert e quest'anno Mauro sono arrivati alle tre stelle. Che cosa separa allora la Michelin - che resta sciovinista perché premia in Francia ciò che in Italia neppure prende in considerazione anche se l'Italia è stabilmente il secondo Paese al mondo più premiato - dalle altre guide italiane? Due cose: l'autorevolezza e l'onesta intellettuale. La dimostrazione? Con la Michelin il divismo televisivo non attacca. Perché se Antonino Cannavacciuolo fa il pieno di riconoscimenti (una stella a ciascuno dei suoi due bistrot di Torino e Novara oltre alle due di Villa Crespi), Carlo Cracco con tutta la pubblicità e lo sfarzo profusi in Galleria a Milano non ha beccato nulla così come pesantissimo è il tonfo del ristorante di Armani che perde la stella. Ma torniamo a Mauro Uliassi; il suo ascendere nell'olimpo della ristorazione segnala un progressivo affinamento della Michelin verso la cucina che rappresenta i territori, la cucina colta, ma non stupefacente, aderente alla personalità del cuoco e della sua terra. Uliassi guadagna le tre stelle allo scoccare dei suoi sessanta anni. Si era iscritto all'alberghiero per corteggiare le ragazze.
Apre una trattoria pizzeria nel 1986 con i soldi di mamma e papà e la chiude dopo tre mesi, nel 1990 si mette nella nuova avventura con Catia, la sorella, e arriva alle stelle. Mauro ama la vita e mette la vita nei piatti. Lo fece per conquistare Chantal, la moglie che gli ha dato due figli, Filippo, che ora lavora al ristorante, e Rosa, la piccola, lo fa col suo furgoncino per lo street food, lo fa come ha detto emozionatissimo dopo la proclamazione: «Per raccontare la mia terra, il mio mare, per dare sostanza all'anima delle Marche: fossi stato un pittore lo avrei fatto con i pennelli, fossi stato Leopardi con i versi, Rossini con la musica, sono Mauro Uliassi, lo faccio con i patti». E così Mauro ha vinto il derby con Moreno Cedroni (la Madonnina del Pescatore) che mantiene sempre a Senigallia le due stele. Guardando complessivamente ai riconoscimenti distribuiti dalla Rossa i tre stelle salgono a dieci - Massimiliano Alajmo, Le Calandre a Rubano (Padova); Massimo Bottura, Osteria Francescana a Modena; Chicco Cerea a Brusaporto (Bergamo); Enrico Crippa, piazza Duomo a Alba (Cuneo); Annie Feolde e Riccardo Monco, Enoteca Pinchiorri a Firenze; Norbert Niederkofler, St.Hubertus a San Cassiano (Bolzano); Niko Romito, Reale a Castel di Sangro (L'Aquila); Nadia e Giovanni Santini, Dal Pescatore, a Canneto sull'Oglio (Mantova), Heinz Beck, La Pergola, a Roma - i due stelle restano 39 senza nessun cambiamento, aumentano a 318 quelli con una stella con 29 new entry ma anche alcune clamorose bocciature.
Fa rumore anche la perdita della stella di Antonello Colonna a Roma. Napoli è la provincia più stellata mentre la Lombardia è in testa tra le regioni seguita da Piemonte e Campania, a dire che il Sud è la nuova terra promessa della cucina italiana. Prendiamo scommessa? Il prossimo anno ci sarà l'undicesimo tre stelle e sarà tra Vico e Sant'Agata, a due passi da Castel dell'ovo!
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