2021-06-05
Caro Belpietro, non fui io a tenere Priebke in cella
Avrei potuto far decadere il suo arresto, dovuto alla richiesta di estradizione della Germania. Mi limitai solo ad astenermi.Caro direttore, il suo editoriale di ieri sulla liberazione di Giovanni Brusca contiene una imprecisione che mi riguarda, e mi permetta di dirle che «la discreta memoria» alla base del suo ricordo, in questo caso l'ha tradita.Ammonendo (giustamente) la politica ad assumersi la responsabilità delle leggi e delle decisioni, anziché «indignarsi per la sua uscita dal carcere», senza però aver «mosso un dito per cambiare la norma», lei ricorda il precedente del caso Priebke, quando «per contenere l'onda dell'indignazione popolare intervenne il ministro della Giustizia, nella persona di Giovanni Maria Flick, il quale evitò la scarcerazione dell'ex ufficiale tedesco, facendo in modo che un nuovo processo lo condannasse all'ergastolo».L'assoluzione in primo grado di Priebke fu decisa da una sentenza di primo grado di un tribunale militare, del tutto estraneo alla giurisdizione ordinaria e al ministero della Giustizia (peraltro quasi sempre estraneo rispetto alle decisioni giurisdizionali) anche solo sul piano organizzativo e logistico. In attesa del processo d'Appello, Priebke sarebbe dovuto giustamente tornare libero, «salvo che non detenuto per altra causa», come sempre dispongono le sentenze di assoluzione, ordinarie o militari, nei confronti di imputati detenuti. Non c'è dubbio che la rimessione in libertà di Priebke, unita alle (peraltro prevedibili e comprensibili) proteste della comunità ebraica che in quella notte del primo agosto 1996 stavano ponendo seri problemi di ordine pubblico, rappresentava anche una rilevante questione politica. E non solo per la situazione «di piazza», ma anche sul piano delle relazioni internazionali. Quando Priebke era stato scoperto in Argentina, non soltanto l'Italia ma anche la Germania ne aveva chiesto l'estradizione. E i fatti contestati dalla Germania non erano gli stessi del processo italiano. L'estradizione fu concessa verso l'Italia, e finché Priebke era detenuto non vi era motivo di porsi il problema dell'altra richiesta di estradizione. Nel momento in cui Priebke tornava libero (sia pure per effetto di una sentenza appellabile e che in effetti sarebbe stata capovolta nel giudizio di Appello) era dovere dell'Italia assicurarne la custodia e la reperibilità in attesa della decisione sulla richiesta tedesca. È l'unica materia in cui il codice di procedura penale prevede una legittima interferenza del potere politico, proprio per il rilievo internazionale dei provvedimenti. Il ministro della Giustizia può infatti far decadere l'arresto disposto dalla polizia giudiziaria, in pendenza della richiesta straniera. Ma, se il ministro non si avvale di tale potere, l'arresto deve essere confermato entro pochi giorni dalla corte d'Appello, e cioè da un giudice al quale spetta sempre l'ultima parola. E così avvenne: l'arresto fu convalidato. Io mi ero «limitato» a far sapere al capo della polizia che, in caso di arresto, non avrei fatto decadere il provvedimento di polizia. L'Italia, in quel periodo, era anche sotto osservazione per l'ammissione allo Spazio Schengen, in particolare sui temi dello scambio e della protezione dei dati personali, e della cooperazione in materia giudiziaria. La vicenda, me ne rendo conto, è oltremodo tecnica; ma è anche politica e lei giustamente l'ha ricordata. E però non fu risolta attraverso forzature giuridiche o atti degni di un regime autoritario. Per chi volesse saperne di più, almeno dal mio punto di vista, e se mi consente di citare un quotidiano a lei concorrente, rinvio alla lunga intervista con il direttore Maurizio Molinari, su La Repubblica del 9 maggio scorso (proprio per i 25 anni dall'inizio del processo).Ma c'è una seconda, e direi prevalente ragione per la quale le chiedo ospitalità. E riguarda proprio la liberazione di Brusca. Ho sempre pensato che solo la finalità rieducativa della pena rende legittimo il carcere, per chiunque e per qualsiasi reato. E questo attraverso l'adesione al «trattamento» (che è cosa diversa dal «pentimento» e dalla collaborazione) e al percorso rieducativo (che è cosa diversa dalla «protezione»). In assenza di ciò, l'ergastolo sarebbe incostituzionale. La stessa Corte costituzionale lo ha sempre dichiarato legittimo solo perché la durezza del principio è temperata dal suo carattere eventuale, sia per le condanne «ordinarie» sia per quelle legate alla criminalità organizzata di tipo mafioso. Ciò che è in discussione, infatti, anche dopo la recente sentenza costituzionale che ha dato un anno di tempo al Parlamento per intervenire in modo organico, non sta nell'ergastolo ostativo in sé, ma nel suo automatismo a causa della mancata collaborazione (anche quando non sia «esigibile» o comunque possibile) rispetto alla quale non è consentita la valutazione caso per caso del giudice di sorveglianza. E proprio questa situazione, in atto ormai da numerosi anni, mi ha anche indotto a modificare pubblicamente la mia posizione sull'argomento, rispetto a quanto ora vorrei ricordare.Nel 1998, quando il Senato approvò l'abolizione dell'ergastolo (con un disegno di legge mai discusso alla Camera e poi decaduto con la legislatura), intervenni in Aula per esprimere la piena condivisione sui princìpi ispiratori della riforma, ma anche la mia personale contrarietà (a nome del governo, invece, mi rimisi alla volontà dell'Assemblea), motivata dal fatto che «l'ergastolo è ormai una pena edittale piuttosto che una pena effettiva», com'era dimostrato dal fatto che in quel momento, su 875 detenuti condannati all'ergastolo, solo quattro lo erano da più di 30 anni, e la metà del totale era già stata ammessa a misure detentive extracarcerarie. «Chiunque si accinga a compiere determinati orribili reati», aggiunsi, «deve poter sapere che la comunità è disposta in via di principio a punire quelle lesioni del patto sociale anche con sanzioni senza termine, pur senza mai rinunciare a offrire percorsi di reinserimento». Il «fine pena mai» deve essere solo una eventualità, ma «credo sia giusto che essa rappresenti almeno un'ipotesi e una prospettiva possibili per chiunque si accinga a offendere vilmente la libertà, l'integrità, l'innocenza altrui, così insidiando la stessa convivenza civile; […] per quanti utilizzino la forza di intimidazione, organizzazioni e strumenti di tipo bellico per commettere atti di terrorismo e stragi di mafia. Penso a quanti decidono e a quanti operano per far esplodere bombe nelle stazioni, sui treni, nei centri storici, seminando morte e terrore; a chi persegue l'annientamento di servitori dello Stato «colpevoli» di ostacolare le loro attività criminali; […] a chi arrivi al punto di sopprimere bambini dopo aver abusato del loro corpo o della loro fragilità». Come vede pensavo anche al piccolo Di Matteo, senza escludere però che perfino l'autore di quello e di altre centinaia di violenze indicibili potesse incamminarsi lungo un percorso di recupero, e non solo di collaborazione, che ha trovato riscontro in sentenze e provvedimenti di protezione. Non sta a me dire quanto quel percorso sia stato genuino e quanto significativo il contributo (c'è chi ne dubita, fra magistrati impegnati nel contrasto alla mafia). Ma non ho dubbi che perfino una modifica legislativa, da lei e da molti invocata, non potrebbe e non avrebbe potuto applicarsi retroattivamente a Giovanni Brusca, a causa dei reati per i quali ha scontato la pena carceraria. La ringrazio per l'ospitalità.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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