O’ scannacristiani è libero e magari vota ai referendum per ribadire che lui è un pentito a denominazione di origine garantita. Non è una boutade; lo hanno sostenuto in tanti, ad esempio Alessio Festi, responsabile politiche della legalità Cgil nazionale: l’8 e 9 giugno un sì per liberarci dalle mafie. Che paradosso sarebbe: manca solo che Giovanni Brusca - 150 omicidi: ha fatto sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, ha fatto saltare in aria Giovanni Falcone a Capaci, ha ammazzato il giudice Rocco Chinnici per il dossier contro Michele Greco detto ’o Papa - si è recato alle urne per difendere la legalità, la democrazia e i diritti dei lavoratori. Chissà se il suo difensore l’avvocato Luigi Li Gotti divenuto famoso per la denuncia contro Giorgia Meloni e altri esponenti del suo governo al tribunale dei ministri sul caso Al-Masri potrebbe sostenere questa tesi. Non accadrà: il capomafia di San Giuseppe Jato è sottoposto a regime di protezione. Lascerà la Sicilia, gli daranno un altro nome e forse anche un lavoro come impiegato pubblico. Giovanni Brusca, almeno per la giustizia, è mondo dalle sue colpe in virtù della legge voluta da Giovanni Falcone che U’Verru (altro soprannome di questo assassino spietato, corpulento di costituzione) fece saltare in aria con la moglie, Francesca Morvillo, e gli uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. La carriera criminale di Brusca mette i brividi. Figlio del boss Bernardo e fratello del killer Enzo Salvatore che ha strangolato materialmente il piccolo Giuseppe Di Matteo, dal carcere Giovanni dopo 799 giorni di prigionia del bimbo ordinò: «scannate u’ cannuzzu» (ammazzate il cagnolino), Giovanni Brusca comincia a 13 anni. Poi sale ammazzando chiunque nelle gerarchie mafiose. Dopo la strage di Capaci alcuni uomini del commando si pentono e lui per mostrare alla cupola la sua fedeltà fa fuori Di Matteo (il padre Santino si era pentito e ucciso il figlio ritrattò le accuse sull’omicidio di Ignazio Salvo l’esattore democristiano) dà corso alle stragi di via dei Georgofili a Firenze e intensifica gli omicidi di mafia. Lo catturano nel 1996, il 20 maggio ad Agrigento. Inizia a collaborare poi ritratta; alla fine parla. La Pm di allora Franca Imbergamo raccolse le sue confessioni: «Mi rifiutai di stringergli la mano, il suo percorso di collaborazione non fu lineare, ma il suo racconto ha dato un grande contributo processuale». Il pentimento si palesò al processo Capaci, disse: «Ho pigiato io il bottone per ammazzare Falcone, ma avevo già adoperato l’autobomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici». Nel 2021 dopo 25 anni di carcere è stato ammesso alla libertà vigilata e da ieri, passati 4 anni, Brusca è di nuovo libero anche se sotto scorta. Giovanni Falcone perorando la legge sui pentiti disse: «È fin troppo facile prevedere che, senza un intervento legislativo che preveda effetti favorevoli per il «pentito», il fenomeno della collaborazione con la giustizia degli imputati è destinato ad esaurirsi in breve tempo». Aveva ragione? Probabilmente sì, ma era il 1991. Oggi forse quella legge andrebbe cambiata. La mafia s’infiltra nell’economia, fa affari globali, spaccia quantità enormi di droga, controlla senza apparire i territori. Con i trojan, le intercettazioni, i sistemi di controllo in rete dove viaggiano gli affari mafiosi si può forse ottenere di più che con i pentiti. Un insegnamento di Giovanni Falcone resta un caposaldo: seguite i soldi. Ma quella legge c’è. Anche se la storia giudiziaria è piena di falsi pentiti. I più clamorosi sono Vincenzo Scarantino autore di un vero depistaggio per la strage di via d’Amelio dove a Palermo morì Paolo Borsellino, Oreste Basco e Pasquale Pagano autisti di Michele Zagaria, Carmine Schiavone, Gaspare Mutolo, Antonio Iovine e Oreste Spagnuolo tutti del clan dei Casalesi. La mafia ha usato falsi pentiti per «mascariare» i boss scomodi. Si sospetta che così sia avvenuto per Totò Riina, ma anche per Matteo Messina Denaro. I magistrati devono fare continui riscontri perché al beneficio per il pentito - lo Stato ne gestisce 944 sopportandone il costo - deve corrispondere un vantaggio più che proporzionale per la giustizia. Santino Di Matteo - anche lui pentito che oggi vive a Roma - ha detto di provare rabbia. Maria Falcone, sorella di Giovanni, commenta: «Come cittadina e come sorella, non posso nascondere il dolore e la profonda amarezza. Ma sento anche il dovere di affermare questa è la legge sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni, e ritenuta indispensabile per scardinare la mafia dall’interno». Tina Montinaro, la moglie del caposcorta di Falcone, commenta: «Non bisogna assolutamente dimenticare che anche i collaboratori sono dei criminali. Non sono diventate persone per bene E noi familiari delle vittime non ci sentiamo rispettati. Mi aspetto che Palermo si faccia sentire». Giuseppe Costanza, l’autista di Falcone che scampò alla strage: «Queste persone che hanno ucciso anche bambini non dovrebbero uscire più di prigione. Sono molto amareggiato». Pare rispondergli Pietro Grasso - già procuratore antimafia- «La prima reazione è provare rabbia e indignazione. Ma la legge Falcone che oggi libera Brusca ci ha consentito di radere al suolo la cupola mafiosa e ha evitato altre stragi.» Nel 2021 quando Brusca uscì dal carcere da Matteo Salvini a Giorgia Meloni tutti dissero: cambiamola. Oggi però O’ scannacristiani è libero e con Humphrey Bogart in «L’ultima minaccia» viene da dire: è la legge bellezza e tu non puoi farci nulla.
- L’avvocato che ha denunciato mezzo governo patrocinava Giovanni Brusca, gestito come «dichiarante» dall’allora procuratore di Palermo. Ma il legale pretendeva la parcella dovuta a chi difende i pentiti e il sottosegretario (all’epoca al ministero dell’Interno) gliela negò.
- Trovati nella stanza di Osama Almasri Habish Najeem tre passaporti, contanti, otto carte di credito e un Rolex.
Lo speciale contiene due articoli.
Una storia tiene insieme lo strano triangolo che fa da retroscena all’esposto che ha prodotto gli avvisi di garanzia governativi sulla gestione del caso del generale libico Almasri. E sembrava sepolta negli archivi della giustizia italiana. Un capitolo in chiaro-scuro legato ai meccanismi che regolavano il trattamento dei collaboratori di giustizia nella fase in cui erano ancora dei semplici dichiaranti. I protagonisti sono gli stessi di oggi, ma all’epoca i loro ruoli erano differenti: l’avvocato Luigi Li Gotti, un passato remoto da missino e uno prossimo da legalitario dipietrista, che per anni ha difeso i pentiti (molti pezzi grossi di Cosa nostra dell’epoca del pentitismo), ovvero l’uomo che ha presentato l’esposto contro gli esponenti del governo, il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, già procuratore di Palermo (che poche ore dopo l’esposto ha iscritto sul registro degli indagati Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, per i reati di favoreggiamento e peculato). Con un’ombra: Giovanni Brusca, l’uomo che diede l’innesco al telecomando della strage di Capaci e che sciolse nell’acido (perché figlio di un pentito) il piccolo Giuseppe Di Matteo, era difeso poi proprio da Li Gotti.
Tutto ruota attorno a una vicenda apparentemente burocratica: il pagamento delle spese legali pre-pentimento di Brusca. Nel 2005, Brusca e il suo avvocato Li Gotti presentano un ricorso al Tar del Lazio per ottenere il pagamento delle spese legali relative al periodo tra il 1996 e il 2000. Una fase in cui il boss di San Giuseppe Jato aveva cominciato a fare delle dichiarazioni ai magistrati, ma senza essere stato ancora formalmente inserito nel programma di protezione per i collaboratori di giustizia. La Commissione del Viminale, che si occupava delle misure di protezione per i pentiti, aveva infatti riconosciuto il diritto al rimborso solo per il periodo successivo all’inclusione di Brusca nel programma, escludendo quello iniziale. Una decisione contestata da Brusca e dal suo legale, che sostenevano come il diritto all’assistenza fosse maturato sin dall’inizio del percorso. La vicenda è ancora rintracciabile negli archivi dell’Ansa con questa notizia: «Brusca, lo Stato mi dia i soldi per pagare l’avvocato». «La cifra», spiegò all’epoca l’avvocato Li Gotti, «non è stata quantificata. Certo è che si tratta di oltre 1.200 udienze fatte nei Tribunali di mezza Italia». E aggiunse: «La Commissione del Viminale per il caso di Brusca non ha ritenuto di dover retrodatare il riconoscimento del programma di protezione all’inizio della sua collaborazione datata 1996». Qui entra in gioco un dettaglio cruciale: la Commissione che negò il rimborso era presieduta, all’epoca, proprio da Mantovano (in quanto sottosegretario all’Interno, nella composizione c’erano magistrati e un prefetto). L'ex procuratore Otello Lupacchini (noto per le inchieste sulla Banda della Magliana), che all’epoca era membro della Commissione, sentito dalla Verità ha cercato di scavare nei ricordi. La somma richiesta per le spese legali di Brusca era «ingente».
Ma, soprattutto, emerge un elemento che sottolinea il cortocircuito istituzionale: «Se Brusca non era formalmente un collaboratore nel periodo contestato», sono le valutazione che all’epoca avrebbe fatto la commissione, stando ai ricordi di Lupacchini, «non poteva ricevere fondi pubblici per la sua difesa». E la richiesta fu rigettata. «Il provvedimento della Commissione del Viminale», si lagnò Li Gotti, «è illegittimo. Anche Brusca, come tutti gli altri collaboratori di giustizia, deve usufruire dei benefici previsti per l’assistenza legale fin dall’inizio della sua collaborazione». Ma siamo ancora nel 2005. Nel 2006, Li Gotti diventa sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi (correva il mese di maggio), trovandosi dall’altra parte del tavolo rispetto alle vicende che lo avevano visto protagonista come difensore di pentiti. E sempre nel 2006, ma ad aprile, il giorno 18 (le elezioni politiche furono vinte dalla squadra di Prodi il 9 e 10 aprile di quell’anno) il Tar accoglie il ricorso, stabilendo che la normativa sui collaboratori di giustizia non prevede che l’assistenza legale sia subordinata alla formale ammissione al programma, ma alla reale disponibilità a collaborare.
Bisogna quindi liquidare la parcella monstre al sottosegretario Li Gotti per le attività di udienza, accontentando Brusca. Lo Voi e Li Gotti si sono spesso trovati dalla stesa parte. Il primo, insieme a Giuseppe Pignatone, a rappresentare l’accusa nei processi contro Cosa nostra (e con le dichiarazioni di Brusca), il secondo ad assistere Brusca, ma anche Salvatore Contorno, Gaspare Mutolo, Gioacchino La Barbera (solo per citarne alcuni). Il caso Brusca, con le sue implicazioni legali e politiche, già tra il 2005 e il 2006 dimostrò come le dinamiche della collaborazione con la giustizia fossero un terreno scivoloso. Mentre l’ombra del boss di San Giuseppe Jato, per il precedente burocratico, si allunga oggi sul triangolo di nomi tornato di strettissima attualità. È difficile cancellare il passato, soprattutto quando s’intreccia con le istituzioni. E il precedente, con i suoi protagonisti ancora in prima linea, dimostra che certi nodi sono destinati a tornare al pettine.
Dito mozzato e cinque legali cambiati. I particolari dell’arresto del libico
Hanno il sapore di un intrigo da manuale i documenti che raccontano le 15 ore dell’arresto del generale libico Osama Almasri Habish Najeem, in quel momento ricercato per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Una spy story in piena regola. E tutto comincia nel cuore della notte con una comunicazione.
L’orologio segna la mezzanotte del 19 gennaio. «Gli operatori della Digos», si legge nella documentazione giudiziaria, «venivano informati dal Cot (la centrale operativa per le telecomunicazioni, ndr) della Questura che alle 23.30 circa, il personale della Direzione centrale della polizia criminale, servizio di cooperazione internazionale, aveva segnalato la sussistenza di un mandato d’arresto internazionale a fini estradizioni […]». Dagli accertamenti risulta che il ricercato alloggia in un hotel di Torino.
Ore 03:30 del 19 gennaio 2025: i corridoi dell’Holiday Inn di piazza Massaua sono deserti. Gli investigatori della Digos comunicano al direttore che dovranno fare irruzione nella stanza 424. Dentro, nel silenzio, c’è l’uomo ricercato, inseguito da mandato di cattura internazionale. Entrano con una chiave passe-partout. Sul comodino ci sono un iPhone 15 Pro Max ancora acceso e un altro iPhone con display rotto, spento e con la batteria scarica. Accanto al letto c’è un trolley. Gli investigatori sequestrano 105 sterline che erano all’interno della valigia e 5.455 euro contenuti nel portafogli. Oltre a un mazzo con tre chiavi.
Alle 10 scatta l’arresto. Dopo ore di verifiche, la polizia ha la conferma ufficiale dell’identità. Il generale ha con sé tre passaporti: uno rilasciato a Tripoli, uno turco e uno della Repubblica Dominicana. A quel punto gli investigatori non hanno più dubbi: si tratta dell’uomo «destinatario del mandato d’arresto internazionale emesso in data 18 gennaio 2024 dalla Corte penale internazionale».
«Dall’esecuzione del provvedimento», si legge nella relazione della Digos, «alle ore 10:00 odierne, è stato informato il pm di turno della Procura della Repubblica di Torino». Ovvero due ore dopo l’arresto. Il pubblico ministero di turno è Monica Supertino, toga che in passato aveva lanciato un canale Youtube per spiegare come mangiare in modo sano e avere benefici dal punto di vista della salute e del fisico: nei video si vedeva lei in cucina che mostrava come fare le crepes al prosciutto e altre ghiottonerie senza ingrassare.
Nel frattempo gli agenti catalogano ogni oggetto in possesso del generale: i contanti, otto carte di credito (almeno quattro emesse in Turchia), un Rolex con ghiera nera e certificato di garanzia, un portafogli e un borsello Armani, un trolley con indumenti e scarpe. Sul letto, accanto a lui, c’erano anche un accendino e una penna. Delle chiavi, tre in totale, custodite nel portafogli.
Ore 12:00. Nei locali della Digos si prende un’altra decisione. La Questura di Torino si trasforma nel centro di un’operazione che in quel momento sembra ancora di routine. Le autorità consolari libiche vengono avvisate via email con una comunicazione formale. Mentre alle 15:40 viene convocato un difensore d’ufficio. Il primo. Se ne avvicenderanno cinque in pochissime ore. Tra le 12 e le 15.40 si procede alle attività di «fotosegnalamento», prima di fronte, poi di profilo, e «dattiloscopiche». «Manca dito medio sinistro», annota l’agente della Scientifica che fa timbrare al generale con ogni dito il cartellino della Questura.
Poi si passa alla descrizione dei connotati salienti: Altezza: «1 metro e 72», corporatura «grossa», forma del viso «ovolare», fronte «grande», sopracciglia «medie», occhi «orizzontale», naso «medio», orecchio «medio», bocca «medio». «Contrassegni propriamente detti: malformazione mano sinistra, completa amputazione prima falange dito medio». Najeem viene trasferito nel carcere di Torino. Mentre i tre connazionali che erano con lui, Ayoub Yousef Elmokhtar Sghiar, Murad Shiboub e Osama Mohamed Usta, vengono denunciati in stato di libertà per favoreggiamento. E si scopre che i quattro erano anche stati fermati per un controllo la mattina precedente, alle ore 11, in via Nizza, mentre viaggiavano su una Golf wagon. I quattro hanno riferito in lingua inglese che si sarebbero trattenuti a Torino per la partita Juve-Milan, «ma», hanno spiegato i poliziotti, «non erano emersi elementi per procedere». Sul sedile anteriore destro c’era il generale. «Da interrogazione della banca dati Sdi, solo Usta risultava essere positivo per una notizia di reato datata 2009 per ricettazione, mentre i restati occupanti risultavano negativi». L’ennesimo mistero della spy story.
Si è destreggiato con disinvoltura tra difesa e accusa, attraversando le aule dei processi più scottanti ma anche quelle di alcuni dei più controversi della storia italiana. Luigi Li Gotti, partito da Mesoraca di Crotone e trasferitosi a Roma negli anni ’70, è un nome di peso nel circuito giudiziario. Ha rappresentato le vittime della strage di Piazza Fontana e le vedove di via Fani, ha assistito la famiglia del commissario Luigi Calabresi, è stato al fianco dei parenti delle vittime del caso Moro. Ma basta guardare dall’altra parte del palcoscenico per vedere un altro Li Gotti: l’avvocato di Tommaso Buscetta, di Giovanni Brusca, di Salvatore Contorno, di Gaspare Mutolo, di Gioacchino La Barbera e di altri collaboratori di giustizia eccellenti dell’epoca del pentitismo siciliano: quello delle stragi, delle ipotizzate trattative e delle accuse a politici e a esponenti delle istituzioni. Era l’era dell’illuminazione legalitaria per molti ex esponenti di Cosa nostra e di personaggi che hanno costruito il loro destino sulle loro verità, talvolta scomode, altre volte convenienti e altre, infine, smentite. Difensore delle vittime (quelle del terrorismo) e dei carnefici mafiosi convertiti. È lui, toga sulle spalle, che assiste il pentito Francesco Di Carlo durante la deposizione in videoconferenza nell’udienza del processo al senatore Giulio Andreotti. Anni dopo è sempre lui a smentire pubblicamente che il suo cliente (Di Carlo) «abbia denunciato minacce che, secondo quanto appreso in ambienti giudiziari, sarebbero state rivolte a suoi familiari affinché non facesse i nomi di alcuni politici al processo contro Marcello Dell’Utri». Ma è anche il difensore di uomini dello Stato. Come il questore Francesco Gratteri, capo dello Sco (il Servizio centrale operativo della polizia di Stato finito nelle indagini per il blitz alla scuola Diaz durante il G8 di Genova e condannato a 4 anni, 3 dei quali indultati), che da poliziotto partecipò, coincidenza, proprio all’arresto di Brusca. E poi c’è la carriera politica. Dal Movimento sociale degli anni ’70, passando per Alleanza nazionale, fino alla svolta improvvisa nel giustizialismo dipietrista dell’Italia dei valori. Da sottosegretario alla Giustizia del secondo governo Prodi ha avuto tra le mani dossier bollenti e ha gestito il fragile sistema dei collaboratori di giustizia. Le sue posizioni sulla grazia ad Adriano Sofri e a Ovidio Bompressi scatenarono un terremoto politico: il suo collega Carlo Taormina lo accusò di conflitto di interessi (per la duplice veste da sottosegretario alla Giustizia e legale della famiglia Calabresi), chiedendone le dimissioni dal governo. Quando ne è uscito (ma non per gli strali di Taormina), e dopo la parentesi da senatore dipietrista, ha assunto la difesa di Pino Giglio, pentito di ’ndrangheta nel processo Aemilia, uno che ha spiegato come la mala faceva soldi in Emilia Romagna senza apparentemente sporcarsi le mani. E poi c’è il mondo imprenditoriale calabrese. Questa volta i pentiti non c’entrano. E Li Gotti compare tra i difensori degli indagati. L’inchiesta è quella sul patron del Crotone Calcio Raffaele Vrenna, coinvolto in una presunta truffa aggravata sui rifiuti ospedalieri. Anche qui Li Gotti ha saputo muoversi con l’abilità di chi conosce le regole del gioco. E alla fine il processo si è chiuso con le assoluzioni. Forse è proprio questa la chiave per descrivere il personaggio: un maestro dell’equilibrio, capace di adattarsi al contesto, di cambiare bandiera senza passare per un voltagabbana, di servire lo Stato e difendere chi quello stesso Stato lo ha tradito. Un esperto viaggiatore tra le insidie della giustizia (e della politica) italiana. E chissà se un giorno il suo nome verrà ricordato come quello di un servitore dello Stato o di un abile navigatore nei meccanismi del sistema. O forse, più semplicemente, di entrambi.
Caro direttore, il suo editoriale di ieri sulla liberazione di Giovanni Brusca contiene una imprecisione che mi riguarda, e mi permetta di dirle che «la discreta memoria» alla base del suo ricordo, in questo caso l'ha tradita.
Ammonendo (giustamente) la politica ad assumersi la responsabilità delle leggi e delle decisioni, anziché «indignarsi per la sua uscita dal carcere», senza però aver «mosso un dito per cambiare la norma», lei ricorda il precedente del caso Priebke, quando «per contenere l'onda dell'indignazione popolare intervenne il ministro della Giustizia, nella persona di Giovanni Maria Flick, il quale evitò la scarcerazione dell'ex ufficiale tedesco, facendo in modo che un nuovo processo lo condannasse all'ergastolo».
L'assoluzione in primo grado di Priebke fu decisa da una sentenza di primo grado di un tribunale militare, del tutto estraneo alla giurisdizione ordinaria e al ministero della Giustizia (peraltro quasi sempre estraneo rispetto alle decisioni giurisdizionali) anche solo sul piano organizzativo e logistico. In attesa del processo d'Appello, Priebke sarebbe dovuto giustamente tornare libero, «salvo che non detenuto per altra causa», come sempre dispongono le sentenze di assoluzione, ordinarie o militari, nei confronti di imputati detenuti.
Non c'è dubbio che la rimessione in libertà di Priebke, unita alle (peraltro prevedibili e comprensibili) proteste della comunità ebraica che in quella notte del primo agosto 1996 stavano ponendo seri problemi di ordine pubblico, rappresentava anche una rilevante questione politica. E non solo per la situazione «di piazza», ma anche sul piano delle relazioni internazionali. Quando Priebke era stato scoperto in Argentina, non soltanto l'Italia ma anche la Germania ne aveva chiesto l'estradizione. E i fatti contestati dalla Germania non erano gli stessi del processo italiano. L'estradizione fu concessa verso l'Italia, e finché Priebke era detenuto non vi era motivo di porsi il problema dell'altra richiesta di estradizione. Nel momento in cui Priebke tornava libero (sia pure per effetto di una sentenza appellabile e che in effetti sarebbe stata capovolta nel giudizio di Appello) era dovere dell'Italia assicurarne la custodia e la reperibilità in attesa della decisione sulla richiesta tedesca.
È l'unica materia in cui il codice di procedura penale prevede una legittima interferenza del potere politico, proprio per il rilievo internazionale dei provvedimenti. Il ministro della Giustizia può infatti far decadere l'arresto disposto dalla polizia giudiziaria, in pendenza della richiesta straniera. Ma, se il ministro non si avvale di tale potere, l'arresto deve essere confermato entro pochi giorni dalla corte d'Appello, e cioè da un giudice al quale spetta sempre l'ultima parola. E così avvenne: l'arresto fu convalidato. Io mi ero «limitato» a far sapere al capo della polizia che, in caso di arresto, non avrei fatto decadere il provvedimento di polizia. L'Italia, in quel periodo, era anche sotto osservazione per l'ammissione allo Spazio Schengen, in particolare sui temi dello scambio e della protezione dei dati personali, e della cooperazione in materia giudiziaria.
La vicenda, me ne rendo conto, è oltremodo tecnica; ma è anche politica e lei giustamente l'ha ricordata. E però non fu risolta attraverso forzature giuridiche o atti degni di un regime autoritario. Per chi volesse saperne di più, almeno dal mio punto di vista, e se mi consente di citare un quotidiano a lei concorrente, rinvio alla lunga intervista con il direttore Maurizio Molinari, su La Repubblica del 9 maggio scorso (proprio per i 25 anni dall'inizio del processo).
Ma c'è una seconda, e direi prevalente ragione per la quale le chiedo ospitalità. E riguarda proprio la liberazione di Brusca. Ho sempre pensato che solo la finalità rieducativa della pena rende legittimo il carcere, per chiunque e per qualsiasi reato. E questo attraverso l'adesione al «trattamento» (che è cosa diversa dal «pentimento» e dalla collaborazione) e al percorso rieducativo (che è cosa diversa dalla «protezione»). In assenza di ciò, l'ergastolo sarebbe incostituzionale. La stessa Corte costituzionale lo ha sempre dichiarato legittimo solo perché la durezza del principio è temperata dal suo carattere eventuale, sia per le condanne «ordinarie» sia per quelle legate alla criminalità organizzata di tipo mafioso. Ciò che è in discussione, infatti, anche dopo la recente sentenza costituzionale che ha dato un anno di tempo al Parlamento per intervenire in modo organico, non sta nell'ergastolo ostativo in sé, ma nel suo automatismo a causa della mancata collaborazione (anche quando non sia «esigibile» o comunque possibile) rispetto alla quale non è consentita la valutazione caso per caso del giudice di sorveglianza. E proprio questa situazione, in atto ormai da numerosi anni, mi ha anche indotto a modificare pubblicamente la mia posizione sull'argomento, rispetto a quanto ora vorrei ricordare.
Nel 1998, quando il Senato approvò l'abolizione dell'ergastolo (con un disegno di legge mai discusso alla Camera e poi decaduto con la legislatura), intervenni in Aula per esprimere la piena condivisione sui princìpi ispiratori della riforma, ma anche la mia personale contrarietà (a nome del governo, invece, mi rimisi alla volontà dell'Assemblea), motivata dal fatto che «l'ergastolo è ormai una pena edittale piuttosto che una pena effettiva», com'era dimostrato dal fatto che in quel momento, su 875 detenuti condannati all'ergastolo, solo quattro lo erano da più di 30 anni, e la metà del totale era già stata ammessa a misure detentive extracarcerarie. «Chiunque si accinga a compiere determinati orribili reati», aggiunsi, «deve poter sapere che la comunità è disposta in via di principio a punire quelle lesioni del patto sociale anche con sanzioni senza termine, pur senza mai rinunciare a offrire percorsi di reinserimento». Il «fine pena mai» deve essere solo una eventualità, ma «credo sia giusto che essa rappresenti almeno un'ipotesi e una prospettiva possibili per chiunque si accinga a offendere vilmente la libertà, l'integrità, l'innocenza altrui, così insidiando la stessa convivenza civile; […] per quanti utilizzino la forza di intimidazione, organizzazioni e strumenti di tipo bellico per commettere atti di terrorismo e stragi di mafia. Penso a quanti decidono e a quanti operano per far esplodere bombe nelle stazioni, sui treni, nei centri storici, seminando morte e terrore; a chi persegue l'annientamento di servitori dello Stato «colpevoli» di ostacolare le loro attività criminali; […] a chi arrivi al punto di sopprimere bambini dopo aver abusato del loro corpo o della loro fragilità».
Come vede pensavo anche al piccolo Di Matteo, senza escludere però che perfino l'autore di quello e di altre centinaia di violenze indicibili potesse incamminarsi lungo un percorso di recupero, e non solo di collaborazione, che ha trovato riscontro in sentenze e provvedimenti di protezione. Non sta a me dire quanto quel percorso sia stato genuino e quanto significativo il contributo (c'è chi ne dubita, fra magistrati impegnati nel contrasto alla mafia). Ma non ho dubbi che perfino una modifica legislativa, da lei e da molti invocata, non potrebbe e non avrebbe potuto applicarsi retroattivamente a Giovanni Brusca, a causa dei reati per i quali ha scontato la pena carceraria.
La ringrazio per l'ospitalità.
Caro Salvatore Buzzi, nel caso di Giovanni Brusca non ho mai avuto dubbi sul punto che la legge fosse stata rispettata e infatti, pur ritenendo che la sua scarcerazione sia uno scandalo, non me la sono presa con i magistrati che lo hanno posto in libertà. Però me la prendo con i politici che, pur indignandosi per la sua uscita dal carcere, non hanno mosso un dito per cambiare la norma che premia un uomo ritenuto colpevole di aver strangolato e sciolto nell'acido un ragazzino di 14 anni. Eh, già. Il punto è questo. Lei riassume benissimo i termini della questione. Brusca è stato condannato all'ergastolo per i molti omicidi a cui ha partecipato tra i quali, ricordo, anche le stragi di Capaci e di via D'Amelio in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre alla moglie del primo e agli agenti di scorta di entrambi. Siccome in Italia l'ergastolo, che in altri Paesi consiste in un fine pena mai e da noi si traduce in soli trent'anni, non si somma, cioè non viene cumulato ad altre condanne, alla fine il massimo che può essere chiamato a scontare un assassino si riduce dunque a tre decenni e questo è ciò che è stato inflitto a Brusca. Tuttavia, come lei ricorda, grazie a una legislazione che premia chi dietro le sbarre si comporta bene, i trent'anni possono diventare 25 o anche meno, perché per ogni sei mesi trascorsi in prigione si può ottenere uno sconto di 45 giorni. In pratica, dietro le sbarre un anno si accorcia di un terzo e dopo 25 la pena abbuonata supera i sei. Insomma per la legge, Brusca ha scontato la sua condanna e dopo cinque lustri può dirsi un uomo libero. Anche se ha strangolato Giuseppe Di Matteo, cioè un bambino, dopo averlo tenuto in catene dentro una buca per due anni. Anche se ha sciolto il suo cadavere nell'acido. Anche se così ha impedito alla famiglia del piccolo, «colpevole» solo di essere figlio di un pentito di mafia, di piangere su una tomba. Anche se ha torturato e ucciso altre vittime innocenti. Anche se ha premuto il pulsante che ha fatto saltare in aria l'auto di Falcone e ha contribuito a una serie sterminata di delitti. Sì, nonostante tutto ciò, Brusca ha saldato il proprio conto con la legge.
Ha ragione, caro Buzzi, e io non contesto il fatto. Contesto una legge che ritengo sbagliata, perché un uomo che ha il curriculum di Brusca non può uscire di galera dopo 25 anni per tornare a una vita normale, possibilità che a tutte le sue vittime è stata negata. No, non ce l'ho con i giudici, che applicano ciò che sta scritto nel codice penale. Ce l'ho con i politici, che oggi parlano di pugno nello stomaco e si dichiarano contrari alla scarcerazione di un uomo che secondo Antonio Ingroia, uno che i pentiti li conosce bene, non è un vero pentito. Cari politici, io e i lettori della Verità possiamo parlare di pugno nello stomaco e dirci indignati, non voi. Noi, come tutti gli italiani, siamo spettatori di ciò che accade, ma voi che sedete in Parlamento, voi che siete al governo, non siete spettatori, bensì legislatori. Dunque, se la legge che libera Brusca e tutti gli altri mafiosi non vi piace, se la ritenete sbagliata, dovevate e dovete semplicemente cambiarla.
Troppo comodo dichiarare che il sistema non ha funzionato e che un assassino del calibro di Brusca non dovrebbe tornare a piede libero. Questo lo possono sostenere i commentatori, ma voi cari onorevoli siete pagati per governare e non per commentare. Se del caso, anche con provvedimenti d'urgenza. Ho una certa età e nonostante gli anni godo di una discreta memoria. Dunque, ricordo quando il tribunale militare giudicò Erich Priebke, uno dei nazisti che eseguirono le sentenze di morte alle fosse Ardeatine. Per quella strage fu estradato e processato e quando i giudici lo prosciolsero, per contenere l'onda dell'indignazione popolare intervenne il ministro della Giustizia, nella persona di Giovanni Maria Flick, il quale evitò la scarcerazione dell'ex ufficiale tedesco, facendo in modo che un nuovo processo lo condannasse all'ergastolo, che scontò agli arresti domiciliari fino all'ultimo dei suoi giorni. Non sto appaiando la storia di Priebke a quella di Brusca, né l'eccidio nazista a quelli mafiosi. Ma quando la politica vuole, le soluzioni per scavalcare la legge le sa trovare. Se Brusca è libero e, come abbiamo raccontato su La Verità, altri criminali si apprestano a essere scarcerati, la colpa non è della legge, ma della politica, che sa solo stupirsi il giorno dopo e non sa mai fare nulla il giorno prima.
Vede, caro Buzzi, sono d'accordo su quasi tutto ciò che lei scrive nella sua lettera, tranne che sull'ultima parte. Quella in cui lei dice che 25 anni sono tanti da trascorrere dietro le sbarre. Per un assassino seriale, che ha sulla coscienza lo strazio di un bambino rapito con l'inganno, per me continuano invece a essere troppo pochi.







